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Il vescovo ministro della parola nella comunione dei fedeli

di

S. Ecc.za Mons. Gerhard Ludwig Müller

Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

 

 

L’episcopato

L’episcopato è un ministero istituito per sempre da Dio nella Chiesa. I vescovi, stabiliti dallo Spirito Santo (cfr. At 20,28), presiedono al posto di Dio il gregge di Cristo. Nell’ordinazione sacramentale lo Spirito agisce «in maniera tale che i vescovi, in modo eminente e visibile, tengano il posto dello stesso Cristo maestro, pastore e pontefice, e agiscano in sua vece» (LG, 21). Nell’esercizio del loro ministero essi sono «vicari e legati di Cristo» (LG, 27).        

Già il fatto che un vescovo sia sacramentalmente ordinato dai «vescovi di altre Chiese confinanti» indica la dimensione ecclesiale universale dell’episcopato. Non la singola comunità costituisce se stessa e il proprio ministero. Attraverso atti sacramentali la Chiesa riceve piuttosto la grazia per la salvezza personale, il potere di esercitare la sua missione e in particolare l’ufficio episcopale. La consacrazione episcopale incardina simbolicamente il vescovo nel collegio dei vescovi e gli affida una responsabilità nei confronti dell’unica Chiesa cattolica diffusa su tutta la terra e sussistente nella «communio ecclesiarum».        

Nella sua Chiesa locale il vescovo è «il visibile principio e fondamento dell’unità» (LG, 23), cioè della comunione di tutti i fedeli e del collegio dei ministri, vale a dire dei presbiteri, diaconi e altri ministeri ecclesiali. L’unico episcopato non assorbe la molteplicità delle missioni e dei ministeri. L’episcopato non si limita a impedire una disgregazione dei singoli ministeri, ma favorisce la loro molteplicità nei singoli membri e garantisce l’unità della missione dell’unica Chiesa nella martyria, leiturgia e diakonia. Valido è perciò sia il principio che il popolo santo di Dio partecipa al ministero sacerdotale e profetico di Cristo e che la totalità dei fedeli non può errare, a motivo dell’unzione dello Spirito Santo, nella fede (cfr. LG, 12), sia il principio che i vescovi, che insegnano in comunione con il vescovo di Roma, «devono essere ascoltati da tutti con venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità» (LG, 25).

La fondazione apostolica

A volte si sostiene che al sacerdozio ministeriale cattolico mancherebbe il fondamento biblico, oppure che il Nuovo Testamento conterrebbe ordinamenti ministeriali tanto differenziati che ben difficilmente potrebbero essere unificati.

La classica critica di tipo protestante al sacerdozio ministeriale cattolico parte dal concetto, tratto dall’ambito della storia delle religioni, del sacerdote come mediatore tra il popolo semplice e le potenze superiori, con le quali ci si dovrebbe riconciliare per mezzo di sacrifici umani. Se nella teologia cattolica i vescovi e i presbiteri, dal secondo secolo in poi, vengono chiamati anche sacerdotes, chiaramente con questo si intende la partecipazione all’unico operare santo, quello di Gesù, che agisce per mezzo di loro quali «servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (1 Cor 4,1). Dio stesso è il soggetto della riconciliazione degli uomini con Dio. E Cristo stesso ha affidato agli apostoli la parola della riconciliazione. Ed è per questo che l’auto-comprensione degli apostoli e dei loro successori nell’ufficio episcopale e sacerdotale trova una formulazione ideale allorché con Paolo essi dicono: «In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20).

Il Nuovo Testamento indica il principio di ogni autorità spirituale della Chiesa nel Dio trinitario. Decisiva è la missione del Figlio di Dio in questo mondo come universale mediatore di salvezza. «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Poiché Dio si è fatto uomo, in Cristo ci viene trasmessa la salvezza in forma umana. Gesù Cristo rende gli apostoli partecipi della sua consacrazione messianica e della sua missione divina. Con un atto sovrano di elezione e di vocazione egli istituisce i Dodici «per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni» (Mc 3,13-15); vale a dire perché, con la forza di Cristo, vincano il male e il peccato che dominano gli uomini.

Il principio della fondazione apostolica e dello sviluppo del sacramento dell’ordine nella dottrina e nella prassi della Chiesa è chiaramente espresso nelle parole con cui il Signore risorto invia gli apostoli: «Come il Padre ha mandato me, io mando voi... Ricevete lo Spirito Santo. A coloro cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,22). La stessa cosa la troviamo espressa con una diversa formulazione nel vangelo di San Luca: «Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato » (Lc 10,16).

Nel passaggio dalla fondazione apostolica della Chiesa al periodo sub-apostolico, l’esercizio differenziato della missione e della potestà apostolica è andato definendosi nei tre gradi dell’ordine sacro. In ogni Chiesa locale c’è un vescovo, il quale, in comunione con i presbiteri e coadiuvato dai diaconi, rappresenta l’unità dei vescovi e delle Chiese locali tra loro e con l’origine apostolica di esse. I vescovi e i sacerdoti, nel loro servire in persona Christi, capo della Chiesa, con l’annuncio della Parola e con l’amministrazione dei sacramenti, rendono presente l’unità della Chiesa con Gesù Cristo, il Figlio del Padre e l’unto dello Spirito Santo.

La pratica di vita della Chiesa dei primi secoli

Osservando la pratica di vita della Chiesa dei primi secoli, si costaterà che essa non fu mai caratterizzata da una pura e semplice coesistenza di Chiese locali. Fin dagli inizi ne costituivano parte essenziale svariate forme di cattolicità realizzata. In epoca apostolica sono soprattutto gli apostoli stessi che trascendono il principio della competenza locale. L’apostolo non è vescovo di una comunità, bensì missionario per la Chiesa intera. Nella sua persona egli dà espressione alla Chiesa universale. E nessuna Chiesa locale può rivendicarne l’esclusiva. Paolo adempì al proprio mandato di propugnatore dell’unità con le sue lettere e mediante una rete di collaboratori. Queste lettere rappresentano il pratico esercizio del ministero cattolico dell’unità, di per sé riconducibile all’autorità ecclesiale universale dell’apostolo. Al tempo degli apostoli l’elemento cattolico nella struttura ecclesiastica è manifesto. L’ufficio a orientamento universale ha la priorità sugli uffici locali. Solo comprendendo ciò si potrà afferrare, in tutta la sua portata, l’asserzione che i vescovi sono i successori degli apostoli.

Nella prima fase ecclesiale i vescovi, in quanto responsabili delle Chiese locali, sottostavano chiaramente all’autorità globale degli apostoli. Che nel processo di configurazione della Chiesa post-apostolica venisse riconosciuta loro anche la posizione degli apostoli, significa che ora essi assumono una responsabilità che va oltre le contingenze locali. Anche nella nuova situazione lo zelo missionario non deve venir meno. La Chiesa non può ridursi a una pura convivenza di Chiese locali che fondamentalmente bastano a se stesse. Essa deve conservarsi apostolica e missionaria. La dinamica dell’unità modella la sua struttura complessiva.

Nel secondo secolo Ireneo di Lione sottolineava: «Ricevuto questo messaggio e questa fede, la Chiesa, benché disseminata in tutto il mondo, lo custodisce con cura come se abitasse una sola casa; allo stesso modo crede in queste verità, come se avesse una sola anima e uno stesso cuore; in pieno accordo queste verità proclama, insegna e trasmette, come se avesse una sola bocca. Le lingue del mondo sono diverse, ma la potenza della Tradizione è unica e la stessa. Né le Chiese fondate nelle Germanie hanno ricevuto o trasmettono una fede diversa; né quelle fondate nelle Spagne o tra i Celti o nelle regioni orientali o in Egitto o in Libia o nel centro del mondo. Ma come il sole, la creatura di Dio, è in tutto il mondo uno solo e il medesimo, così la luce spirituale, il messaggio della verità, dappertutto risplende e illumina tutti gli uomini che vogliono giungere alla conoscenza della verità» (Adv. haer. I, 10,2).

L’ufficio episcopale nella Chiesa cattolica, universale

Il vescovo è l’anello di congiunzione della cattolicità, di ciò che, letteralmente, è riferito al tutto. Egli mantiene il collegamento con le altre Chiese locali e incarna in tal modo l’elemento apostolico e cattolico nella Chiesa. Un tratto che trova espressione già nell’atto dell’ordinazione episcopale. Il vescovo viene ordinato da un gruppo di almeno tre vescovi contigui. Nessuna comunità può semplicemente darsi in autonomia il proprio vescovo. Non siamo stati noi a produrre da soli la fede, bensì l’abbiamo ricevuta da fuori. La fede presuppone sempre un superamento di confine, l’andare verso gli altri, e il venire degli altri, che rimanda poi alla provenienza dell’Altro, Gesù Cristo.

Riguardo al rapporto tra la Chiesa universale e le Chiese particolari, al vescovo spetta una posizione centrale. Nel quadro unitario di sacramento e verbo egli incarna l’unità della Chiesa locale, della diocesi. Al contempo, il vescovo è l’anello di congiunzione con le altre Chiese locali: egli provvede all’unità della Chiesa nella propria diocesi ed ha contemporaneamente il compito di stimolare attivamente l’unità della propria Chiesa locale con la Chiesa universale, l’unica Chiesa di Gesù Cristo.

Il vescovo – secondo quanto affermato una volta dall’allora teologo Joseph Ratzinger – è responsabile della dimensione cattolica così come della dimensione apostolica della sua Chiesa locale. Queste due componenti essenziali della Chiesa caratterizzano in modo particolare il suo ufficio, ma sono anche immediatamente connesse agli altri due tratti distintivi della Chiesa: apostolicità e cattolicità stanno al servizio dell’unità. E senza unità non esiste neppure la santità. Quest’ultima, infatti, si realizza essenzialmente nell’integrazione dei singoli nell’amore del corpo unico di Gesù Cristo. La purificazione della propria esistenza attraverso la sua fusione nell’universale amore di Cristo ha per effetto la santità dell’uomo, che è la santità della Trinità stessa.

La Chiesa, una comunione che si perpetua nei tempi

Parlando della comunione dei vescovi, si deve tener conto di un’ulteriore dimensione: il collegio dei vescovi non esiste soltanto sincronicamente, vale a dire nel presente, bensì anche in senso diacronico, cioè perpetuamente. In questo senso, nella Chiesa nessuna generazione è isolata. Il vescovo non proclama idee da lui stesso escogitate. Egli è piuttosto il messo di Gesù Cristo. La guida per cogliere il messaggio è costituita per lui dalla comunione della Chiesa di tutti i tempi. Una qualunque maggioranza eventualmente formatasi in un momento determinato in opposizione alla fede della Chiesa di tutti i secoli, non sarebbe una maggioranza nel senso della fede. La vera maggioranza nella Chiesa è diacronica, cioè si perpetua nei tempi. Solo chi presta ascolto a questa globale maggioranza rimane nella comunione degli apostoli.

La fede trascende la tendenza che, di volta in volta, induce il presente di turno a porre se stesso in termini assoluti. Garantendogli un’apertura sulla fede di tutti i tempi, essa lo libera dall’illusione ideologica e al contempo lascia aperto il futuro. Un compito importante del vescovo, derivante dal carattere comunitario del suo ufficio, è quello di farsi portavoce di questa perpetua maggioranza dei credenti, di essere cioè la voce della Chiesa che riunifica i secoli.

I vescovi al servizio dell’unità della Chiesa

Il vescovo rappresenta la Chiesa universale nei confronti della propria Chiesa locale e viceversa. In tal modo egli si mette al servizio dell’unità. Egli non può permettere che la Chiesa locale si rinchiuda in se stessa. Deve anzi far sì che essa si apra su tutto l’insieme, affinché le energie stimolanti dei carismi possano circolare liberamente. Il vescovo che pratica l’apertura della Chiesa locale nei confronti della Chiesa universale, introduce nella Chiesa la voce particolare della propria diocesi, i suoi speciali carismi, i suoi meriti e i suoi limiti. Tutto appartiene a tutti. Il contributo di ciascuna Chiesa locale è importante per il bene della Chiesa universale.

Il Papa come successore di Pietro, esercitando il proprio ufficio incoraggia i doni particolari delle singole Chiese locali. Egli deve far sì che i diversi carismi delle Chiese locali operino efficacemente nello scambio vitale del tutto. Allo stesso modo devono procedere il vescovo e le conferenze episcopali nei loro rispettivi ambiti. Essi devono perciò guardarsi da qualsiasi uniformazione pastorale. Anche per loro vale la regola di San Paolo: «Non ostacolate l’azione dello Spirito Santo! ... Esaminate ogni cosa e tenete ciò che è buono!» (1 Tess 5, 19.21). Non può esserci uniformismo nelle progettazioni pastorali della Chiesa. È anzi necessario che – mantenendo come metro l’unità della fede – si lasci spazio sufficiente alla varietà dei doni divini.

La comunione con Cristo, presupposto fondamentale del ministero episcopale

«Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio» (At 20,28). Con queste parole rivolte ai responsabili della Chiesa di Efeso, l’apostolo Paolo mostra che l’ufficio episcopale e sacerdotale è fondato sul disegno salvifico di Dio. Egli richiama l’attenzione sulla dignità dell’ufficio dei pastori d’anime nelle comunità e degli annunciatori del Vangelo di Cristo. Ciò significa anche mantenere uno stile di vita esemplarmente cristiano. Pietro, quale apostolo e presbitero tra i presbiteri, si esprime in modo simile: «Pascete il gregge di Dio che vi è affidato... facendovi modelli del gregge» (1 Pt 5,2ss). Poiché essi annunciano, santificano e guidano i credenti su mandato e nel nome di Gesù Cristo, il «Pastore supremo», il «pastore e custode delle vostre anime» (1 Pt 2,25).

In linea di massima, la missione del vescovo è tratteggiata in ciò che le Sacre Scritture presentano come il volere di Gesù nei confronti degli apostoli: essi furono chiamati da Cristo, per «averli con sé», «per mandarli a predicare» e «perché avessero il potere» (Mc 3,14ss). Il presupposto fondamentale del ministero episcopale è l’intima comunione con Gesù Cristo, la coesione con Lui. Il vescovo deve essere testimone della resurrezione. Deve essere in contatto con il Cristo risorto. Senza quest’intima coesione con Cristo, egli si riduce a un semplice funzionario ecclesiastico. E non sarebbe più testimone e successore degli apostoli. La coesione con Gesù Cristo, che presuppone l’interiorizzazione della fede, fa sì che al contempo egli partecipi alla missione di Gesù. Con l’intera sua esistenza, Cristo è infatti l’inviato che ha fatto della propria coesione con il Padre una coesione con gli uomini. La missione del vescovo consiste innanzitutto nel portare la coesione con Dio tra gli uomini, e nel chiamare gli stessi a raccolta in questa coesione.

Considerando da una tale prospettiva il potere conferito agli apostoli di scacciare i demoni, si chiarisce anche il significato di questo mandato: l’arrivo del messaggio di Gesù guarisce e purifica gli uomini dall’interno. Purifica l’atmosfera spirituale in cui essi vivono attraverso l’intervento dello Spirito Santo. Realizzare, attraverso Cristo, la coesione con Dio, e portare Dio tra gli uomini: ecco il mandato del vescovo. «Chi non raccoglie con me, disperde», dice Gesù (Mt 12,30). Il vescovo è incaricato di raccogliere insieme a Gesù.

Anche in rapporto alla “collegialità” vale lo stesso criterio della comunione con Cristo quale presupposto fondamentale del ministero. Si tratta innanzitutto dei particolari legami, istituzionali e personali, che legano tra loro vescovi di una determinata regione, all’interno di una Conferenza episcopale, che cercano, all’interno di un comune contesto sociale e culturale, una via comune per l’esercizio del loro ministero episcopale. A tal fine è necessaria sia la responsabilità personale di ogni singolo vescovo che la ricerca della comune testimonianza.

Essere vescovo e cristiano come amicizia con Dio

Tommaso d’Aquino individua l’essenza dell’essere cristiano nell’amicizia con Dio. Il compito fondamentale della Chiesa, fondata sulla fede e sui sacramenti, consiste così nel servizio alla comunione degli uomini con Dio. L’annuncio del messaggio evangelico, i sacramenti e gli uffici ecclesiastici sono mezzi e strumenti per rendere possibile una vita cristiana in e con Dio. Attraverso i sacramenti si realizza nell’azione dello Spirito Santo la comunione con Dio. L’eucaristia è il massimo sacramento e pertanto centro e culmine della vita cristiana. A essa fanno capo tutti gli altri sacramenti. Dalla prospettiva eucaristica va inteso anche l’ufficio episcopale.

Tommaso d’Aquino riconduce l’ufficio episcopale al mandato conferito dal Signore a Pietro: «Abbi cura delle mie pecore!» (Gv 21,17). E insiste ripetutamente sulla figura del buon pastore, pronto a offrire la vita per le sue pecore (cfr. Gv 10,11). Essere pastore del gregge affidatogli: è questo il compito principale e l’obiettivo dell’ufficio episcopale. L’incarico del vescovo consiste nel mettersi al servizio per la salvezza dei credenti. In questo senso egli segue le orme di Gesù Cristo, il quale è venuto per servire e dare la propria vita per la redenzione degli uomini (cfr. Mc 10,45). L’incarico di guida conferito al vescovo è un servizio pastorale mirante all’edificazione della Chiesa. A livello umano e cristiano, il vescovo può svolgere il suo logorante ministero solo preservando la serenità necessaria. Il peso della cura pastorale, pertanto, non deve indurre il vescovo a trascurare il piacere della verità, che scaturisce dalla preghiera e dalla meditazione. Il modello di vescovo caro a Tommaso d’Aquino non è quello dell’indaffarato manager pastorale. Ai pastori di anime egli chiede piuttosto di trovare, malgrado l’impegno legato alla cura pastorale, anzi, proprio in vista di quest’impegno, tempo sufficiente da dedicare allo studio e alla vita contemplativa. Solo in tal modo essi potranno adempiere con piena consapevolezza e serenità al ministero di evangelizzazione loro affidato ed essere per gli uomini coloro che, per usare le medesime parole di San Paolo, nient’altro desiderano, se non essere «i collaboratori della vostra gioia» (2 Cor 1,24).

L’eucaristia della Chiesa e l’ufficio del vescovo

La Chiesa trova il proprio compimento nella celebrazione dell’eucaristia, in cui al contempo si rende presente il messaggio evangelico. Ciò include innanzitutto l’aspetto locale. L’eucaristia viene celebrata in un luogo concreto con le persone che abitano in esso. Qui ha inizio il processo di raccolta del popolo di Dio. La Chiesa non è un club di amici, in cui si radunano persone con le stesse inclinazioni. La chiamata di Dio è rivolta all’intera umanità. La Chiesa dei primi secoli, in quanto nuovo popolo di Dio di cui tutti sono chiamati a far parte, voleva fin dall’inizio essere pubblica, al pari dello Stato stesso. Perciò tutti i credenti che risiedono in un determinato luogo appartengono alla medesima eucaristia: ricchi e poveri, colti e ignoranti, ebrei e pagani, donne e uomini. Dove risuona la chiamata di Cristo, simili differenze non contano più (cfr. Gal 3,28).

Solo da questa visuale si comprende perché il vescovo-martire Ignazio di Antiochia abbia vincolato con tanta insistenza l’appartenenza ecclesiale alla comunione con il vescovo. Il vescovo difende l’unità della fede da ogni tentazione di raggruppamento, di separazione per razza o classe sociale. Il vescovo di una diocesi si fa garante che la Chiesa è una per tutti, perché Dio è uno per tutta l’umanità. In questo senso la Chiesa deve sempre svolgere una straordinaria missione di riconciliazione. Una riconciliazione che può scaturire solo dall’amore di colui che è morto per la salvezza di tutti. La lettera agli Efesini (cfr. 2,14) individua il significato più intimo del sacrificio di Cristo nell’aver egli demolito «quel muro che li separava e li rendeva nemici».

Non è possibile bere nell’eucaristia il sangue di Cristo “versato per molti”, restringendosi nella cerchia dei “pochi”. L’eucaristia è eucaristia del Cristo intero e di tutta la Chiesa. Nessuno può scegliersi la “sua” particolare eucaristia. La riconciliazione con Dio, che tramite essa ci viene offerta, presuppone sempre la riconciliazione con il nostro prossimo (cfr. Mt 5,23ss). L’esistenza eucaristica della Chiesa ci rimanda innanzitutto al raduno locale del popolo di Dio. L’ufficio episcopale è parte essenziale dell’eucaristia come servizio a vantaggio dell’unità, che deriva necessariamente dal carattere sacrificale e conciliatorio dell’eucaristia. Una Chiesa intesa in senso eucaristico è, secondo Sant’Ignazio di Antiochia, una chiesa organizzata su base episcopale.

Il vescovo, maestro della fede

Esempio della forma basilare dell’ufficio episcopale e presbiterale è Paolo, fatto da Cristo «messaggero e apostolo…, maestro dei pagani nella fede e nella verità» (2 Tim 2,7).

Quando parliamo d’ufficio ministeriale, pastorale e sacerdotale, non intendiamo uffici realmente differenti, uniti nella persona del vescovo. Il servizio dell’insegnare, del guidare e del santificare rappresentano unicamente gli aspetti più importanti dell’unica missione e potestà spirituale. Così, la formulazione secondo la quale il vescovo, nella successione apostolica, è «maestro della fede» illumina da una prospettiva particolare l’intero suo ufficio quale servizio per la salvezza degli uomini, che, in Gesù Cristo, tutti noi riceviamo in misura sovrabbondante e inesauribile.

Mediante «la parola della fede che annunciamo», per mezzo della fede, della speranza e della carità, la salvezza operata da Cristo una volta per tutte è data ad ogni uomo. La fede in Gesù, il Signore crocifisso e risorto, è accesso e contenuto della salvezza, della beatitudine e della vita eterna con e nell’amore del Dio trino. Fede è fiducia personale, sequela operosa di Gesù, professione pubblica di Gesù e testimonianza fedele di lui in parole e opere, sino al martirio spirituale e corporale: «Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza» (Rom 10,10).

La fede in Gesù Cristo e l’invocazione del nome di Dio, determinano la trasmissione della redenzione e della salvezza dell’uomo che egli ci ha già donato per mezzo della croce e della risurrezione. Si mostra così il profondo rapporto tra fede/salvezza/Parola con la potestà e la missione apostolica.

Testimonianza e annuncio della fede nell’ufficio episcopale

Come si potrebbe descrivere la teologia e la spiritualità dell’ufficio episcopale in modo più convincente di quanto fa Paolo nella grande testimonianza della giustificazione, della salvezza e della riconciliazione del peccatore con Dio mediante Gesù Cristo: «Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati? Come sta scritto: “Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!”» (Rom 10,14).

Poiché la fede in Cristo è suscitata attraverso l’annuncio e gli uomini ottengono in tal modo l’accesso alla salvezza, la trasmissione della fede per mezzo dell’annuncio può essere definita come uno dei compiti più importanti e fondamentali del vescovo: «I vescovi, infatti, sono gli araldi della fede che portano a Cristo nuovi discepoli; sono dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita, la illustrano alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro della Rivelazione cose nuove e vecchie (cfr. Mt 13,52), la fanno fruttificare e vegliano per tenere lontano dal loro gregge gli errori che lo minacciano (cfr. 2 Tm 4,1-4)» (LG, 25).

I vescovi sono maestri e testimoni della fede che annunciano nel nome di Cristo e testimoniano con la loro vita. Il loro ufficio è un servizio e li colloca nella comunità dei credenti. Per questo il vescovo è sia padre sia fratello nella fede in mezzo ai suoi fratelli e alle sue sorelle. Anche lui ha ricevuto la fede dall’annuncio della Chiesa e deve dedicarsi alla sua salvezza con rispetto e timore (cfr. Fil 2,12). Per questo necessita dunque anche dell’annuncio e dell’opera di salvezza della Chiesa e, attraverso la fede vissuta dal popolo di Dio, viene edificato, consolato, purificato ed esortato all’umile riconoscimento che nulla possiamo attribuire a noi ma tutto dobbiamo alla grazia di Dio.

Fratello e padre nella fede, il vescovo è figlio nella comunione con il Successore di Pietro. Scrive Papa Francesco nella Lumen fidei: «Come servizio all’unità della fede e alla sua trasmissione integra, il Signore ha dato alla Chiesa il dono della successione apostolica. Per suo tramite, risulta garantita la continuità della memoria della Chiesa ed è possibile attingere con certezza alla fonte pura da cui la fede sorge. La garanzia della connessione con l’origine è data dunque da persone vive, e ciò corrisponde alla fede viva che la Chiesa trasmette. Essa poggia sulla fedeltà dei testimoni che sono stati scelti dal Signore per tale compito. Per questo il Magistero parla sempre in obbedienza alla Parola originaria su cui si basa la fede ed è affidabile perché si affida alla Parola che ascolta, custodisce ed espone» (n. 49).

«Cercate di avere sale in voi stessi, e vivete in pace tra voi»

La vigilanza del pastore, la sua sollecitudine per il gregge, che il Nuovo Testamento tiene a porre in evidenza, è prima di tutto premura per la fede, in senso positivo, affinché essa emerga in tutto il suo splendore e, in senso negativo, per preservarla da ogni falsificazione. Questo compito di vigilanza e di cura rappresenta l’essenza del magistero dei vescovi.

La ragione più profonda dell’esistenza della Chiesa risiede nel fatto che nella fede è presente la rivelazione divina. Nella sua Regola pastorale, San Gregorio Magno ricordava ai pastori della Chiesa il complesso monito del Signore: «Cercate di avere sale in voi stessi, e vivete in pace tra voi» (Mc 9,50). Il sale sembra contrapporsi alla pace, provoca irritazione e dolore. Ma è necessario l’incontro di entrambi: la pace, che tollera l’altro, ma anche il sale, che mette a nudo e combatte gli elementi distruttivi. Gregorio Magno prosegue: «Chi bada troppo alla pace puramente umana, senza più redarguire i malvagi e dando in tal modo ragione ai perversi, si stacca dalla pace divina… È colpa grave insistere nel far pace con i corruttori». Il vescovo deve essere un uomo di pace, ma al contempo deve avere in sé il sale; quando è in gioco il vero e proprio bene della fede, egli deve esser pronto ad affrontare il conflitto, affinché il sale non divenga insipido e noi cristiani a ragione disprezzati e calpestati a livello sociale.

È necessario il coraggio per proclamare nel suo splendore e nella sua integralità il contenuto della fede ed è parimenti necessario il coraggio per confutare e correggere gli errori che si dovessero eventualmente riscontrare diffusi, nel clero così come tra i fedeli laici. E in rapporto alla teologia, in particolare, in rapporto cioè all’esplorazione di quell’orizzonte che la fede illumina, è chiaro «che la teologia è impossibile senza la fede e che essa appartiene al movimento stesso della fede, che cerca l’intelligenza più profonda dell’auto-rivelazione di Dio, culminata nel Mistero di Cristo». Ed è perciò parimenti chiaro che tale teologia cristiana «condivide la forma ecclesiale della fede; la sua luce è la luce del soggetto credente che è la Chiesa» (Lumen fidei, 36). Pensare altrimenti, è illusorio e fallace. Ricordare a tutti tale verità, è compito imprescindibile del vescovo. Vivendo «in pace tra voi» e avendo «sale in voi stessi».

La responsabilità dei vescovi riguardo alla vita pubblica

Il mandato degli apostoli è sempre esteso «fino ai confini della terra». Perciò l’incarico del vescovo non potrà mai esaurirsi nell’ambito strettamente ecclesiastico. Il Vangelo vale per tutta l’umanità. I successori degli apostoli hanno la responsabilità di diffonderlo nel mondo. È necessario continuare senza sosta ad annunciare la fede a coloro che ancora non riconoscono Cristo come loro salvatore. Inoltre, i vescovi devono assumersi una responsabilità anche relativamente a questioni che riguardano la vita pubblica.

È incontestato che allo Stato spetti un’autonomia nei confronti della Chiesa. Il vescovo è tenuto a riconoscere il diritto proprio dello Stato, sotto la condizione che lo Stato rispetti i diritti fondamentali dell’uomo. Egli evita di mescolare la fede con la politica e rende un servizio alla libertà collettiva non permettendo che si identifichi la fede con una determinata forma di espressione politica. Il Vangelo indica alla politica delle verità e dei valori, ma non fornisce risposte a singole questioni concrete in campo politico o economico. Dell’«autonomia delle cose terrene», di cui ha parlato il Concilio Vaticano II, devono tener conto tutti i credenti. Solo così la Chiesa può continuare a essere uno spazio aperto alla riconciliazione fra i partiti. Solo così non diventa essa stessa di parte. A questo riguardo, anche il rispetto dell’emancipazione dei laici costituisce un aspetto importante del ministero episcopale.

L’autonomia delle questioni mondane tuttavia non è assoluta. Rifacendosi alle esperienze dell’epoca imperiale nell’antica Roma, Agostino faceva presente che, abbassando la soglia etica al di sotto di un certo minimo, i confini tra lo Stato e una banda di briganti diventano labili. Lo Stato non produce semplicemente il diritto. Se qualcosa è un male in sé, ad esempio l’uccisione di innocenti, nessuna legge dello Stato può proclamarla un diritto.

I cristiani sono tenuti ad impegnarsi sollecitamente perché si conservi, nell’ambito della vita politica, la capacità di intendere la voce del creato. Il vescovo deve provvedere a che gli uomini non diventino sordi per le fondamentali verità della coscienza che Dio ha iscritto nel cuore di ciascuno di loro. San Gregorio Magno disse una volta che il vescovo deve avere “buon naso”, “buon fiuto”, cioè una sensibilità che gli permetta di distinguere tra giusto e sbagliato. Ciò vale tanto in campo ecclesiastico quanto nell’ambito della vita sociale e politica. Proprio il rispetto per la peculiarità della vita pubblica richiede che la Chiesa si presenti anche come avvocato del creato, laddove nella confusione del “fai da te” la sua voce viene sommersa dagli schiamazzi. Fra i compiti preminenti dei vescovi c’è quello di risvegliare le coscienze degli uomini e di sensibilizzarle per le esigenze dell’epoca; di condurli alla serena verità che si è rivelata in Gesù Cristo, accogliendoli in tal modo in quell’unità che può provenire solamente da Dio. «Uno solo è il corpo, uno solo è lo Spirito, come una sola è la speranza alla quale Dio vi ha chiamati. Uno solo è il Signore, una sola è la fede, uno solo è il battesimo. Uno solo è Dio, Padre di tutti, al di sopra di tutti, che in tutti è presente e agisce» (Ef 4,4).

Il compimento escatologico della Chiesa

Nello Spirito del Signore risorto la Chiesa è stata fatta sacramento salvifico universale del regno di Dio. Essa non è una società religiosa segregata dal mondo, ma il segno e lo strumento, attraverso cui la volontà salvifica ed escatologica universale di Dio si realizza dinamicamente nel corso della storia e nell’orizzonte del mondo dei popoli in vista della sua rivelazione e affermazione definitiva al momento del ritorno di Cristo. Questo carattere escatologico della Chiesa peregrinante i credenti tutti lo traducono in atto nella consapevolezza della loro comunione con la Chiesa celeste dei santi già giunti a compimento. Nasce così in essi una coscienza dell’unità dell’unica Chiesa passata, presente e futura.

Come strumento della salvezza, la Chiesa peregrinante cammina attraverso il tempo e, in quanto tale, essa avrà fine con la parusia di Cristo. Ma come frutto della volontà salvifica di Dio, come comunione escatologica degli uomini con Dio e tra di loro, già ora esistente nella fede e nella speranza, sarà trasformata, al momento della parusia di Cristo, nella «Chiesa eterna dei santi» (LG, 51), e di essa faranno parte anche tutti coloro che, senza propria colpa, non appartennero durante la vita terrena alla Chiesa peregrinante (cfr. LG, 13-17).

Quando essa sarà giunta a compimento nella gloria alla fine del tempo, «allora, come si legge nei santi Padri, tutti i giusti, a partire da Adamo, “dal giusto Abele fino all’ultimo eletto”, saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale» (LG, 2). Il mistero della Chiesa, conoscibile solo nella fede, diventerà manifesto con la parusia di Cristo – allorquando il regno di Dio sarà giunto e la volontà salvifica universale di Dio si sarà compiuta – come l’Israele eterno, la città santa, la nuova Gerusalemme: «Egli dimorerà con loro ed essi saranno il suo popolo» (Ap 21,3; cfr. Ez 37,27 e Ger 31,31).

«Accresci in noi la fede»

«La grazia presuppone la natura e la porta a compimento», recita un noto adagio classico, così sinteticamente formulato da Tommaso d’Aquino (cfr. S.Th., I, q. 2, a. 2). Questo assioma è da applicare anche all’esercizio dell’ufficio episcopale. Nella nostra natura ferita dal peccato originale resta, anche dopo il battesimo, la concupiscenza, che dobbiamo dominare in un processo di trasformazione che dura tutta la vita. Così, anche l’ufficio apostolico ed episcopale ha i suoi propri pericoli e sfide: il rinnegamento, il tradimento, la voglia di mettersi in mostra, la fiducia illusoria nella ricchezza terrena, ma anche un desiderio sessuale incontrollato, la tendenza a rapportarsi ai santi in modo frivolo e anche quella a trattare i fedeli in modo paternalistico, come se si fosse dimenticato l’ammonimento dell’apostolo: «Pascete il gregge non come padroni delle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge» (1 Pt 5,3).

Giunti quasi a conclusione dell’Anno della fede, che deve ancorarci tutti nuovamente, in profondità e in modo sempre ininterrotto, a Gesù Cristo, è necessaria una nuova considerazione del vescovo, anche come ministro della parola, perché maestro di fede. Il carico di lavoro giornaliero nella vigna del Signore e le ostilità esterne e purtroppo anche interne alla Chiesa potrebbero indurre i fedeli e i pastori allo scoraggiamento, se oggi noi, come un tempo gli apostoli, non pregassimo sempre di nuovo il Signore: «Accresci in noi la fede» (Lc 17, 6). Preghiamo perché tutti i vescovi e i sacerdoti donino tutta la loro vita al Signore con grande gioia nello Spirito Santo, così da divenire sempre più ferventi maestri e annunciatori della fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio e Salvatore del mondo.

 

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