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PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

LETTERA AGLI ECC.MI PP.DD. ARCIVESCOVI
E VESCOVI ITALIANI

UN OPUSCOLO ANONIMO DENIGRATORIO

 

Eccellenza Reverendissima,

Consta alla Pontificia Commissione per gli Studi Biblici che, settimane or sono, venne spedito agli Em.mi Membri del Sacro Collegio, agli Ecc.mi Ordinari d'Italia e ad alcuni Superiori Generali di Ordini Religiosi un opuscolo anonimo intitolato: Un gravissimo pericolo per la Chiesa e per le anime. Il sistema critico-scientifico nello studio e nell'interpretazione della Sacra Scrittura, le sue deviazioni funeste e le sue aberrazioni (48 pagine in 8).

L'opuscolo reca in testa l'iscrizione: «Vale come manoscritto. Riservatissima di coscienza». Ma di fatto, con patente contraddizione, fu spedito attraverso tutta la Penisola in buste aperte.

Inoltre al fondo dell'ultima pagina ha la dichiarazione: «Copia conforme dell'esposto presentato al Santo Padre Pio XII». Poiché è verissimo questo, non occorre altro a dimostrare la sconvenienza, - e l'Eccellenza Vostra Reverendissima l'avrà sicuramente rilevata subito - di spedire contemporaneamente a Sua Santità ed a molte persone ecclesiastiche un documento scritto con l'intento di presentarlo all'esame del Sommo Pontefice.

I due semplici fatti bastano a dimostrare quanto l'autore dell'opuscolo, chiunque sia, manchi di giudizio, di prudenza e di riverenza, e potrebbero dispensare da altri rilievi. Tuttavia, nel timore che certe accuse o insinuazioni possano turbare qualche Pastore e distoglierlo dal proposito di procurare ai suoi futuri sacerdoti quel sano e giusto insegnamento della Sacra Scrittura, che sta grandemente a cuore del Sommo Pontefice, gli E.mi Padri componenti la Pontificia Commissione per gli Studi Biblici, convenuti in adunanza plenaria per l'esame del caso, hanno deciso di sottoporre alla benevola attenzione dell'Eccellenza Vostra Rev.ma le seguenti considerazioni.

L'opuscolo vuole essere una difesa di una certa esegesi detta di meditazione; ma è soprattutto una virulenta accusa dello studio scientifico delle Sacre Scritture: esame filologico, storico, archeologico, ecc. della Bibbia altro non sono che razionalismo, naturalismo, modernismo, scetticismo, ateismo, ecc.; a capir bene la Bibbia, bisogna lasciare libero corso allo spirito, quasi che ognuno fosse in personale comunione con la divina Sapienza, e ricevesse dallo Spirito Santo speciali lumi individuali, come pretesero i primitivi protestanti. Perciò l'anonimo con estrema violenza attacca persone ed istituti scientifici pontifici; denigra lo spirito degli studi biblici scientifici, «spirito maledetto di orgoglio, di presunzione e di superficialità, palliata da accigliata indagine e da ipocrita scrupolosità della lettera» (pag. 40); disprezza l'erudizione, lo studio delle lingue orientali e delle altre scienze ausiliarie, e trascorre a gravi errori circa i principi fondamentali dell'ermeneutica cattolica consentanei alla nozione teologica della ispirazione biblica, misconoscendo la dottrina dei sensi delle Sacre Scritture, e trattando con somma leggerezza il senso letterale e la sua accurata indagine; da ultimo, come se ignorasse la storia dei testi originali e delle versioni antiche, nonché la natura e l'importanza della critica testuale, propugna una falsa teoria sull'autenticità della Volgata.

Poiché sarebbe fuor di luogo, e poco riverente verso Pastori e Maestri della Chiesa, ritornare sopra le nozioni primordiali dell'ispirazione e dell'ermeneutica biblica, basti porre di fronte alle pretese dell'anonimo qualcuna delle più recenti disposizioni della Santa Sede sullo studio scientifico della Sacra Scrittura, da Leone XIII in poi.

1. Del senso letterale. L'anonimo benché affermi pro forma che il senso letterale è la «base dell'interpretazione biblica» (pag. 6), di fatto preconizza una esegesi assolutamente soggettiva e allegorica, giusta l'ispirazione personale o piuttosto secondo la fantasia più o meno vivace e feconda di ognuno. Ora se è proposizione di fede da tenersi per principio fondamentale che la Sacra Scrittura contiene, oltre al senso letterale, un senso spirituale o tipico, come ci è insegnato dalla pratica di Nostro Signore e degli Apostoli, tuttavia non ogni sentenza o racconto contiene un senso tipico, e fu un eccesso grave della scuola alessandrina di voler trovare dappertutto un senso simbolico, anche a danno del senso letterale e storico. Il senso spirituale o tipico, oltre che fondarsi sopra il senso letterale, deve provarsi sia dall'uso di Nostro Signore, degli Apostoli o degli scrittori ispirati sia dall'uso tradizionale dei Santi Padri e della Chiesa, specialmente nella sacra liturgia, perché «lex orandi, lex credendi». Un'applicazione più larga dei testi sacri potrà bensì giustificarsi collo scopo dell'edificazione in omilie ed in opere ascetiche; ma il senso risultante anche dalle accomodazioni più felici, quando non sia comprovato com'è detto sopra, non si può dire veramente e strettamente senso della Bibbia né che fu da Dio ispirato all'agiografo.


Invece l'anonimo, che non fa veruna di queste distinzioni elementari, vuole imporre le elucubrazioni della sua fantasia come senso della Bibbia, come «vere comunioni spirituali della sapienza del Signore» (pag. 45), e misconoscendo la capitale importanza del senso letterale calunnia gli esegeti cattolici di considerare «solo il senso letterale» e di considerarlo «a modo umano, prendendolo solo materialmente, per quello che suonano le parole» (pag. 11), anzi di essere «ossessionati dal senso letterale della Scrittura» (pag. 46). Egli rigetta in tal modo la regola d'oro dei dottori della Chiesa, così chiaramente formulata dall'Aquinate: «Omnes sensus fundantur super unum, scilicet litteralem, ex quo solo potest trahi argumentum» (1, q. 1, 10 ad 1); regola che i Sommi Pontefici sancirono e consecrarono quando prescrissero che, prima di tutto, si cerchi con ogni cura il senso letterale. Così per es. Leone XIII nella Enciclica Providentissimus Deus: «Propterea cum studio perpendendi quid ipsa verba valeant, quid consecutio rerum velit, quid locorum similitudo aut talia cetera, externa quoque appositae eruditionis illustratio societur» (Ench. Bibl., n. 92), e più avanti: «Praeceptioni illi, ab Augustino sapienter propositae, religiose obsequatur (exegeta), videlicet a litterali et veluti obvio sensu minime discedendum, nisi qua eum vel ratio tenere prohibeat vel necessitas cogat dimittere» (Ench. Bibl., n. 97). Così pure Benedetto XV nell'Enciclica Spiritus Paraclitus: «Ipsa Scripturae verba perdiligenter consideremus, ut certo constet quidnam sacer scriptor dixerit» (Ench. Bibl., n. 498); dove, illustrando l'esempio e i principii esegetici del «Doctor maximus in exponendis Sacris Scripturis», S. Girolamo, il quale «litterali seu historica significatione in tuto collocata, interiores altioresque rimatur sensus, ut exquisitiore epulo spiritum pascat» (Ench. Bibl., n. 499), raccomanda che gli esegeti «modeste temperateque e litterali sententia ad altiora exsurgant» (Ench. Bibl., n. 499). Ambedue finalmente i Sommi Pontefici, Leone XIII e Benedetto XV, insistono, con le stesse parole di S. Girolamo, sul dovere dell'esegeta: «commentatoris officium esse, non quid ipse velit sed quid sentiat ille, quem interpretatur, exponere» (Ench. Bibl., n. 91 et 500).

2. Dell'uso della Volgata. Anche più palpabile è l'errore dell'anonimo circa il senso e l'estensione del decreto tridentino sull'uso della Volgata latina. Il Concilio Tridentino, contro la confusione cagionata dalle nuove traduzioni in latino e in vernacolo allora propalate, volle sancito l'uso pubblico, nella Chiesa Occidentale, della versione latina comune giustificandolo dall'uso secolare fattone dalla Chiesa stessa, ma non pensò per nulla menomare l'autorità delle versioni antiche adoperate nelle Chiese Orientali, di quella segnatamente dei LXX usata dagli stessi Apostoli, e meno ancora l'autorità dei testi originali, e resistette ad una parte dei Padri, che volevano l'uso esclusivo della Volgata come sola autorevole. Ora l'anonimo sentenzia che in virtù del decreto Tridentino si possiede nella versione latina un testo dichiarato superiore a tutti gli altri, rimprovera agli esegeti di voler interpretare la Volgata coll'aiuto degli originali e delle altre versioni antiche. Per lui il decreto dà la «certezza del Sacro Testo», cosi che la Chiesa non ha bisogno di «ancora ricercare l'autentica lettera di Dio» (pag. 7), e ciò non soltanto in rebus fidei et mororum, ma in tutti i rispetti (anche letterari, geografici, cronologici, ecc.). La Chiesa con quel decreto ci ha dato «il Testo autentico e ufficiale, dal quale non a lecito discostarsi» (pag. 6), e fare la critica testuale è un «mutilare la Sacra Scrittura» (pag. 8), è un «sostituirsi con presunzione alla sua autorità [della Chiesa], che sola può presentarci un testo autentico, e sola ce lo presenta difatti col citato Decreto del Concilio di Trento» (pag. 28): ogni operazione critica circa il testo biblico, quale viene presentato nella Volgata, è «il libero esame, anzi il farnetico esame personale, sostituito all'Autorità della Chiesa» (pag. 9).

Ebbene tale pretesa non è soltanto contro il senso comune, il quale non accetterà mai che una versione possa essere superiore al testo originale, ma è anche contro la mente dei Padri del Concilio, quale appare dagli Atti; il Concilio anzi fu consapevole della necessità di una revisione e correzione della Volgata medesima, e ne rimise l'esecuzione ai Sommi Pontefici, i quali la fecero, come fecero, secondo la mente dei più autorevoli collaboratori del Concilio stesso, un'edizione corretta dei LXX (sotto Sisto V), e poi ordinarono quella del Vecchio Testamento ebraico e del Nuovo Testamento greco, incaricandone commissioni apposite. Ed è apertamente contro il precetto dell'Enciclica Providentissimus: «Neque tamen non sua habenda erit ratio reliquarum versionum; quas christiana laudavit usurpavitque antiquitas, maxime codicum primigeniorum» (Ench. Bibl., n. 91).

Insomma il Concilio Tridentino dichiarò «autentica» la Volgata in senso giuridico, cioè riguardo alla «vis probativa in rebus fidei et morum», ma non escluse affatto possibili divergenze dal testo originale e dalle antiche versioni, come ogni buon libro d'Introduzione Biblica espone chiaramente secondo gli Atti del Concilio medesimo.

 

3. Della critica testuale. Con l'idea, sopra esposta, del valore pressoché unico, della Volgata, e minimo o quasi nullo dei testi originali e delle altre versioni antiche, non fa meraviglia che l'anonimo neghi la necessità e l'utilità della critica testuale, non ostante che le recenti scoperte di testi preziosissimi abbiano confermato il contrario. Poiché «è la Chiesa che ci presenta e garantisce il Testo Sacro» (pag. 10), fare della critica testuale è «trattare il Libro divino come un libro umano» (pag. 23), e l'unico uso che si può fare del testo originale e delle antiche versioni è di consultarli «in qualche difficoltà da illuminare» (pag. 6); il testo greco non può «far fede» contro un altro testo e «contro lo stesso testo ufficiale della Chiesa» (pag. 8), e «non si possono in nessun modo espungere... dal Testo, non solo della Chiesa (= Volgata), ma da quello originale, interi tratti o interi versetti» (pag. 7), dunque nemmeno se assenti dalla primitiva tradizione di esso e penetrativi dipoi; tentare di stabilire il Sacro Testo con mezzi critici è un «massacrare» la Bibbia (pag. 9). Indi le parecchie pagine dell'opuscolo, piene di invettive contro il «criticismo scientifico», «naturalismo», «modernismo».

Che la scienza biblica cattolica, dai tempi di Origene e di S. Girolamo fin alla «Commissione per la revisione ed emendazione della Volgata», istituita proprio dal Papa dell'Enciclica Pascendi, si sia affaticata a stabilire la forma più pura possibile del testo originale e delle versioni, compresa (per non dire anzitutto) la Volgata; che Leone XIII fortemente raccomandi: «Artis criticae disciplinam, quippe percipiendae penitus hagiographorum sententiae perutilem, Nobis vehementer probantibus, nostri excolant. Hanc ipsam facultatem, adhibita loco ope heterodoxorum, Nobis non repugnantibus, iidem exacuant» (Litt. Apost. Vigilantiae, Ench. Bibl., n. 135); che la Pontificia Commissione Biblica abbia risposto che, nel Pentateuco (e «servatis servandis» anche in altri libri biblici: cf. il decreto De Psalmis, Ench. Bibl., n. 345) si possa ammettere «tam longo saeculorum decursu nonnullas... modificationes obvenisse, uti: additamenta post Moysi mortem vel ab auctore inspirato apposita, vel glossas et explicationes textui interiectas; vocabula quaedam et formas e sermone antiquato in sermonem recentiorem translatas: mendosas demum lectiones vitio amanuensium adscribendas, de quibus fas sit ad normas artis criticae disquirere et iudicare» (Decr. De Mosaica authentia Pentateuchi, d.d. 27 iunii 1906, Ench. Bibl., n. 177); che il S. Offizio abbia permesso e permetta agli esegeti cattolici di discutere la questione del Comma Ioanneum e, «argumentis hinc inde accurate perpensis, cum ea, quam rei gravitas requirit, moderatione et temperantia, in sententiam genuinitati contrariam inclinare» (Declaratio S. Officii, d.d. 2 iunii 1927, Ench. Bibl., n. 121): tutto questo dimentica o dissimula l'autore dell'opuscolo per rendere oggetto di orrore l'opera degli esegeti cattolici, i quali, fedeli alle tradizioni cattoliche ed alle norme inculcate dalla suprema autorità ecclesiastica, provano, col fatto medesimo dei loro austeri e penosi lavori di critica testuale, in quanta venerazione tengano il Testo Sacro.


4. Dello studio delle lingue orientali e delle scienze ausiliarie. Muovono a commiserazione ed insieme a indignazione la leggerezza e l'arroganza incredibile, con cui l'anonimo ne parla. «L'Ebraico, il Siriaco, l'Aramaico» sarebbero soltanto materia di orgoglio degli «scientifici» (pag. 4), «sfoggio dell'erudizione» (pag. 14), «l'orientalismo s'è mutato in vero feticismo», e «la sapienza orientalista moderna è spesse volte discutibilissima» (pag. 46). Tanto disprezzo, nato fatto per alienare gli spiriti dal duro studio e per fomentare la leggerezza e la disinvoltura nel trattamento dei libri divini, col risultato inevitabile di sminuire la riverenza somma e la totale soggezione dovute ad essi ed il salutare timore di farne un uso meno conveniente, è in pieno contrasto con la tradizione della Chiesa, la quale, dai tempi di S. Girolamo fin ai nostri, ha favorito lo studio delle lingue orientali, sapendo che «Sacrae Scripturae magistris necesse est... eas linguas cognitas habere, quibus libri canonici sunt primitus ab hagiographis exarati» (Leone XIII, Enciclica Providentissimus Deus, Ench. Bibl., n. 103), e raccomandato «ut omnibus in Academiis... de ceteris item antiquis linguis, maxime semiticis, deque congruente cum illis eruditione, sint magisteria» (ibid.), ed esorta a curare, «ut minore in pretio ne sit apud nos quam apud externos, linguarum veterum orientalium scientia» (Leone XIII, Litt. Apost. Vigilantiae, Ench. Bibl., n. 133). L'anonimo dimentica che lo studio delle lingue bibliche, del greco e dell'ebraico, raccomandato da Leone XIII per le Accademie teologiche, vi è stato reso obbligatorio da Pio X (Ench. Bibl., n. 171), e che tal legge è riportata nella costituzione Deus Scientiarum Dominus (art. 33-34; Ordinationes, art. 27, I).

Naturalmente lo studio delle lingue orientali e delle scienze ausiliarie non è, per gli esegeti, fine a se stesso, ma ordinato all'intelligenza ed esposizione precisa e chiara della parola divina, affinché se ne alimenti al possibile la vita spirituale. In tale senso, e non per una gretta pedanteria né per una mal celata diffidenza contro l'intelligenza spirituale, si raccomanda ed inculca la ricerca del senso letterale coi sussidi della filologia e della critica, e si disapproverebbe chi se ne valesse con eccesso, ed esclusivamente, peggio se abusivamente, quasi non fosse divino il libro. Ma allo stesso tempo non si può permettere che col pretesto dell'abuso si attenti di rendere sospetto e di togliere l'uso dei veri principi esegetici: «abusus non tollit usum».


All'opuscolo l'autore ha aggiunto quattro pagine col titolo «Conferme tratte dall'Enciclica Pascendi», come a porre la sua sciagurata impresa sotto il patronato del santo Pontefice Pio X. Accorgimento infelice, perché, se l'insegnamento della Sacra Scrittura ebbe da Leone XIII nell'Enciclica Providentissimus Deus la Magna charta, che richiamava sull'importantissimo soggetto l'attenzione della Chiesa intera, fu Pio X che diede, di propria personale iniziativa, l'assetto definitivo a quell'insegnamento, specialmente in Roma ed in Italia, avendo egli, nella sua esperienza di Vescovo, osservato da vicino e le deficienze dell'insegnamento biblico e gli effetti disastrosi che ne derivavano.

Cominciò difatti coll'istituire, soltanto pochi mesi dopo l'elezione, il 23 febbraio 1904, i gradi di licenza e laurea in Sacra Scrittura, ben sapendo che la creazione di titoli speciali era mezzo efficace ad ottenere che studenti si dedicassero in modo speciale allo studio di essa. Non potendo poi, per mancanza di mezzi, fondare immediatamente l'Istituto di alti studi biblici al quale pensava, Pio X incoraggiò, nel 1906, l'insegnamento della Sacra Scrittura nel Pontificio Seminario Romano, approvò, negli anni 1908 e 1909, la creazione di un insegnamento superiore di Sacra Scrittura nella Gregoriana e nell'Angelicum, e, finalmente, creava nello stesso anno 1909 il Pontificio Istituto Biblico, la cui opera non ha cessato di svilupparsi sotto gli occhi dei Sommi Pontefici con una continuità di direttive così evidente da non esigere dimostrazione. Quanto l'Istituto Biblico abbia fatto per promuovere il progresso dello studio della Sacra Scrittura specialmente in Italia, lo dimostrano il numero degli alunni ed uditori di nazionalità italiana, e quello degli iscritti alle Settimane Bibliche, ogni anno convocate con frequenza e con frutto crescenti. Fu Pio X ancora che fissò le direttive dello studio della Sacra Scrittura nei Seminari, quando pubblicò la lettera apostolica Quoniam in re biblica del 27 marzo 1906 (Ench. Bibl., nn. 155-173), e provvide all'applicazione di esse nei Seminari d'Italia con lo speciale programma della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari in data del 10 maggio 1907.

Non occorre insistere oltre: checché sia dell'autore dell'esposto, e delle sue mire, lo studio della Sacra Scrittura deve continuare, anche nei Seminari d'Italia, secondo le direttive date dagli ultimi Sommi Pontefici, perché oggi, non meno di ieri, importa che i sacerdoti e ministri della Parola di Dio siano ben preparati, e capaci di dare risposte soddisfacenti, non soltanto sulle questioni del dogma e della morale cattolica, ma anche alle difficoltà proposte contro la verità storica e la dottrina religiosa della Bibbia, particolarmente del Vecchio Testamento. Perciò piace terminare colle stesse parole con cui Benedetto XV, di s.m., chiudeva l'Enciclica Spiritus Paraclitus: «Exegetae sanctissimi [S. Hieronymi] documenta, Venerabiles Fratres, studiose efficite, ut animis clericorum et sacerdotum vestrorum altius insideant; nam vestrum in primis est diligenter revocare eos ad considerandum, quid ab ipsis divini muneris, quo aucti sunt, ratio postulet, si eo non indignos se praestare velint: "Labia enim sacerdotis custodient scientiam et legem requirent ex ore eius, quia Angelus Domini exercituum est" (Mal. 2,7). Sciant igitur, sibi nec studium Scripturarum esse negligendum, nec illud alia via aggrediendum, ac Leo XIII Encyclicis Litteris Providentissimus Deus data opera praescripsit» (Ench. Bibl., n. 494).

Il Santo Padre, al quale è stata sottoposta tutta la questione nell'Udienza concessa dalla stessa Sua Santità il 16 agosto 1941 al Rev.mo Segretario della Pontificia Commissione per gli Studi Biblici, si è degnato di approvare le deliberazioni degli E.mi componenti la Commissione e di ordinare la spedizione della presente lettera.

Assolvendo quindi il compito affidatomi, La prego, Eccellenza Rev.ma, di gradire i sensi del mio omaggio, mentre mi confermo

dell'Eccellenza Vostra Rev.ma
dev.mo per servirla

E. Card. Tisserant, Presidente.
Fr. G.M. Vosté, O.P., Segretario.

Roma, 20 agosto 1941

 

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