The Holy See
back up
Search
riga

Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale

Napoli - Lunedì, 25 novembre 2013


 

«DAL DIO DEI MORTI AL DIO DEI VIVENTI»

lectio magistralis

di

 

S. Ecc.za Mons. Gerhard Ludwig Müller

Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

 

«La vita è troppo breve perché si beva vino cattivo», amava dire Johann Wolfgang von Goethe. Curioso adagio, in cui si rispecchia la concezione del mondo epicurea e il nichilismo quasi infantile per la sua cocciutaggine, proprio di molte attuali élites postmoderne.

Rispetto a tale posizione, la visione cristiana del mondo e dell’uomo risuona come un bel canto alla vita e all’ottimismo. Quell’ottimismo che san Paolo esprime con entusiasmo nella Lettera ai Romani: «Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» (12,12-13).

È un fatto che la vita dell’uomo sulla terra sia breve, e quanto più passano i suoi giorni, tanto più ciascuno percepisce la brevitas vitae come una sfida esistenziale. Proprio questo è però il punto: il tempo è la risorsa che ci è data per destarci dal sonno dell’ideologia dell’autorealizzazione o, detto altrimenti, dalla pretesa che l’uomo possa costruirsi poggiando unicamente sulle sue forze. Potremmo perciò ribattere: «La vita è troppo breve perché ci si logori con una cattiva filosofia». La Costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II afferma a tal proposito: «Di fronte all’evoluzione attuale del mondo, diventano sempre più numerosi quelli che si pongono o sentono con nuova acutezza gli interrogativi più fondamentali: cos’è l’uomo? Qual è il significato del dolore, del male, della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a così caro prezzo? Che apporta l’uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci sarà dopo questa vita?» (GS, 10).

L’ateismo afferma che Dio non esiste. E fin qui, nessuna novità. Basti ricordare il salmo davidico che da tremila anni proclama: «Lo stolto pensa: “Non c’è Dio”». Le statistiche più recenti attestano un aumento vertiginoso di “convertiti” all’ateismo. Perché sempre più persone si dichiarano atee? Davvero l’ateismo è l’atteggiamento più logico, come gli atei affermano? Perché libri del tipo Il gene egoista o L’illusione di Dio di Richard Dawkins o Dio non è grande di Christopher Hitchens figurano nelle liste dei bestseller?

Benedetto XVI, nella sua lettera al matematico ateo Piergiorgio Odifreddi, ha affermato che la teoria “mimetica” di Richard Dawkins è semplicemente una proposta fantascientifica, degna di una “scienza fiction”. Nelle sue opere, Dawkins sostiene infatti che, proprio come i geni nella procreazione trasmettono l’informazione biologica, così le “copie”, i “mimi”, trasmettono per imitazione l’informazione culturale. Le idee e le opinioni passerebbero dunque da mente a mente come “copie”, come “mimi” invisibili. Ma non basta: Dawkins utilizza simile teoria per criticare la religione, dal momento che, a suo giudizio, le credenze religiose altro non sarebbero che “virus” che infettano l’uomo malato.        

Il Dott. Michael Blume, famoso biologo evolutivo e teologo, ha di recente confermato, dal canto suo, che «l’affermazione di Benedetto XVI è assolutamente pertinente»: né le “copie”, i “mimi”, hanno potuto essere definite, nonostante i numerosi tentativi intrapresi al riguardo, né risulta possibile sostenere che alcun tipo di studio serio li abbia verificati dal punto di vista scientifico empirico. Per contro, mentre tutti i “mimetici” hanno ormai abbandonato già dal 2010 simile teoria, a tutt’oggi solo Richard Dawkins non si è ancora pronunciato circa il suo fallimento scientifico.

Come spiegare questo fatto? Occorre non dimenticare che la giustificazione offerta dall’ateismo moderno circa il processo di scristianizzazione della civiltà europea e nordamericana, cominciato nel diciassettesimo secolo, e la sua conseguente proposta di uno stile di vita edonistico improntato all’utile e al profitto, pretende realizzarsi attraverso forme che di scientifico hanno solo il rivestimento esteriore.

Il cosiddetto “neo-ateismo” non offre, a dire il vero, nessun tipo di nuove fondazioni, che già non sia possibile ritrovare chiaramente formulate in David Hume e in tutti coloro che da allora in poi sono appartenuti e appartengono alla schiera degli empiristi e dei materialisti. Semplicemente ci si sforza, nell’orizzonte della teoria evoluzionistica e della neurofisiologia, di estendere l’approccio tipico delle scienze naturali, così che astrofisica, biologia e ricerche sul cervello determinino una visione del mondo scientifica e, come si pretende, oggettiva, senza rendersi conto che di questo passo all’uomo non sarà più concesso essere “persona”, vale a dire soggetto responsabile dei suoi atti e in grado di intrattenere un rapporto personale con Dio.

Simile visione pseudo-scientifica del mondo propagandata dal neo-ateismo viene ai nostri giorni esaltata come programma di opinione da imporre all’intera umanità. Portata all’estremo, una tale teoria propugna che, se qualcuno crede all’esistenza di un Dio personale, a costui non debba essere concesso diritto d’esistenza né nel mondo della cultura, avendo nell’eventualità contratto un “virus divino” e necessitando perciò di essere posto in quarantena, e neppure di cittadinanza nello stesso mondo naturale degli uomini, per il fatto di essere giudicato come un parassita sociale.

Il carattere intollerante e disumano del neo-ateismo emerge oltremodo evidente se consideriamo l’ateismo politico così come è stato storicamente pianificato dal nazionalsocialismo in Germania o il programma stalinista di estinzione della Chiesa, così come venne realizzato nell’ex-Unione Sovietica. Il cosiddetto “ateismo scientifico” intende cioè sempre imporsi, di fatto, come visione globale del mondo e, per sue caratteristiche intrinseche, come programma politico-totalitario di assoluta disumanità.

All’inizio dell’epoca moderna si colloca l’opposizione tra empirismo e razionalismo e con ciò il tentativo di risolvere il dualismo in favore di uno dei due modi d’accesso alla realtà. Può il pensiero appropriarsi del mondo materiale? Oppure, proprio all’inverso, la ragione è una semplice funzione del processo evolutivo? L’uomo, come soggetto pensante, è solo parte di un momento di differenziazione della materia, sottoposto alla legge della selezione naturale come qualsiasi altro prodotto, privo di sostanza, parte di una totalità integrale che tutto ricomprende?

Robert Spaemann ha ben sintetizzato il concetto di modernità nelle sue ripercussioni negative sull’uomo come persona, quale essere dotato di capacità morali e intellettuali proprie: «La visione scientifica del mondo sottrae l’io e il tu dalla vita breve dell’individuo, dalla sua complessità e dal suo significato, dall’essere la rappresentazione unica dell’incondizionato, a vantaggio di uno sviluppo collettivo, che vale in se stesso come unico portatore veritiero di senso» (Gesammelte Reden und Aufsätze I, 14). L’approccio tipico della modernità ha la sua radice nell’empirismo di David Hume, secondo il quale «non possiamo mai andare oltre noi stessi» (cfr. Gesammelte Reden und Aufsätze II, 9). Occorre sottolineare che simile visione riduzionista non tiene conto della evidente capacità dell’intelletto di andare “più in là” rispetto a ciò che immediatamente appare.       

Le scoperte della recente ricerca di tipo evoluzionistico e della neurobiologia si occupano poco della struttura essenziale dell’uomo come essere dotato di natura corporeo/spirituale e di inclinazione verso la conoscenza della verità e del bene e dunque verso la piena realizzazione personale. Tali ricerche si limitano a considerare le condizioni materiali della ragione e degli atti di volontà dell’uomo, dal punto di vista di una interpretazione pseudo-scientifica che viene a sovrapporsi a una filosofia improntata al materialismo monistico. Data la sua tendenza a convertirsi in un monismo di tipo idealista, il vero progetto della modernità, con il suo innegabile valore umanizzante, potrà raggiungere il suo scopo solo nel momento in cui supera il presupposto dell’empirismo e dei suoi derivati del materialismo, del positivismo e del razionalismo.        

Se vogliamo definire l’uomo nella sua pienezza, non possiamo limitarci a considerarlo come il mero oggetto di ricerche condotte sulla natura, la storia, la cultura e la morale, in quanto egli rimane sempre colui che è in grado di condurre una conoscenza riflessa su di sé. L’uomo, come essere collocato nello spazio e nel tempo, non può rinunciare alla mediazione sensibile del contesto materiale e sociologico, che sostiene le condizioni materiali della sua esistenza. Tuttavia, per garantire sia il progetto della libertà dell’individuo nei confronti della collettività, sia la coscienza personale rispetto alla legge meramente positiva, sia la dignità inalienabile di ogni essere umano rispetto alla strumentalizzazione d’interessi di gruppo (classe, popolo, capitale, ecc.), sono indispensabili una metafisica del reale e un’antropologia della trascendenza dell’uomo, che lo pongano in rapporto con la sorgente della creazione.

Una metafisica dell’essere e della conoscenza di Dio, nello specifico senso elaborato dalla teologia filosofica, non è d’interesse meramente storico, ma la condizione di possibilità perché il progetto della modernità non naufraghi nella sterile dialettica dell’illuminismo. Non per niente il dialogo con la ragione umana è stato più importante del dialogo con le religioni, all’inizio del cristianesimo come ai giorni nostri: solo così infatti viene guadagnato un accesso integrale alla realtà e, di conseguenza, la possibilità di elaborare una effettiva teologia naturale.        

Non si tratta di ritornare a una forma passata di metafisica di fronte alla proposta che le scienze naturali e la riflessione filosofica scaturita dalla modernità offrono della realtà mondana, né per mostrare la ragionevolezza del nostro approccio, né tanto meno per giustificare i contenuti della Rivelazione soprannaturale di Dio in Gesù Cristo. Si tratta piuttosto di partire dall’esperienza del mondo reale, nell’intento di giungere a un’auto-comprensione riflessa, che l’essere “spirito” rende all’uomo possibile, e a una conoscenza di Dio, non com’è in se stesso, ma in quanto il mondo si pone in relazione con Lui, quale origine e termine di tutto l’essere finito, incluso l’uomo. L’uomo riconosce se stesso come persona solo alla luce di tale orientazione trascendente. Quando ricerca la verità e tende al bene, allora è in Dio che l’uomo incontra la pace.        

Il discorso su Dio non può dunque cominciare dal suo puro essere-in-sé, come se potessimo astrarre Dio dal mondo esistente. Se la ragione finita e creaturale comincia sempre dall’esperienza del mondo già esistente, l’affermazione di “Dio” sta qui a significare il punto di provenienza dell’essere e dello spirito, senza che si riduca a una specie di oggetto mondano conosciuto solo in modo accessorio. In quanto principio (di conoscenza), l’uomo è costitutivamente determinato come spirito proprio per l’inevitabile e ineludibile riferimento a Dio. A posteriori, deve prendere coscienza di tale momento aprioristico e trascendente della sua propria realizzazione: solo così Dio appare come l’orizzonte non circoscrivibile verso cui ci muoviamo e da cui sappiamo di derivare in un senso assoluto, senza che si converta in un obiettivo categoriale. Lo spirito si trascende intenzionalmente solo se si direziona verso l’infinito, solo se si riconosce costituito nella sua intenzionalità dall’assoluto extra-mondano di Dio. Esso si coglie in ultima analisi solo mediante la realtà del Dio trascendente.        

Detto con parole di San Giovanni della Croce: «Guardandomi, i tuoi occhi / lor grazia m’infondean; / ormai ben puoi mirarmi / dopo che mi guardasti, / grazia e bellezza in me lasciasti» (Cantico spirituale, 23-24).        

Noi concepiamo il concetto di “Dio” come la condizione reale del nostro essere spirituale nel mondo e quindi anche come la condizione della nostra realtà finita. Mentre Dio è la propria essenza mediante l’assoluto possesso dell’essere, il mondo è realtà finita mediante la ricezione dell’essere sotto forma di partecipazione. Il mondo partecipa all’essere di Dio, in quanto esiste per volontà di Dio, precisamente nella forma della finitezza. Per contro, Dio esiste per se stesso, in se stesso, in virtù di se stesso e per realtà sua propria (cfr. Ef 4,6). Egli è ipsum esse per se subsistens (cfr. San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I pars, q. 44, art. 1).

La natura spirituale dell’uomo, dal canto suo, è il principio che rende finito e concreto il modo della sua partecipazione all’essere spirituale di Dio. Dio, come Spirito, è invece affidato direttamente a se stesso e può direttamente disporre di sé, del suo essere spirituale. Ciò significa che lo spirito forma costitutivamente parte della struttura stessa dell’origine dell’essere. Questa relazione con Dio, anche laddove essa non arriva a porsi in modo tematico, costituisce l’esistenza-in-sé, il presupposto e la condizione di ciò che chiamiamo “essere personale”.        

L’azione creatrice di Dio è il permanente inserimento del mondo in Dio e la sua realizzazione mediante Dio. Per questo non esiste alcuna contraddizione tra l’affermazione della creazione attraverso il Logos e il sostegno che il Logos creatore offre a tutte le cose nel processo della loro evoluzione. Nell’uomo, la storia naturale dell’essere trapassa nella storia dello spirito e l’uomo non può perciò che concepirsi come ricezione spirituale perfetta dell’essere reale da parte della sua essenza, in cui egli esiste come persona, nel modo, cioè, dell’essere-in-se-stesso. La trascendenza della persona creata in direzione della partecipazione alla realtà spirituale di Dio si rende possibile perché la creazione è, implicitamente, auto-manifestazione dell’essere e della bontà di Dio. La creazione dell’essere e dello spirito finito indica l’apertura a un orizzonte illimitato per un’esplicita manifestazione di Dio nella sua parola. O, detto altrimenti, il Creatore del mondo, della natura e dell’uomo viene incontro all’uomo in maniera personale come il compimento dell’auto-trascendenza, ciò che determina lo spirito creato, attirato dallo Spirito increato.        

L’atto unico, atemporale e indivisibile della creazione coincide, al di fuori delle cose create, con l’attualità di Dio. Nella misura in cui l’attualità infinita dell’essere è realizzata in modo finito nelle cose create, queste non fanno adeguatamente parte dell’auto-illuminazione divina; ma nella misura in cui partecipano all’essere di Dio, sono mezzi creaturali con cui perveniamo a conoscere e amare Dio. La conoscenza e l’amore di Dio si manifestano nel modo più profondo come partecipazione creaturale all’auto-conoscenza di Dio. Per questo, la realizzazione creaturale di uno spirito creato non è altro che un evento, in cui Dio stesso si fa conoscere e amare. Così leggiamo in Romani 1,19-20: «Poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità». E in Atti 17,26-28a: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo».        

Concretamente, l’uomo non esiste in una specie di effettività astratta dall’esistenza, ma sempre nella sua realizzazione concreta come di un movimento dinamico che tende a completarsi nell’altro. Per questo chiamiamo “natura” la separazione astratta della semplice costituzione (perfectio formae) rispetto alla sua effettiva realizzazione (operatio in perfectionem finis). In quanto però questa natura si caratterizza come movimento verso la presenza di Dio e verso il compimento della Sua opera, parliamo di grazia. L’uomo, se nella sua realizzazione come libertà e spirito si allontana da Dio, perde la grazia e cade nella colpa (defectus gratiae). Di fronte al peccato e nell’allontanamento da Dio, la presenza salvifica permanente di Dio assume nell’uomo il carattere di redenzione. L’attualità creatrice di Dio, per la quale la creatura esiste, si rivela così come perdono e riconciliazione. Nel suo Redentore, il peccatore incontra il suo Creatore.

La presenza originaria della grazia di Dio nella creazione, nella sua realizzazione e nel mezzo delle realtà creaturali, si rende di nuovo accessibile sotto forma di grazia di Gesù Cristo. Nel Verbo eterno incarnato di Dio e nello Spirito Santo di Dio effuso nei cuori, i giustificati partecipano all’auto-rivelazione del Dio Uno e Trino, e così, in questa storia di salvezza, si rendono presenti nel mondo. L’attività creatrice di Dio nella Parola che ci raggiunge in forma di redenzione, assume direttamente in Gesù una realtà creaturale. In Gesù il peccatore incontra un mezzo creaturale fatto totalmente proprio da Dio, un mezzo che lo mette direttamente a contatto con il Creatore quale Dio Redentore. In questo modo Gesù viene a essere il compimento, la redenzione e la fondazione che ricrea la natura spirituale e la sua auto-trascendenza creaturalmente mediata verso la vicinanza immediata a Dio.        

La trascendenza e l’immanenza di Dio stanno tra di loro in un rapporto inversamente proporzionale. Solo perché Dio è assolutamente trascendente rispetto al mondo, può anche essere in esso immanente in modo insuperabile. La conservazione del mondo (creatio continua) non va quindi concepita come una serie di singoli atti creatori, ma consiste nella presenza atemporale e indivisibile dell’attualità creatrice all’interno dell’esistenza e del movimento del mondo. Dio è la causa prima increata e universale, che non annulla le causae secundae creaturali di forma, materia, causalità e finalità, bensì le rende capaci di operare autonomamente come soltanto Lui è in grado di fare. L’“intervento” di Dio nel mondo non può mai significare una sospensione della causalità creaturale. Dio può però fare della causalità creaturale la causa strumentale della sua specifica volontà salvifica nei confronti dell’uomo, di quell’uomo che possiede la libertà come forma concreta della sua esistenza. L’uomo, dunque, non solo ha, ma piuttosto è spirito e libertà, per quanto soltanto in modo finito. Gli atti dell’auto-rivelazione di Dio nel Suo parlare e agire per la salvezza dell’uomo si realizzano nel mondo, ma non attraverso la casualità creata. Vengono invece dall’uomo conosciuti per la Parola e lo Spirito divino.        

Poiché il Dio trascendente tutto muove precisamente secondo la natura creata di ogni essere finito, muove anche l’uomo in conformità alla sua libera natura spirituale. La pre-destinazione non elimina la libertà, ma abilita a fare della volontà salvifica universale, mediante la sua accettazione nella fede, il principio dell’auto-movimento dello spirito in direzione del fine promesso.        

Il rapporto tra la produzione assoluta dell’uomo, la sua libertà attivata da Dio e l’auto-movimento spirituale dell’uomo che costituisce la sua libertà, potrebbe essere così espresso: Dio non esercita alcun influsso fisicamente misurabile sulla libertà creata, andandole invece incontro piuttosto come motivo (movens) del suo agire. Dio, quando mi viene liberamente incontro nella parola divina che lo manifesta, si attualizza sempre come compimento della mia libertà: Dio e la sua libertà permettono al movimento dinamico della libertà creaturale di realizzarsi pienamente al di là dei suoi limiti creaturali. L’uomo, per il quale Dio è diventato il motivo della sua azione e della sua auto-progettazione nel mondo, sa di essere – per dirla in termini biblici – una specie di “argilla nelle mani del creatore che lo plasma”. Di conseguenza, dice e confessa che Dio opera in lui il volere e l’operare (cfr. Fil 2,13). Nello stesso tempo però, non si vede esautorato o privato della propria libertà e personalità. Al contrario, si sperimenta piuttosto come abilitato ad attuare la propria libertà. E mentre la attua, sa che soltanto grazie all’auto-donazione di Dio come compimento della sua libertà egli è abilitato ad agire in vista del suo fine proprio. L’attuazione si muove verso il suo fine solo per la presenza diretta del fine stesso: la libertà è abilitata dalla grazia ad accogliere, auto-attuandosi, la sua accettazione da parte di Dio. Nella grazia, Dio si rivela come la fonte eterna della libertà creata e come il suo orizzonte eterno sotto forma di amore. La forma della libertà umana, quindi, non si realizza in opposizione a Dio, come vorrebbe l’ateismo, ma solo sulla base della perfetta libertà spirituale di Dio. Se Dio viene esaltato, anche l’uomo viene esaltato di conseguenza. La salvezza dell’uomo non può che arrivare dal Dio che offre liberamente all’uomo la sua grazia.        

San Paolo scrive: «Per questa grazia, infatti, siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo, infatti, opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo» (Ef 2,8-10).

Su questa scia, il Concilio Vaticano II insegna: «Ecco: la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto (cfr. 2 Cor 5,15), dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione; né è dato in terra un altro Nome agli uomini, mediante il quale possono essere salvati (cfr. At 4,12). Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana» (Gaudium et spes, 10).

Coloro che negano il carattere metafisico della teologia naturale e quindi la possibilità della conoscenza di Dio per mezzo della Rivelazione, tendono spesso a cadere in forme variegate di pessimismo, sovente d’impronta nichilistica o cinica. La visione della Chiesa, invece, attinge a quella pienezza che, per grazia di Gesù Cristo, tutti abbiamo ricevuto (cfr. Gv 1,16). Se solamente Cristo è «la vera vite» (Gv 15,1), che offre «il vino buono» (Gv 2,10) necessario per la vita eterna, possiamo allora concludere che soltanto la Chiesa è la vera promotrice della “modernità”, dato che solo l’apertura a Dio, futuro dell’uomo, rende autenticamente possibile per tutti quella speranza che proprio essa non cessa mai di proclamare.

 

 

top