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QUINTO CONGRESSO MONDIALE DI METAFISICA
[Roma, 8-10 novembre 2012]

Dall’esperienza del mondo
alla conoscenza di Dio

+ Gerhard L. Müller 

Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

 

«La vita è troppo breve perché si beva vino cattivo». In tale pittoresco adagio si rispecchiano le multicolori visioni del mondo di stampo epicureo che caratterizzano le élites postmoderne. All’infantile caparbietà di simile nichilismo, vorrei qui opporre l’ottimismo della visione cristiana del mondo e dell’uomo. Quell’ottimismo che san Paolo esprime con entusiasmo nella Lettera ai Romani: «Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» (12,12-13). È un fatto che la vita dell’uomo sulla terra sia breve, e quanto più passano i suoi giorni, tanto più ciascuno percepisce la brevitas vitae come una sfida esistenziale.

Ma proprio questo è il punto: merita profittare del tempo quale risorsa per destarsi dal sonno dell’ideologia dell’autorealizzazione e dell’uomo che si costruisce da sé. «La vita è troppo breve perché ci si logori con una cattiva filosofia». Infatti, per dirla con parole di Gaudium et spes, «di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più fondamentali: cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?» (GS, 10).

Perché libri del tipo Il gene egoista o L’illusione di Dio di Richard Dawkins o Dio non è grande di Christopher Hitchens figurano nelle liste dei bestseller? Perché giustificano in modo apparentemente scientifico il processo di scristianizzazione della civiltà europea e nordamericana, cominciato nel diciassettesimo secolo, e promuovono uno stile di vita edonistico improntato all’utile e al profitto quale indice di morale filantropica e umanitaria.

Il cosiddetto “neo-ateismo” non offre, a dire il vero, nessun tipo di nuove fondazioni, che già non sia possibile ritrovare chiaramente formulate in David Hume e in tutti coloro che da allora in poi sono appartenuti e appartengono alla schiera degli empiristi e dei materialisti. Semplicemente ci si sforza, nell’orizzonte della teoria evoluzionistica e della neurofisiologia, di estendere l’approccio tipico delle scienze naturali, così che astrofisica, biologia e ricerche sul cervello determinino una visione del mondo scientifica e, come si pretende, oggettiva, in cui non si dia più posto alcuno per l’uomo quale persona come soggetto responsabile di atti, e per il suo rapporto personale con Dio. Simile visione del mondo pseudo-scientifica propagandata dal neo-ateismo viene ai nostri giorni esaltata come programma di opinione da imporre all’intera umanità, per cui, se qualcuno crede all’esistenza di un Dio personale, a costui non deve essere concesso diritto d’esistenza né mentale, avendo contratto un “virus divino” che richiede di essere isolato, né fisica, e deve perciò essere considerato un parassita. Volgendo uno sguardo retrospettivo sull’ateismo politico coltivato dal nazionalsocialismo in Germania o sul programma stalinista di estinzione della Chiesa, realizzato nell’Unione Sovietica, risulta ancora più evidente il carattere disumano e intollerante di tale neo-ateismo. Appare infatti chiaro che il cosiddetto ateismo scientifico difficilmente può opporre resistenza al suo stesso trasformarsi in ateismo quale visione globale del mondo e dunque quale programma politico-totalitario di assoluta disumanità.

All’inizio dell’epoca moderna si colloca l’opposizione tra empirismo e razionalismo e con ciò il tentativo di risolvere il dualismo in favore di uno dei due modi d’accesso alla realtà. Può il pensiero appropriarsi del mondo materiale come di un momento del suo stesso porsi oppure, proprio all’inverso, la ragione, il soggetto, altro non è che funzione del processo evolutivo? L’uomo, come soggetto pensante, è solo parte di un momento di differenziazione della materia, sottoposto alla legge della selezione naturale quale prodotto, privo di sostanza, di una totalità olistica onnicomprensiva? È solo funzione parziale del tutto che la scienza, con l’ausilio dell’educazione politica, s’incarica di rendere felice?

Robert Spaemann ha ben sintetizzato il concetto di modernità nelle sue ripercussioni negative sull’uomo come persona, quale essere dotato di capacità intellettuali e morali proprie: «La visione scientifica del mondo sottrae all’io e al tu, alla breve vita del singolo, la sua gravità e il suo significato, quello di essere la rappresentazione unica dell’incondizionato, a vantaggio di uno svolgimento collettivo, che vale in se stesso come vero e proprio portatore di senso» (Gesammelte Reden und Aufsätze I, 14). Tale approccio ha la sua radice, tra l’altro, nell’empirismo di David Hume, secondo il quale «we never advance one step beyond ourselves» (cfr. Gesammelte Reden und Aufsätze II, 9), visione riduttiva che non tiene conto della evidente capacità dell’intelletto di sporgersi oltre l’immediato.

Per ciò che riguarda la condizione di fondo dell’uomo come essere essenziale dotato di tendenza verso la conoscenza della verità e il compimento del bene e dunque verso la realizzazione della propria persona che sussiste in una natura corporeo-spirituale, di tutto ciò non si occupano minimamente le scoperte della recente ricerca di tipo evoluzionistico e della neurobiologia, limitandosi esse a considerare le condizioni materiali della ragione e degli atti di volontà dell’uomo, la cui interpretazione pseudoscientifica viene a sovrapporsi a una filosofia improntata al materialismo monistico. Il vero progetto della modernità, con il suo innegabile valore umanizzante, raggiunge il suo scopo soltanto se la diastasi tra l’empirismo, con i suoi derivati del materialismo e del positivismo, e il razionalismo, che ha di suo la tendenza a trasformarsi in monismo di stampo idealistico, sarà superata.

L’uomo non può risolversi completamente come puro oggetto nella ricerca che egli conduce sulla natura, la storia, la cultura, la morale, se stesso in quanto considerato nel proprio corpo e nella propria psiche, perché come soggetto conoscente egli rimane sempre colui nella cui mente viene compreso l’oggettivamente conosciuto. L’uomo, come essere collocato nella natura materiale e temporale, non può neppure mai rinunciare, d’altra parte, alla mediazione sensibile con il suo contesto materiale e sociologico, che sostiene le condizioni materiali del suo esserci.

Per garantire il progetto moderno della libertà dell’individuo dalla collettività, della coscienza personale rispetto alla legge meramente positiva, della dignità inalienabile di ogni uomo rispetto alla strumentalizzazione d’interessi di gruppo (classe, popolo, capitale, ecc.), è indispensabile una metafisica del reale così come un’antropologia della trascendenza dell’uomo verso la fonte indisponibile di tutta la creazione. Una metafisica dell’essere e la conoscenza di Dio, nel senso della teologia filosofica, non sono solo d’interesse storico, ma la condizione di possibilità per cui il progetto della modernità non naufraga nella dialettica dell’illuminismo. Per questo, ai nostri giorni, come all’inizio del cristianesimo, più importante del dialogo con le religioni, pare quello con la ragione umana come tale, al fine di ritrovare un accesso integrale alla realtà data, ciò che apre le porte all’elaborazione di una teologia naturale.

Non dobbiamo ritornare a una forma passata di metafisica, per mostrare la ragionevolezza di tale approccio e dei contenuti della rivelazione soprannaturale di Dio in Gesù Cristo, di fronte alla visione del mondo derivata dalle scienze naturali e alla riflessione filosofica scaturita dalla modernità. Partiamo invece dall’esperienza del mondo reale nell’intento di giungere a un’auto-comprensione riflessa – ciò che l’essere “spirito” rende all’uomo possibile – e a una conoscenza di Dio, non com’è in se stesso, ma in quanto il mondo si pone in relazione con Lui, quale origine e termine di tutto l’essere finito, incluso l’uomo. L’uomo riconosce se stesso come persona solo alla luce di tale orientazione trascendente. Solo in Dio incontra la pace nella sua ricerca della verità e nella sua tensione al bene.

Il discorso su Dio non può dunque cominciare dal suo puro essere-in-sé, come se potessimo astrarre dal mondo esistente. La ragione finita e creaturale comincia sempre dall’esperienza del mondo già esistente. «Dio» sta qui a significare il punto di provenienza dell’essere e dello spirito, senza essere da parte sua una specie di oggetto mondano che viene solo aggiuntivamente conosciuto. L’uomo è sì in linea di principio e costitutivamente determinato, come spirito, dal riferimento a Dio, per lui inevitabile e di cui non può disporre. Egli deve però prender coscienza a posteriori di tale momento aprioristico e trascendentale della sua auto-attuazione. Con ciò Dio non diventa un oggetto categoriale: appare solo come l’orizzonte non abbracciabile verso cui ci muoviamo e da cui sappiamo di derivare in un senso assoluto. Lo spirito non si trascende però solo intenzionalmente in direzione dell’infinito, ma si sa costituito proprio nella sua intenzionalità dall’assoluto non mondano di Dio. Esso si coglie in ultima analisi solo mediante la realtà del Dio trascendente.

Noi concepiamo il concetto di «Dio» come la condizione reale del nostro essere come spirito nel mondo e quindi anche come la condizione della realtà finita. Mentre Dio è la propria essenza mediante l’assoluto possesso dell’essere, il mondo è realtà mediante una ricezione dell’essere sotto forma di partecipazione all’essere che lo rende finito. Il mondo partecipa all’essere di Dio, perché può esistere mediante la volontà di Dio, e precisamente nel modo della finitezza, mentre Dio sussiste mediante se stesso, in se stesso, in virtù di se stesso e attraverso la sua propria realtà (cfr. Ef 4,6). Egli è ipsum esse per se subsistens. La natura spirituale dell’uomo, dal canto suo, è il principio che rende finito e concreto il modo della sua partecipazione all’essere spirituale di Dio. E mentre egli come spirito è affidato direttamente a se stesso e può direttamente disporre di sé, del suo essere spirituale fa costitutivamente parte anche il riferimento all’origine dell’essere in generale. Questa relazione con Dio costituisce – anche laddove essa non diventa tematica – la sussistenza-in-sé, il presupposto e la condizione di ciò che noi chiamiamo essere personale.

L’azione creatrice di Dio è il permanente inserimento del mondo nell’attualità di Dio e la sua realizzazione mediante Dio. Per questo non esiste alcuna contraddizione tra l’affermazione della creazione attraverso il logos e il sostegno che il logos creatore offre a tutte le cose nel processo della loro evoluzione. Nell’uomo la storia naturale dell’essere trapassa nella storia dello spirito e l’uomo non può perciò che concepirsi come ricezione spirituale perfetta dell’essere reale da parte della sua essenza, in cui egli sussiste come persona, nel modo, cioè, dell’essere-presso-di-sé. L’auto-trascendenza della persona creata in direzione della partecipazione spirituale all’attualità di Dio si rende possibile perché la creazione è, implicitamente, auto-manifestazione di Dio. La creazione dell’essere e dello spirito finito indica perciò già in sé l’apertura di un orizzonte illimitato per un’esplicita auto-manifestazione di Dio nella sua PAROLA. In altre parole, il creatore del mondo, della natura e dell’uomo viene incontro all’uomo in maniera personale come il compimento dell’auto-trascendenza che determina lo spirito creato, attirato dallo Spirito increato.

L’atto unico, atemporale e indivisibile della creazione coincide, al di fuori delle cose create, con l’attualità di Dio. Nella misura in cui l’attualità infinita dell’essere è realizzata in modo finito nelle cose create, queste non fanno adeguatamente parte dell’auto-illuminazione divina; ma nella misura in cui partecipano all’essere di Dio, sono mezzi creaturali con cui perveniamo a conoscere e amare Dio. La conoscenza e l’amore di Dio si manifestano nel modo più profondo come partecipazione creaturale all’auto-conoscenza e all’auto-approvazione di Dio. Per questo, l’auto-attuazione creaturale esplicita di uno spirito creato non è altro che un evento, in cui Dio stesso si fa conoscere e amare. Così leggiamo in Rm 1,19-20: «Poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità». E in Atti 17,26b-28a: «Per essi [gli uomini] ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo».

Concretamente, l’uomo non sussiste mai in un’effettività astratta dell’esistenza, ma già da sempre assieme all’attualizzazione della sua esistenza, come di un movimento dinamico che tende a completarsi nell’altro. Se però separiamo astrattamente la semplice costituzione (perfectio formae) della sua attuazione (operatio in perfectionem finis), essa si chiama natura; in quanto però questa natura è caratterizzata assieme alla sua attualità come movimento verso la presenza di Dio e verso il compimento ad opera di Dio, parliamo di grazia. L’uomo, se nella sua auto-attuazione come libertà e spirito si allontana da Dio, perde la grazia e cade nella colpa (defectus gratiae). Di fronte al peccato e nella situazione della perdita di Dio da parte dell’uomo, la presenza salvifica permanente di Dio nel suo mondo assume il carattere di redenzione. L’attualità creatrice di Dio, mediante cui la creatura sussiste, si rivela adesso come perdono e riconciliazione. Il peccatore incontra il suo creatore nel suo redentore. La presenza originaria per grazia di Dio nella creazione – nella sua attualità e nel mezzo delle realtà creaturali – è adesso di nuovo accessibile ma, in concreto, sotto forma di grazia di Gesù Cristo. Nel Verbo eterno incarnato di Dio e nello Spirito Santo di Dio effuso nei cuori, i giustificati partecipano ora all’auto-rivelazione e all’auto-approvazione di Dio, che s’inverano e si mediano nel mondo della storia della salvezza. L’attività creatrice di Dio nella parola, che adesso ci viene incontro nel modo della redenzione, assume direttamente una realtà creaturale in Gesù. In Gesù il peccatore incontra perciò un mezzo creaturale fatto totalmente proprio da Dio, un mezzo che lo mette direttamente a contatto con il creatore quale Dio redentore. In questo modo Gesù viene a essere il compimento, la redenzione e la fondazione che ricrea la natura spirituale e la sua auto-trascendenza creaturalmente mediata verso la vicinanza immediata a Dio.

La trascendenza e l’immanenza di Dio stanno tra di loro in un rapporto inversamente proporzionale. Solo perché Dio è assolutamente trascendente rispetto al mondo, può anche essere in esso immanente in un senso insuperabile. La conservazione del mondo (creatio continua) non va quindi concepita come una serie di singoli atti creatori, ma consiste nella presenza atemporale e indivisibile dell’attualità creatrice in seno alla sussistenza e al movimento del mondo. Dio è la causa prima, che non annulla le causae secundae creaturali (forma, materia, causalità, finalità), bensì le rende capaci di operare autonomamente come soltanto Lui è in grado di fare. L’“intervento” di Dio nel mondo non può mai significare una sospensione della causalità creaturale. Dio può però fare della causalità creaturale la causa strumentale della sua specifica volontà salvifica nei confronti dell’uomo, di quell’uomo che non possiede aggiuntivamente, oltre la sua esistenza materiale, anche una libertà spirituale, possedendo egli bensì la libertà come forma concreta della sua esistenza. L’uomo non solo ha, ma piuttosto è spirito e libertà, per quanto soltanto in modo finito.

Poiché il Dio trascendente tutto muove, e precisamente secondo la natura creata di ogni ente finito, muove anche l’uomo in conformità alla sua libera natura spirituale. La pre-destinazione non elimina la libertà, ma abilita a fare della volontà salvifica universale, mediante la sua accettazione nella fede, il principio dell’auto-movimento dello spirito in direzione del fine promesso.

Il rapporto tra la produzione assoluta dell’uomo e della sua libertà ad opera di Dio e l’auto-movimento spirituale dell’uomo, che costituisce la sua libertà, potrebbe essere così espresso: Dio non esercita alcun influsso fisicamente misurabile sulla libertà creata, andandole invece incontro come motivo (movens) del suo agire. Dio, quando mi viene liberamente incontro nella parola divina che lo esprime, si attualizza sempre come compimento della mia libertà: Dio e la sua libertà permettono al movimento dinamico della libertà creaturale di attuarsi pienamente al di là dei suoi limiti creaturali. L’uomo, per il quale Dio è diventato il movente della sua azione e della sua auto-progettazione nel mondo, sa di essere – per dirla in termini biblici – una specie di argilla nelle mani del creatore che lo plasma. Di conseguenza, dice e confessa che Dio opera in lui il volere e l’operare (cfr. Fil 2,13). Nello stesso tempo però, non si vede così esautorato e privato della propria libertà e personalità. Al contrario, si sperimenta piuttosto come abilitato ad attuare la propria libertà. Nel mentre la attua, sa che soltanto grazie all’auto-donazione di Dio come compimento della sua libertà egli è abilitato ad agire in ordine al fine. L’attuazione che si muove verso il fine è resa possibile solo dalla presenza diretta del fine: la libertà è abilitata dalla grazia ad accogliere, auto-attuandosi, la sua accettazione da parte di Dio. Nella grazia, Dio si rivela come la fonte eterna della libertà creata e come il suo orizzonte eterno sotto forma di amore. La forma della libertà umana, quindi, non si realizza nell’opposizione a Dio, come vorrebbe l’ateismo postulatorio, ma solo sul fondamento della perfetta libertà spirituale di Dio. Se Dio viene esaltato, anche l’uomo viene esaltato di conseguenza. La salvezza dell’uomo non può che arrivare dal Dio che offre liberamente all’uomo la sua grazia.

Paolo pertanto scrive: «Per questa grazia, infatti, siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo, infatti, opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo» (Ef 2,8-10).

Su questa scia, il Concilio Vaticano II insegna: «Ecco: la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto (cfr. 2 Cor 5,15), dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione; né è dato in terra un altro Nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati (cfr. At 4,12). Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana» (Gaudium et spes, 10). Coloro che negano il carattere metafisico della teologia naturale e quindi la possibilità della conoscenza di Dio per mezzo della Rivelazione, tendono spesso a cadere in forme diversificate di pessimismo, sovente di impronta nichilistica o cinica. La visione della Chiesa, invece, attinge a quella pienezza che, per grazia di Gesù Cristo, abbiamo ricevuto (cfr. Gv 1,16). In tal senso, è la Chiesa la promotrice della vera “modernità”, in cui la speranza torna per tutti possibile nell’apertura a Dio, futuro dell’uomo. Cristo è «la vera vite» (Gv 15,1), che offre «il vino buono» (Gv 2,10), necessario per la vita del mondo.

 
 

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