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PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

UNITÀ E DIVERSITÀ NELLA CHIESA

 

La Chiesa vive oggi, forse più che un tempo, una tensione difficile, che dovrebbe rivelarsi feconda. Le Chiese locali, ed anche i vari gruppi all'interno di esse, prendono una sempre più viva coscienza delle loro particolarità in seno alla Chiesa universale. Cresce la convinzione che, per effondersi pienamente, la grazia della cattolicità implichi un'autentica diversità tra le comunità ecclesiali nella medesima comunione. Tale convinzione è tanto più forte in quanto in molte nazioni si sviluppa parallelamente una viva coscienza delle loro specificità etniche e culturali.

Ma l'accento posto sulle particolarità locali rinforza il bisogno di precisare gli elementi che uniscono tutte le comunità ecclesiali nell'unico popolo di Dio.

Si pongono, dunque, due domande:

a) come si possono assicurare che il riconoscimento delle Chiese locali nella loro originalità, lungi dal porre in pericolo l'unità, la fecondi, invece, ed arricchisca la sua universalità?

b) Come evitare che la necessaria ricerca dell'unità soffochi la vitalità di ciascuna Chiesa?

Le risposte a tali domande hanno una portata che supera le frontiere di una confessione cristiana. Esse dovrebbero poter arricchire il dialogo ecumenico fra tutti i battezzati, che seguono un cammino difficile verso quella piena unità di tutti che Gesù ha voluto. Lungo la sua strada attraverso i secoli, la Chiesa trova nelle Scritture il significato del proprio destino e della propria missione. Nel momento in cui la situazione del mondo la chiama ad assumere nuove iniziative, essa rilegge la Bibbia e l'ascolta.

Per illustrare la situazione presente e precisare le domande ch'essa pone, la Pontificia Commissione Biblica è stata invitata a interrogare la Scrittura su « i rapporti tra le Chiese locali o i gruppi particolari e l'universalità di un solo popolo di Dio ». Il presente documento espone anzitutto le testimonianze successive dell'Antico o Primo Testamento e del Nuovo Testamento: esso tenta, poi, una presentazione sintetica della testimonianza della Bibbia.

Da qui il seguente piano:

A. LE TESTIMONIANZE SUCCESSIVE DEGLI SCRITTI BIBLICI

I. La diversità nell'unità, oltre la divisione e l'uniformità, secondo l'antico Testamento

1. La diversità
2. L'unità attraverso i Patriarchi, l'Alleanza, i Re e i Profeti
3. L'unità attraverso l'istituzione sacerdotale

 

II. Dall'Antico al Nuovo Testamento

1. Unità e diversità del Giudaismo all'epoca del Secondo Tempio
2. Gesù di Nazaret


III. Unità e diversità nel Corpus paolino

1. Le lettere cosiddette «proto-paoline»
2. Le lettere cosiddette «della prigionia»
3. Le lettere cosiddette «pastorali»

 

IV. Unità e diversità nei Vangeli sinottici e negli Atti

1. Marco
2. Matteo
3. Luca e Atti

 

V. Altri scritti

1. La lettera agli Ebrei
2. La prima lettera di Pietro

 

VI. Unità e diversità nel Corpus giovanneo

1. Il IV Vangelo
2. Le lettere di Giovanni
3. L'Apocalisse

 

B. BREVE SINTESI DELLA TESTIMONIANZA BIBLICA

1. I diversi nomi dell'unica Chiesa
2. La comunione ecclesiale nella diversità

 


A. LE TESTIMONIANZE SUCCESSIVE
DEGLI SCRITTI BIBLICI

I.
LA DIVERSITÀ NELL'UNITÀ,
OLTRE LA DIVISIONE E L'UNIFORMITÀ,
SECONDO L'ANTICO TESTAMENTO

1. La diversità

a) La Bibbia fin dall'inizio si presenta come la manifestazione del Dio dell'universo, creatore «del cielo e della terra», cioè della varietà degli esseri e delle loro specie (Gn 1,11-31).

Questa diversità degli esseri nell'universo e delle famiglie, delle nazioni e dei popoli nella storia (Gn 10,5...) è voluta da Dio e considerata «buona» (Gn 1,12.17.21.25.31).

b) Tuttavia la felice diversità degli uomini (sessi, tribù e nazioni) può diventare la fonte di infauste divisioni, se l'uomo non ascolta la voce di Dio (Gn 2-3) e perverte la «sua via» (Gn 6,12). L'umanità perde il contatto con una natura benefica (3,18), l'uomo opprime la donna (3,16), un fratello uccide il proprio fratello (4,8.23.24); le nazioni si disperdono (Gn 11) e si combattono.


2. L'unità attraverso i Patriarchi, l'Alleanza, i Re e i Profeti

Nonostante queste opposizioni, spesso sanguinose, i gruppi umani permangono. Essi conservano, almeno parzialmente, la loro coesione interna: attraverso il patriarca nella famiglia, attraverso gli anziani nei clan o nelle nazioni, attraverso i capi nei popoli, e persino attraverso alleanze di tipo diverso tra popoli dei quali sono così rispettate le diversità.

Per superare le divisioni o le opposizioni tra individui, famiglie e popoli, il Dio della Bibbia utilizza alcune istituzioni:

a) Attraverso l'elezione, il Dio Creatore sceglie un patriarca che assicura la sua benedizione alla sua parentela, reale o giuridica. Così, ad Abramo si collegheranno non solo Israele, ma anche Ismaele, Edom, Madian e i discendenti di Chetura (Gn 25,1-4).

b) Il Dio d'Abramo e d'Israele trasforma le alleanze (berit) tra gruppi umani, nelle quali era testimone il dio nazionale, in un'Alleanza di cui Egli ha l'iniziativa: Mosè ne è mediatore e le tribù s'impegnano verso Dio stesso con stipulazioni (parole, comandamenti). Quest'Alleanza è conclusa con atti cultuali diversi (Es 24,1-13), e i fedeli dovranno rinnovare il loro impegno verso Dio e verso gli uomini.

c) In realtà, questo regime d'Alleanza non assicura una protezione sufficiente contro le opposizioni interne ed esterne (Libro dei Giudici). Dio concede al suo popolo l'istituzione monarchica (1Sam 8,22) e dinastica (2Sam 7,8-16). Se si manterrà la fedeltà all'Alleanza mosaica, essa darà al re giustizia ed equità (mishpat e sedaqah: Sal 72,1-4; Gn 18,19; 2Sam 8,15; Ger 22,3...). Con le funzioni politiche il re riceve uno statuto religioso per mezzo dell'unzione. Le sue decisioni sono riconosciute dai suoi sudditi come parola del Dio nazionale (Prv 16,10-15), essendo egli stesso servo di quel Dio (2Sam 7,19; Sal 89,4).

d) Sebbene con Davide l'istituzione regale realizzi alcune promesse del Dio di Abramo, essa non può superare tutte le divisioni. Fin dall'inizio, suscita rivalità fra le tribù e aspri dissensi nella famiglia reale. Neppure un Davide può assicurare la giustizia al popolo (cf 2Sam 15,1-6). Il suo successore perde il controllo degli stati vicini e scontenta le tribù del Nord (1Re 11). Lo scisma si consuma alla morte di Salomone. Invocando ciascuno in proprio favore il medesimo Dio, gli Israeliti si dividono e si fronteggiano ostilmente.

e) Fin dall'epoca di Davide, negli ambienti profetici si levano voci contro i re e persino contro l'istituzione regale. Il popolo a poco a poco cessa di considerare la decisione del re come parola di Dio: gruppi di discepoli riconoscono questa Parola negli oracoli di alcuni profeti, loro maestri. Costoro talvolta intervengono contro le divisioni (1Re 12,24). Essi invocano come fattore di pace e d'unità l'antica tradizione di giustizia del Dio d'Israele, sia riguardo ai re e al popolo, sia riguardo alle stesse nazioni straniere (Am 1-2). I profeti alimentano la speranza che un discendente di Davide riunirà nella giustizia (Is 11,1ss.; Ger 23,5) e nella pace (Ez 34,24-25) non solo le tribù d'Israele (Ez 37,15-28), ma anche altri popoli (Is 55,4-5). È promessa una nuova alleanza (Ger 31,31-33; cf Ez 11,17-20; 36,2528; Is 24-26).


f) Le scuole profetiche presentano una grande diversità di mentalità e di opzioni politiche, e il popolo non dispone ancora di criteri per distinguere veri e falsi profeti. Tuttavia per tutti non c'è che un solo popolo dell'unico Dio d'Israele. Il movimento Deuteronomico tenta, dunque, di attuare l'unità della nazione eletta e consacrata (Dt 7,6) per mezzo della centralizzazione del culto nel «luogo scelto dal Signore», il Tempio costruito dal figlio di Davide (Dt 12,5; 1Re 8,29). Il Deuteronomio conosce le insufficienze dell'istituzione profetica (18,20ss.; cf Ger 28,8-9) ch'esso subordina a Mosè (Dt 18,15) e alla sua legge ( Torah). Questa è affidata ai sacerdoti-leviti (31,9): essi sono incaricati del servizio del culto che riunisce le famiglie di tutte le tribù in un'«assemblea del Signore», un qehal JHWH (23,2ss.; cf Ne 13,1; Mi 2,5...), in greco (LXX) Ekklêsía JHWH.

3. L'unità attraverso l'istituzione sacerdotale

Nell'accentuata diversità delle comunità giudaiche in diaspora, ormai prive di un'autorità politica nazionale, è l'istituzione sacerdotale a farsi carico del servizio dell'unità. E lo fa solo in funzione della Torah che riunisce il popolo in 'edah (in greco synagôghê) attorno alla presenza elettiva del suo Dio. Egli non solo ha scelto un santuario, ma vi ha fatto «dimorare» la Sua Gloria (Es 40,34-35; Lv 9,23). Re per il suo atto creatore dell'universo (Sal 93), Dio «sui cherubini» (Sal 99,1) troneggia nel suo santuario (Sal 96,6), senza che alcuno possa avvicinarlo, se non il sommo sacerdote consacrato, una volta all'anno. Questa comunità, per la quale il sommo sacerdote ha la missione di intercedere, è oggetto di diverse metafore che ne sottolineano l'unità organica: la vigna (Is 5,7; Sal 80,9-17), l'albero (Ez 17,23), la città (Is 26,1-2; Sal 46,5), il gregge (Sal 95,7; Ez 34).

La consacrazione del popolo (Es 19,6) è garantita, attraverso leggi di purità (Lv 11-16), dalla contaminazione delle nazioni seduttrici (Ez 16,23-29). Ma le nazioni sono chiamate a partecipare alla sua speranza (Is 51,5) e al suo culto (Is 56,6-7; 2,2-4; Sal 102,19-23). È il caso di stranieri come Rut la Moabita, i discendenti dell'Edomita e dell'Egiziano alla terza generazione (Dt 23,4-9) e persino dei Babilonesi, degli abitanti di Tiro e dei Filistei (Sal 87) nelle loro diversità d'origine, a patto di «rinascere» in Sion (Sal 87,5-6) e di praticare la Torah (sabato, cf Is 56,2.6-7; e circoncisione, Gn 17,12-14).

L'unità non è assicurata né dalla sola parentela di sangue, che può essere discussa (Esd 2,59-63; cf 62) o minacciata da matrimoni misti (Ne 13,23-30; Esd 9-10), né dalla berit mosaica, che può essere rotta dagli uomini (Dt 31,16-20; Os 2,4; Ger 11,10; 14,21; 32,32; Ez 17,15.19; 44,7), né dal potere politico monarchico, che non ha osservato la giustizia e l'equità (Ger 22,13-17; cf v. 3), né dal sacerdozio aronnide che ha violato l'alleanza di Levi (Ml 2,5-8).

Il popolo rompe l'Alleanza, ma non è mai detto che Dio la revochi. Quando, secondo il libro di Daniele, verrà un re straniero «dal cuore ostile all'Alleanza santa» (11,28), e che, «furioso contro l'Alleanza santa, favorirà quelli che l'abbandonano» (11,30), colui che «vigila sui figli del tuo popolo» sorgerà per salvare coloro che sono scritti nel libro della vita, e per molti sarà la risurrezione (12,1-2). È ancora in Daniele che i santi dell'Altissimo ricevono un potere eterno con colui che è «simile a un figlio di uomo che appare sulle nubi del cielo» (7,13-14.27), mentre sono giudicati gli imperi mostruosi.

II.
DALL'ANTICO
AL NUOVO TESTAMENTO


1. Unità e diversità del Giudaismo all'epoca del Secondo Tempio

La diversità delle comunità giudaiche, in una diaspora influenzata da poteri politici e da culture differenti, si è confermata feconda, sia che si trattasse dell'Egitto (Elefantina), della Persia (Susa, Nippur e Babilonia) o del bacino mediterraneo, in cui le colonie giudaiche stavano moltiplicandosi durante l'epoca ellenistica. Il loro irraggiamento attira proseliti e «timorati di Dio».

La fedeltà alla Torah, ad un tempo morale e cultuale (pellegrinaggio al Tempio, luogo eletto e Dimora della Gloria), assicura l'unità del popolo d'Israele. Certo, la Torah non impedisce che questa ricca diversità si muti in divisione con l'apparire dei partiti religiosi:

a) I Samaritani non riconoscono né il Tempio di Gerusalemme né l'autorità dei Profeti e degli altri Scritti.

b) Gli Ebrei d'Egitto riconoscono la Torah nella versione greca dei Settanta, a partire dall'epoca dei Lagidi (III-II sec. a.C.). Alcuni rifiutano di riconoscere la validità del sacerdozio di Gerusalemme e aderiscono al tempio di Leontopoli e al suo sacerdozio oniade.

c) Al contrario, i Sadducei sono molto legati al Tempio di Gerusalemme e al suo culto.

d) La comunità essena si considera come il solo autentico santuario e il vero Israele: i suoi membri oppongono i «figli della luce» ai «figli delle tenebre».

e) I partigiani di Giuda il Galileo e quelli che diventeranno «sicari» e «zeloti» rifiutano la distinzione di Ezechiele tra il «principe» e il «sacerdote», cioè tra il civile e il cultuale (cf Ez 44-46; cf Nm 27,18-23). Essi considerano incompatibili l'obbedienza a Dio e l'obbedienza all'Impero romano pagano.

f) I Battisti attribuiscono una nuova importanza alla «purificazione».

g) I Farisei cercano di praticare rigorosamente la purità legale all'interno del mondo profano, fissando in nuovi comportamenti le prescrizioni della Torah. La manifestazione della Gloria di Dio è riservata agli ultimi tempi.

Dopo la scomparsa totale del culto del Tempio e del sacerdozio aronnide, il fariseismo salverà l'unità del Giudaismo con la fedeltà alla morale della Torah e al culto sinagogale. La 'edah del Levitico diventa allora la Sinagoga, la purezza e la separatezza sono celebrate nelle grandi feste del Rosh ha-Shanah e del Kippur, in cui sono proclamate la regalità di JHWH e il perdono delle colpe del popolo. La diversità dei riti e delle tradizioni locali non indebolirà l'unità del Giudaismo, non più della varietà delle interpretazioni legali dei Rabbini.

2. Gesù di Nazaret

In un'epoca in cui il popolo giudaico attua la propria unità con la fedeltà alla Torah di Mosè e al culto del Tempio di Gerusalemme - mentre la sua divisione in gruppi diversi ( haireseis) minaccia tale unità - Gesù comincia il suo ministero in Galilea. Solo parecchi anni dopo la sua morte i ricordi dei suoi atti e delle sue parole saranno messi per iscritto e faranno parte di ciò che si chiama il Nuovo Testamento. Non è possibile precisare i particolari della sua vita terrena a partire dai testi evangelici che ci sono conservati. Tuttavia alcuni dati fondamentali sulla sua vita e sulla sua missione sono riconosciuti come certi.

Gesù appartiene al popolo ebraico e si rivolge a Israele. Anche i suoi discepoli sono ebrei e, quando sono inviati ad estendere la sua azione, si limitano a Israele. Costituendo il gruppo dei Dodici (che non sono ancora chiamati Apostoli negli strati più antichi della tradizione sinottica), Gesù compie un gesto profetico e manifesta la Sua volontà di radunare di nuovo e di ricostituire il popolo d'Israele con le sue dodici tribù, così come la tradizione giudaica l'attendeva per il tempo messianico. Gesù è anche accusato di voler distruggere il Tempio.

Gli studi critici non sono riusciti ad ottenere un consenso unanime sul contenuto esatto della sua predicazione. Certamente si sono identificati aspetti che mettevano in questione l'antica unità d'Israele e delineavano i contorni di una nuova unità che la superava. Ecco ciò che la tradizione apostolica gli riconosce riguardo al Regno di Dio e alla sua presa di posizione nei confronti della Torah:

- alcuni elementi tradizionali sono assenti dalla sua predicazione del Regno di Dio: gli elementi politico-nazionalistici, la restaurazione del trono regale di Davide in tutto il suo splendore e l'espulsione dei nemici del popolo dal paese, mentre questi elementi facevano parte dell'ardente speranza di quel popolo (Salmi di Salomone 17). La sua predicazione ha un'apertura universale: secondo le attese profetiche (Is 25,6), Gesù attende la riunione dei popoli al banchetto del Regno con i Patriarchi.

- Egli non abroga la Torah ma le dà una nuova interpretazione. Critica la forma che al suo tempo ricevono i precetti di purità e la Legge sabbatica, considerata dalla pietà giudaica un bene proprio. Il suo invito alla conversione esige da tutti una decisione personale. Per ciò stesso fa nascere delle divisioni tra le persone. Ma «la moltitudine» deve beneficiare della sua morte.

III.
UNITÀ E DIVERSITÀ
NEL CORPUS PAOLINO

1. Le lettere cosiddette «proto-paoline»

Paolo si presenta come apostolos, l'infimo degli Apostoli (1Cor 15,9), ma apostolo al medesimo titolo (cf Gal 1-2), perché apostolo di Gesù Cristo (1Cor 1,1; 2Cor 1,1). La sua missione è quella di portare il Vangelo di Dio, annunziato dai Profeti, riguardante il Figlio risuscitato con potenza secondo lo Spirito di santificazione (Rm 1,1-4). Il problema dei rapporti tra le Chiese locali e l'universalità di un solo popolo di Dio non è trattato direttamente da Paolo; ma nelle sue lettere si trovano alcune discussioni e alcuni dati che possono aiutare la nostra riflessione sul problema: relazioni tra giudei e pagani, tra deboli e forti, tra poveri e ricchi, tra uomini e donne, rapporti dei fedeli con Paolo e con i suoi collaboratori, esistenza di parecchie Chiese domestiche (Rm 16,5; Fm 2), eresie, scismi e disordini, diversità di doni e di carismi...

Il nostro tema sarà illuminato in modo del tutto particolare dall'analisi di due situazioni concrete: 1. Come nella lettera ai Galati Paolo giudica le relazioni tra i pagani convertiti e i giudeo-cristiani? 2. Come nella 1 Corinzi e nella lettera ai Romani si vede la diversità nell'unità di queste due comunità?

1. In Gal 1-2, Paolo afferma l'unità dei credenti ponendo l'accento sull'unicità del Vangelo: la stessa grazia viene da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati per strapparci da questo «mondo perverso» (1,3-4). L'espressione Ekklêsía tou Theou (1,13) probabilmente ha già una risonanza più che locale.

Tuttavia non ci sono solo parecchie Chiese in Galazia (1,2) e altrove, il che è segno di vitalità. Ci sono anche serie tensioni causate dai giudaizzanti che deformano il vangelo del Cristo. Paolo racconta ciò che avvenne quando, con Barnaba, egli condusse Tito a Gerusalemme. Là egli espose il suo Vangelo alle «persone ragguardevoli»: esse riconobbero l'apostolato che gli era stato affidato. I partecipanti accettarono due diverse evangelizzazio­ni: una per i circoncisi, affidata a Pietro, l'altra per gli incirconcisi, affidata a Paolo. In occasione del conflitto di Antiochia, Paolo dimostrò che per tutti la giustificazione viene dalla fede in Gesù Cristo e non dalle opere della Legge. Rimproverando a Pietro, che evitava di prendere parte ai pasti con gli etnico-cristiani, di non camminare più secondo la verità del Vangelo (Gal 2,14), Paolo difese per i suoi pagani convertiti la libertà di fronte alla Legge.

2. Le divisioni nella Chiesa di Corinto, ricordate in 1Cor 1-3, sono causate dalle differenze tra partiti. Paolo non le ritiene legittime. Ma in 1Cor 12 e Rm 12 Paolo descrive la diversità necessaria, usando l'immagine del corpo e delle membra. Lo Spirito distribuisce a ciascuno i suoi doni secondo la sua volontà: «Vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti» (1Cor 12,4-6.15-22; Rm 14,2-3). Questa diversità, certamente voluta da Dio, non può diventare disordine. Dio, Gesù Cristo e lo Spirito devono garantire l'unità al livello fondamentale, ma la devono garantire anche, in altro modo e ciascuno a proprio titolo, il battesimo (Gal 3,27-28; Rm 6,3-4) e l'Eucaristia (1Cor 10,16-17), la fede (Rm 1,16; 3,22) e l'agape (1Cor 13; Rm 5,3-8).

3. Con l'appoggio di questi due esempi, possiamo delineare una sintesi paolina e iniziare una riflessione sui mezzi con i quali Dio assicura la coesione dei cristiani. In seguito sottolineeremo le esigenze di una diversità ben integrata.


Alcuni fattori d'unità tipici di Israele esercitano ora solo una funzione molto attenuata. Senza negare la santità, la giustizia e la bontà della Torah (Rm 7,12), Paolo in altri testi sottolinea il suo carattere esclusivo e nazionale (cf Gal 2,14). Respinge come principio di unità la circoncisione e le regole alimentari. Pur riconoscendo nel culto un privilegio di Israele (Rm 9,4), Paolo parla poco del Tempio, perché i cristiani stessi sono santuario ( naós) di Dio (1Cor 3,16-17; 2Cor 6,16). Gerusalemme ha importanza soltanto a titolo di Chiesa-madre, prova della fedeltà di Dio alla sua Alleanza. Questa Chiesa ha autorità per i capi riconosciuti che vi si trovano. Essi sono considerati le colonne ( styloi) della comunione (Gal 2,9); senza l'accordo con loro, Paolo ritiene che avrebbe «corso invano» (Gal 2,2). Non si parla di «Terra santa». Il cristiano si collega ad Abramo e al popolo eletto per mezzo della fede nel Cristo.

Paolo insiste, invece, sull'apostolato (Gal 1,1; 1Cor 9,1). È una funzione di universalità e di unità che non è limitata a una Chiesa locale. L'apostolo Paolo stesso costituisce, senza alcun dubbio, un legame di unità tra le Chiese particolari. La predicazione di un Vangelo comune unifica tutti i credenti delle diverse Chiese (1Cor 15,11). Tanto il battesimo quanto l'eucaristia (e i pasti comunitari) operano la comunione tra i cristiani. Si può dedurre da 1Cor 11,23ss. che l'Eucaristia è fondamentalmente la stessa a Corinto, ad Antiochia o a Gerusalemme.

Ugualmente, la complementarietà dei carismi è mediatrice di unità. Senza la diversità dei doni, il funzionamento del corpo sarebbe impossibile. Le norme, stabilite da Paolo e talvolta molto uniformi, servono all'unità; su questo punto Paolo ritiene di avere un potere (exousía, 2Cor 10,8; 13,10), anche se non vuole servirsene sempre. E infine, la comunione (koinônía) tra gli apostoli (Gal 2,9) favorisce l'unità tra le diverse Chiese. La molteplicità di queste potrebbe provocare la divisione, e ciò renderebbe vano l'apostolato. Il «ricordarsi dei poveri» di Gerusalemme (Gal 2,10) manifesterà concretamente la comunione. La colletta di cui parlano le lettere sarà un atto che esprime la solidarietà dei cristiani in un senso eminentemente ecclesiale.

Per quanto concerne la diversità, Paolo accetta come ricchezza del corpo le differenze tra le membra. A tale livello non esiste l'uniformità. Paolo si fa tutto a tutti, «giudeo con i Giudei» e «con coloro che non hanno legge, come uno che è senza legge» (1Cor 9,19-22). Dalle autorità di Gerusalemme esige che sappiano discernere ciò che è essenziale e che deve restare identico per tutti i cristiani. Egli rifiuta, dunque, ogni settarismo conformista. Senza promuovere formalmente i valori umani che variano a seconda delle razze, delle regioni e delle culture, Paolo si sforza di liberare i suoi etnico-cristiani dall'inculturazione religiosa dei Giudei. Perciò ci si può domandare se, secondo le prospettive di Paolo, le diverse Chiese locali non dovrebbero distinguersi per i loro carismi particolari e contribuire, così, alla legittima e arricchente diversificazione della Chiesa una e universale

2. Le lettere cosiddette «della prigionia»

Su due di queste lettere ci dobbiamo soffermare: Colossesi ed Efesini. Le loro prospettive non sono più quelle delle Lettere protopaoline. Il Cristo è il capo di una Chiesa che è il suo corpo. L'escatologia vi appare più «realizzata», la cristologia più cosmica.

1. Nella Lettera ai Colossesi, l'autorità di Paolo è sottolineata di fronte ai pericoli dell'eresia. Ma la diversità nell'unità è enunciata più d'una volta. Il Cristo è «il capo del corpo che è la Chiesa» (1,18), «il capo dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e di legami, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio» (2,19). I cristiani sono chiamati alla pace di un solo corpo (3,15). L'origine di questo vocabolario è più cosmologico che politico. In Colossesi, la Chiesa ha una vocazione nel mondo. In essa il Vangelo fruttifica e si sviluppa (1,6); esso è annunziato ad ogni creatura sotto il cielo (1,23). I Colossesi devono pregare perché Dio apra la porta alla predicazione (4,3-4). I precetti morali indicano uno stile di vita a ciascun membro della grande famiglia: mariti, genitori, padroni da un lato, e spose, figli, schiavi dall'altro (3,18-4,1). Al di sopra di tutto, i cristiani debbono «rivestirsi» dell'«agape» che «è il vincolo della perfezione» (3,14).


2. La lettera agli Efesini ha sviluppato ulteriormente questa esortazione. Nel codice familiare di 5,21-6,9, l'unione tra il Cristo (capo, sposo, salvatore) e la Chiesa, suo corpo-sposa, serve d'esempio alle relazioni tra marito e moglie. Lo Spirito fa abitare, per la fede, il Cristo nei cuori dei cristiani, in modo che essi sono radicati e fondati nella carità (3,16-17). Dio fa conoscere «il mistero della sua volontà per ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (1,9-10). Il Paolo della lettera agli Efesini, che si autodefinisce «l'infimo fra tutti i santi», ha ricevuto la grazia di annunziare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo (3,8). È la rivelazione della presenza attiva di Dio nel mondo.

Anche in Efesini, la Chiesa è il corpo di Cristo che ne è il capo. A questa Chiesa egli ha dato una grande diversità di ministeri per edificare il suo corpo (4,7.11-12). Da lui «tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l'energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità» (4,16). La Chiesa è anche paragonata a una costruzione-tempio, che ha per fondamento gli apostoli e i profeti, e per pietra angolare (akrogôniaios) il Cristo (2,20). Senza alcun dubbio il Cristo è la nostra pace. Egli della divisione tra Giudei e pagani ha fatto un'unità, un solo popolo. Per mezzo della sua croce Egli ha riconciliati tutti e due con Dio in un solo corpo (2,14-22). L'autore esorta i suoi cristiani: «Cercate di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati...; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (4,3-6). Sebbene non usi l'espressione «una sola Chiesa», egli afferma con forza l'unità del corpo che è la Chiesa.

3. Le lettere cosiddette «pastorali»

Per le Chiese locali di Efeso e di Creta, si nota in queste lettere un'evoluzione della situazione descritta negli altri scritti del Corpus paolino. Vi si trova un'organizzazione più articolata dei ministeri. La fede è presentata meno come un atto che come un «deposito» che si deve conservare, come una dottrina alla quale bisogna restare fedeli. La Chiesa è presentata meno come un soma («corpo») che come un oikos («casa»).

L'autore non parla esplicitamente dei rapporti tra queste Chiese e la Chiesa universale. Tuttavia bisogna notare come è accettata l'autorità di Paolo che trascende le varie località: a questo titolo è riconosciuta l'autorità dei suoi delegati, Timoteo e Tito. A Timoteo il dono della grazia è stato conferito per un intervento profetico, accompagnato dall'imposizione delle mani dal collegio degli anziani (1Tm 4,14) e da Paolo (2Tm 1,6). Timoteo stesso imporrà le mani ad altri. Qui dunque appare una specie di successione nell'esercizio dell'autorità legittima (vedi anche 2Tm 2,2).


Senza poter affermare che un'identica situazione sia esistita nelle altre comunità, si notano grandi somiglianze nelle due Chiese di Efeso e di Creta. Esse arrivano sino all'uniformità. Così Timoteo, che conosce le Scritture dalla sua giovinezza, deve difendere, come Tito, la fede e la sana dottrina dagli errori (1Tm 6,20-21; 2Tm 3,13; Tt 1,9; 3,10). Tutti e due debbono completare l'organizzazione delle Chiese. Tito, secondo le istruzioni di Paolo, stabilirà degli anziani in ogni città (Tt 1,5). Si trovano degli anziani anche in 1Tm 5,17-19. Le qualità richieste per il vescovo sono le medesime in 1Tm 3,2-7 e in Tt 1,7-9. Timoteo deve vigilare sulle qualità dei diaconi (1Tm 3,8-10; 12-13) ed anche delle donne (diaconesse?) in 3,11. Infine, essi devono esortare i loro cristiani secondo le direttive paoline affinché tutti, in ogni classe sociale (1Tm 5 e 6; Tt 2,1-10), si comportino in modo irreprensibile.

In tal modo l'unità della Chiesa, già debitamente strutturata, sarà custodita e mantenuta. I cristiani sono «la casa di Dio, la Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15). I cristiani fanno parte del popolo che appartiene a Gesù Cristo grazie al suo sacrificio (Tt 2,14).

IV.
UNITÀ E DIVERSITÀ NEI VANGELI SINOTTICI
E NEGLI ATTI

I Vangeli sinottici proseguono con il loro kerygma la predicazione di Gesù e, come Paolo, portano il Vangelo in territorio non giudaico.

1. L'annuncio del Regno di Dio occupa un posto centrale nel Vangelo di Marco (Mc 1,15); tuttavia il messaggio del Regno di Dio diventa «Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio» (1,1). È il segno di una situazione post-pasquale, in cui si considerano retrospettiva­mente gli eventi centrali della fede cristiana, cioè la crocifissione e la risurrezione di Gesù.

a) La confessione di Gesù come Messia fatta da Pietro (8,29) e come Figlio di Dio fatta dal centurione ai piedi della croce (15,39) è divenuta, con la celebrazione della Cena del Signore, il nuovo punto di raccolta in cui il popolo di Dio si unisce. Certo, il termine ekklêsía non appare in Marco e neppure in Luca; ma l'esistenza di tale realtà è chiaramente supposta. E difficile precisare i rapporti tra la Chiesa e la Sinagoga, ma la separazione si prepara (cf Mc 7,3-4; 12,9; 13,9). Le proibizioni alimentari non hanno più alcun valore (7,15.19). Gesù porta qualcosa di fondamentalmente nuovo (1,27; 2,21-22), si commuove sul gregge senza pastore (6,34) e condanna i vignaiuoli della vigna (12,1-12).

b) L'intervento di Gesù contro i «venditori del Tempio» è giustificato dalle parole di Is 56,7: «La mia Casa sarà chiamata Casa di preghiera per tutte le genti» (11,17). La vicinanza del Regno di Dio, che sembra espressa in 9,1 e 13,30, è affermata ma «prima è necessario che il vangelo sia proclamato a tutte le genti» (13,10).

c) I Dodici, che solo una volta sono chiamati Apostoli (6,30), rappresentano in primo luogo il gruppo testimone, che ha accompagnato la vita e l'azione del Cristo. Esso deve ora proseguire la sua opera; tra costoro, Pietro è nominato per primo (3,16). Egli è il portavoce (8,29).

d) La morte redentrice di Gesù (10,45) fonda l'alleanza nel suo sangue versato per la moltitudine (14,24). Dopo la sua risurrezione, Gesù come pastore riunisce le sue pecore disperse (14,27-28).

2. Il Vangelo di Matteo, chiamato il Vangelo della Chiesa per eccellenza, usa due volte il vocabolo ekklêsía (16,18; 18,17-18). La continuità con Israele e il distacco dalla Sinagoga sono i due poli che guidano la sua riflessione teologica.

a) Numerose citazioni esplicite stabiliscono che Gesù è il Messia di Israele e il salvatore del suo popolo, come l'aveva annunziato la Scrittura. Ma Israele, nel suo insieme, non l'ha accettato e da lui viene direttamente criticato (Mt 20,16; 22,5-8). Il «Regno di Dio», considerato da Matteo un dato della storia della salvezza nel passato, nel presente e nel futuro, sarà tolto ai capi di Israele e dato a un popolo che lo farà fruttificare (21,43).

b) Simone, il primo dei dodici apostoli (10,2), si vede imporre il nome di Pietro; egli è costituito roccia di fondamento della Chiesa universale del Messia (16,18: «mou tên ekklêsían»), per assicurarne la coesione. Come depositario delle chiavi del Regno dei cieli è dotato di pieni poteri di legare e di sciogliere, egli è il garante della fedeltà alla persona e all'insegnamento di Gesù. Il pieno potere di legare e di sciogliere è parimenti esercitato nella comunità locale (18,18).

c) Gli undici discepoli, incaricati della missione dal Signore glorificato, sono inviati in tutto il mondo per far discepole tutte le nazioni (28,19). Nella loro comunità l'onnipotenza del Cristo continuerà a operare la salvezza (28,18-20).

3. Le concezioni teologiche lucane si trovano nel Vangelo di Luca e negli Atti degli Apostoli. Nel Vangelo, l'azione di Gesù è centrata sul paese d'Israele. Gesù comincia ad agire nella sua patria immediata, Nazaret (4,16-30); non varca i confini del territorio ebraico (a differenza di Mc 7,24ss. e par.). Inviando i suoi apostoli (9,2) e discepoli (10,1), si preoccupa di mettere tutto Israele di fronte al messaggio di salvezza.

In Luca, il Vangelo sviluppa una teologia della strada (hodós, poreúomai). Da bambino Gesù è venuto due volte al Tempio, da suo Padre (2,41; cf 2,23). Egli riprende con i suoi discepoli la strada verso Gerusalemme (9,51ss.), dove gli uomini lo uccideranno (13,33), ma dove Dio lo risusciterà (24,34). Questa strada prosegue negli Atti e conduce da Gerusalemme agli «estremi confini della terra» (1,8). Gerusalemme è al centro di una concezione della storia della salvezza secondo la quale l'antico popolo di Dio si muta in un popolo di Dio scelto «tra i pagani» (At 15,14). Il passaggio del Vangelo da Israele alle genti corrisponde al progetto di Dio nella sua continuità e nella sua discontinuità.

I dodici apostoli (At 6,2), divenuti ministri della Parola (cf Lc 1,2) - tra loro Simon Pietro, il primo chiamato (Lc 5,1-10), riceve la missione di confermare i suoi fratelli (22,32) - sono i testimoni qualificati dell'azione, della morte e della risurrezione di Gesù (At 1,8.21-22).

Negli Atti degli Apostoli, la vita della Chiesa delle origini è descritta con insistenza come la vita di un popolo di Dio nella diversità e nell'unità.

Il racconto della Pentecoste (2,1ss.) fa conoscere la discesa dello Spirito di Dio che si fa comprendere da uomini dalle diverse lingue (e culture): è così abolita la confusione delle lingue provocata dall'orgoglio dei costruttori di Babele. La Chiesa, nata dallo Spirito, fin dalla sua origine è composta da uomini di diverse lingue e culture, riuniti ora dallo Spirito nella fede. Essi sono designati come «i fratelli» (1,15), «i credenti» (2,44), i«discepoli» (6,1), «quelli che invocano il Nome del Signore»(cf 9,14.21), i «salvati» (2,47), «la setta dei Nazorei» (24,5), i «cristiani» (11,26; 26,28).

Il termine ekklêsía designa per lo più la Chiesa locale (come quelle di Gerusalemme e d'Antiochia); ma si parla anche della «Chiesa in tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria» (9,31), o ancora della «Chiesa di Dio che egli si è acquistata con il suo sangue» (20,28). Si sente dire che le Chiese locali si scambiano delle delegazioni e che ci sono degli aiuti materiali reciproci (11,29).


I «sommari» che descrivono la vita della Chiesa di Gerusalemme (2,42-47; 4,32-35; 5,12-16) nella redazione lucana hanno un valore esemplare per tutte le Chiese. I credenti si riuniscono ancora nel portico di Salomone situato nel Tempio (5,12). Si loda la loro unità e la loro concordia, che hanno come garanti la dottrina degli apostoli alla quale ci si collega, la comunione ( koinônia), la frazione del pane e le preghiere che si fanno nelle case private. La libera vendita delle proprietà e il mettere in comune le risorse mirano a sopprimere l'indigenza e rafforzano la coscienza della fraternità. L'unanimità dei cristiani è costantemente sottolineata ( homothymadon: 1,14; 2,46; 4,24; 5,12...), anche se essa a volte può essere turbata da incidenti (5,1-11).

I discorsi della predicazione missionaria del cristianesimo primitivo sono composti a partire da modelli di origine differente. Vi si possono vedere forme diverse della predicazione cristiana, che varia secondo gli ambienti e gli uditori. Il discorso di Pietro a Gerusalemme per la Pentecoste può essere considerato il modello di un discorso missionario a un pubblico giudaico (2,14-36), mentre il discorso di Paolo all'Areopago di Atene è un modello di discorso missionario davanti a una cerchia di uditori greci (17,22-31).

Ciò è confermato dalla scelta degli argomenti e delle immagini, che volta per volta tengono conto dell'universo mentale di coloro ai quali ci si indirizza. Vi si scorgono anche le differenze d'opinione e i conflitti della Chiesa delle origini. Tali differenze sono in gran parte condizionate dalla diversa origine dei membri. Gli Atti le registrano senza timore. È il caso del malcontento degli Ellenisti verso gli Ebrei nella Chiesa di Gerusalemme, perché le loro vedove erano state trascurate nella distribuzione quotidiana (6,1-6). È anche il caso del conflitto sul modo in cui i pagani convertiti potevano essere ammessi nella Chiesa. C'era un grande numero di conversioni dal paganesimo ed alcuni giudeo-cristiani ritenevano rigorosamente necessaria l'accettazione della circoncisione (15,1-5). Fu anche il caso delle reticenze manifestate nei riguardi dell'apostolo Paolo in occasione della sua ultima visita a Gerusalemme (21,21).

Le soluzioni che si trovarono e che gli Atti propongono non sono tali da trascurare completamente le particolarità culturali o religiose di coloro che sono entrati nella Chiesa. Gli accordi raggiunti nell'Assemblea apostolica, e che in Atti 15 comprendono la non imposizione della circoncisione e le «clausole di Giacomo», accettano, invece, ed entro certi limiti, invitano a rispettare il bene di ciascuno. Nello stesso senso gli Atti ci mostrano un Paolo disposto a comportarsi totalmente da giudeo a Gerusalemme (21,23-26).

Gli Atti riflettono una larga diversità d'organizzazione ecclesiale e ministeriale a seconda dei luoghi e dei gruppi etnici. Le Chiese locali appaiono largamente autonome nel loro funzionamento interno, pur essendo reciprocamente solidali e pur conservando un legame privilegiato con Gerusalemme.

Tale diversità valorizza esplicitamente un'unità che non trascura le particolarità, ma le assume in una comunione che le trascende. Per i casi in cui sorgono dei conflitti, gli Atti indicano i mezzi per salvaguardare l'unità: le direttive date dagli Apostoli (6,2; 15,7-11), la fede che tutti confessano in maniera identica (15,7-9), l'amore che tutti devono nutrire gli uni per gli altri, rispettandosi mutuamente e vivendo gli uni per gli altri, infine e soprattutto la presenza dello Spirito Santo, il quale non solo ha riunito la Chiesa, ma anche la dirige e la guida. Secondo la fede della comunità, lo stesso Spirito Santo si è espresso nella decisione dell'Assemblea apostolica (15,28).

Tuttavia, quando c'è una decisione da prendere, la comunità è coinvolta nel suo insieme. In 6,5 essa approva la proposta degli Apostoli; in 15,22 essa è d'accordo con gli Apostoli e gli Anziani.


Con questo quadro della vita della Chiesa delle origini, in certo modo idealizzato, gli Atti hanno voluto dare alle generazioni future l'esempio di una vita vissuta nell'amore sotto la guida dello Spirito.

V.
ALTRI SCRITTI

1. La lettera agli Ebrei

La questione dell'unità nella diversità non è mai trattata esplicitamente nella Lettera agli Ebrei. Ma un principio di unità è affermato con grande insistenza in termini nuovi: l'unico sacrificio del Cristo, offerto una volta per tutte, ha sostituito la diversità delle antiche oblazioni (10,5-10). Cristo, proclamato sommo sacerdote, «divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (5,9).

L'iniziazione cristiana vale più dell'esperienza terrificante dell'Horeb (12,18-21; cf Dt 4,11; Es 19,12.16), perché essa mette in relazione sia con la «Gerusalemme celeste», un'«assemblea (ekklêsía) di primogeniti iscritti nei cieli», sia con Gesù, «Mediatore della Nuova Alleanza» (12,22-24; cf Ger 31,31-34). In ciò si può vedere che l'unità cristiana ha un fondamento non terrestre, per quanto si esprima in una solidarietà concreta (3,12-4,16). I «partecipi di Cristo» (3,14) devono prendere parte alle riunioni della comunità (10,25), conservare il ricordo dei loro primi capi (13,7) ed obbedire ai loro capi attuali (13,17), guardarsi dalle «dottrine diverse e peregrine», perché «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre» (13,8-9).

2. La prima lettera di Pietro

Questa lettera si presenta come scritta da Babilonia (= Roma: 5,13). Essa è indirizzata ai «fedeli»«eletti» che vivono da stranieri nella diaspora del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell'Asia e della Bitinia (1,1) e sono perseguitati in quanto cristiani. Evidentemente appartengono a diverse Chiese locali, ma l'autore tratta i suoi corrispondenti come membri di una stessa Chiesa, che riceve le testimonianze e le esortazioni dell'Apostolo Pietro.

In questo scritto, i cristiani, che sono rinati ad una nuova speranza nella risurrezione di Gesù Cristo, prendono coscienza della loro vocazione.

Essendo stati rigenerati dalla Parola di Dio (1,23), essi sono le pietre vive di un edificio spirituale (2,5). Stringendosi al Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma divenuta pietra angolare (2,4), essi ricevono l'eredità e i privilegi d'Israele, che l'autore esprime con le principali metafore usate dall'Antico Testamento in tal senso: «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo destinato alla salvezza» (2,9; cf Is 43,20-21; Es 19,5-6). Essi sono finalmente il popolo di Dio, quelli che hanno ottenuto misericordia (2,10; cf Os 2,25).

L'autore incoraggia i cristiani a rimanere saldi nella persecuzione, «sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse sofferenze» (5,9). Ed esorta gli anziani, dicendosi «anziano con loro», a pascere il gregge di Dio loro affidato, di cui Cristo è «il pastore supremo» (5,1.2.4).

La lettera ci presenta una Chiesa cosciente della propria dignità di popolo di Dio.

VI.
UNITÀ E DIVERSITÀ
NEL CORPUS GIOVANNEO


1. Il IV Vangelo

1. L'intenzione dichiarata dal IV vangelo è quella di suscitare nei suoi lettori la fede in Gesù, «il Cristo, il Figlio di Dio», perché essi abbiano la vita «nel suo nome» (20,31). Nessuna discriminazione è imposta, perché il disegno di Dio è quello di salvare il mondo (3,17). «Chiunque crede» (3,16) ha la vita eterna. Si può, dunque, dire che il fine del vangelo è l'unità di tutti nella fede e nella vita cristiana.

L'evangelista annota la diversità delle reazioni di fronte alla persona di Gesù (7,12; 11,45-46); ma per lui le reazioni ostili e incredule non sono giustificabili (3,18-20).

2. Gesù si rivolge a persone di origini e situazioni molto varie, che si legano a lui in modo diverso: alcuni discepoli di Giovanni Battista (1,35) che sono Galilei (1,44), Nicodemo il Fariseo, «un capo dei Giudei» (3,1; 7,50; 19,39), una Samaritana (4,7) e i suoi compatrioti (4,39), nonostante l'ostilità tra Giudei e Samaritani (4,9), un funzionario del re (4,46). Talvolta «una grande folla veniva da lui» (6,5). Alcuni non-Giudei sono attratti da lui (12,20-21).

3. Tutta questa diversità deve giungere all'unità grazie a Gesù, «il buon pastore» (10,11). Ci sarà «un solo gregge e un solo pastore» (10,16). I «mercenari», invece, lasciano che le pecore si disperdano (10,12). L'unità non si limita al «popolo d'Israele», ma deve aprirsi ad altre pecore (10,16), anzi a tutti «i figli di Dio dispersi» (11,52). Essa è presentata come il fine della morte di Gesù (11,51-52), l'oggetto della preghiera insistente del Cristo (17,11.22-23) e il mezzo per condurre il mondo alla fede (17,21.23). Il modello e la fonte dell'unità dei discepoli è la perfetta unità del Padre e del Figlio, la loro reciproca interiorità (17,11.21). I discepoli devono «rimanere nel Cristo», come i tralci sono uniti al ceppo della vite (15,1-7).

L'adorazione «in Spirito e verità» permette loro di superare il problema della divisione causata dal disaccordo sui luoghi di culto (4,21-24). Il vero santuario sarà il corpo di Gesù risorto (2,19-22). Lo Spirito, che il Padre manderà su richiesta di Gesù, costituirà evidentemente un legame misterioso tra i discepoli (cf 14,16-18). Il IV vangelo è molto attento all'unità spirituale dei credenti con Dio grazie all'interiorizzazione del messaggio di Gesù. Ma è meno preoccupato delle strutture dell'unità. Indicando la nuova nascita nell'acqua e nello Spirito come condizione per entrare nel Regno di Dio (3,5), e il «pane di vita» come condizione della vita del Figlio nei discepoli (6,57), grazie allo Spirito che dà la vita secondo 6,63, il vangelo di Giovanni implica però l'esistenza di alcuni atti a un tempo personali e comunitari, nei quali gli uomini ricevono dal Figlio la vita che viene dal Padre.

4. L'unità non si colloca più, dunque, sul piano politico (6,15; 18,37) e perciò non usa le armi umane (18,36; cf 18,10-11). Gesù la realizza con l'umile servizio (13,2-15) e con il dono di sé sino alla fine (10,14-18; 13,1; 15,13). Egli comanda ai suoi discepoli di seguire il suo esempio: «Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri»: è il «comandamento nuovo» (13,34).


5. Il IV vangelo non descrive l'organizzazione delle comunità cristiane; parla in via generale dei «discepoli» (78 volte), senza notare alcuna distinzione tra di loro. I discepoli renderanno testimonianza con lo Spirito (15,26-27). La loro unità non si definisce, dunque, in termini di autorità ma in termini di amore vicendevole, ed ha valore di testimonianza (17,20.23). Questa testimonianza non è solo umana: essa manifesta davanti al «mondo» la testimonianza che lo Spirito rende a Gesù.

6. Anche la scelta dei Dodici è ricordata (6,70; cf 13,18; 15,16.19), senza però che la loro funzione venga precisata: lo sarà dopo la risurrezione, quando Gesù, comunicando lo Spirito, li incarica di continuare la sua missione (20,21-23). Tra di essi è messo in evidenza Pietro: egli fa una professione di fede nel momento decisivo (6,68-69). Ed ha una funzione speciale per l'insieme dei credenti, perché, nonostante il suo triplice rinnegamento (18,17.25-27), è il solo che riceve dal Signore risorto la missione di «pascere le sue pecorelle» (21,15-19). Poco prima Pietro ha tratto la rete della pesca miracolosa che - particolare simbolico? - «non si spezza» (21,11).

7. Lo stesso capitolo finale manifesta, d'altronde, la diversità delle vocazioni nell'unità della fede in Cristo: il cammino previsto per Pietro non è il medesimo di quello del «discepolo che Gesù amava» (21,20-23). La funzione attribuita a quest'ultimo lascia intravedere il pluralismo che esisteva nella Chiesa al tempo della redazione del IV vangelo. Le comunità che hanno conservato e coltivato le tradizioni giovannee differivano su molti punti da quelle in cui si sono espresse le tradizioni sinottiche: cristologia che esplicita fortemente la filiazione divina di Gesù ed anche la sua divinità, pneumatologia particolareggiata, escatologia presentata spesso come già realizzata. Esse insistono sulla «verità» (alêtheia) rivelata in Gesù e sull'agape portata da Lui. Tuttavia queste differenze non sfociano in qualche forma di separatismo: il posto riconosciuto a Pietro dalla comunità del «discepolo amato da Gesù» lo testimonia (Gv 20 e 21).

 

2. Le lettere di Giovanni

Le lettere di Giovanni, benché più direttamente ecclesiali del vangelo, parlano meno esplicitamente di unità. Tuttavia la koinônia (1Gv 1,3.6.7) è in relazione a questo tema. La «testimonianza» dei primi discepoli riguardo al «Verbo della vita» permette di entrare nella «comunione» che i credenti hanno «con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo» (1,1-3) e per essa nella comunione degli «uni con gli altri» (1,7). La comunione è, dunque, basata sulla fede nel Verbo incarnato. Essa si esprime nell'amore reciproco (agape). In 1Gv si ritrovano i temi principali del IV vangelo, compreso quello dell'interiorità reciproca, legata alla fede in Gesù e all'agape (4,16); 1Gv giunge ad affermare: «Dio è amore (agape); e chi rimane nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (4,16). L'attenzione si fissa abitualmente sull'amore tra cristiani, incompatibile con l'amore del mondo caratterizzato dai «desideri egoistici» (2,15-17; 5,4.19). Tuttavia una prospettiva universale è chiaramente espressa in 1Gv 2,2: Gesù Cristo è «sacrificio di espiazione per i peccati... di tutto il mondo».

La preoccupazione principale dell'autore è quella di dare ai propri lettori dei criteri di autenticità cristiana, perché non è possibile ammettere qualsiasi diversità all'interno della comunione cristiana. Egli mette in guardia contro gli «anticristi» (2,18.19; 4,3) e contro i falsi profeti (4,1).I criteri dati sono di ordine cristologico e di fedeltà ai comandamenti (l'unico esplicitato è quello dell'amore reciproco). Riguardo alla dottrina (didachê) sul Cristo venuto nella carne (1Gv 4,2; 2Gv 7), 2Gv 10-11 comanda di essere intransigenti.


La 3 Gv riflette una situazione di conflitto per motivi di ambizione e di attaccamento al potere nella Chiesa. Il «presbitero» se ne duole, ma non va oltre un annuncio di rimprovero (3 Gv 10). Il vocabolo ekklêsía, assente dal IV vangelo e dalle due prime lettere, nei vv. 6.9.10 della terza lettera designa la Chiesa locale.

 

3. L'Apocalisse

A proposito dell'opera redentrice (êgórasas) dell'«Agnello», l'Apocalisse afferma con molta forza la diversità nell'unità: l'Agnello ha «riscattato per Dio con il suo sangue» uomini «di ogni tribù, lingua, popolo e nazione» e li ha «costituiti per Dio un regno di sacerdoti» (5,9-10). Più oltre, una formula analoga precisa che si tratta di una «moltitudine immensa» che sta «davanti al trono e davanti all'Agnello» (7,9): il ricordo di tale moltitudine viene dopo quello dei 144.000 «servi di Dio», che provengono da «ogni tribù dei figli d'Israele» (7,3-8).

Oltre alla diversità d'origine, si nota la diversità delle situazioni geografiche e spirituali delle «sette Chiese». Giovanni si rivolge loro collettivamente (1,4), prima di trasmettere all'«angelo» di ciascuna un messaggio del Signore risorto (cf 1,18; cf 2-3), che d'altronde vale anche per tutte (2,7.11 ecc.). «L'angelo» indica forse il capo della comunità. Il suo rapporto con il Cristo è presentato come molto stretto (1,16.20).

Il numero 7 simboleggia una totalità. Tutte le Chiese sono unite dalla loro comune sottomissione all'autorità del Cristo e alla voce dello Spirito. La maniera con cui Giovanni si presenta (1,9) attesta la fraternità dei cristiani di tutte le Chiese; ma nulla si dice dell'organizzazione di tale fraternità e neppure dei rapporti tra una Chiesa e l'altra. Nondimeno le lettere impongono un atteggiamento comune, soprattutto di fronte al culto pagano (2,14-15.20). È l'intervento di un uomo ispirato (1,3.10) teso a rafforzare la fedeltà unanime di tutte le Chiese; e tale intervento è presentato come una «testimonianza» (1,2) che incoraggia a custodire la «testimonianza di Gesù»(1,9; 12,17).

La visione della donna vestita di sole e coronata di dodici stelle, madre del Messia, è un simbolo potente di unità e di continuità dei due Testamenti (12,1-2.5-6). D'altronde il simbolo della nuova Gerusalemme, sposa dell'Agnello (21,9; 22,17) che scende dal cielo (21,2.10) e le cui dodici porte restano costantemente aperte a tutte le nazioni (21,12.25­.26), esprime fortemente la coscienza della vocazione all'unità. La nuova Gerusalemme è l'unica «dimora di Dio con gli uomini», ma la diversità non è abolita in essa. «Essi saranno i suoi popoli» (secondo una probabile lezione di 21,3). Il riferimento ai «dodici Apostoli dell'Agnello» come fondamenti (themelious) delle mura della città (21,14) suggerisce una certa strutturazione dell'unità. Ma la preoccupazione principale dell'Apocalisse non è quella di esprimere un'ecclesiologia, ma piuttosto di rafforzare la speranza cristiana in tempo di persecuzione.

 

B. BREVE SINTESI
DELLA TESTIMONIANZA BIBLICA

Nella diversità dei punti di vista che rappresentano i libri biblici, si possono distinguere parecchie vie attraverso cui il Dio dell'universo preparava la venuta del Cristo per «raccogliere in unità i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52; cf Lc 13,29). Il Dio della Bibbia non è solo il Dio degli Ebrei, ma anche il Dio delle genti. Egli giustifica gli uni in virtù della (ek) fede, e gli altri per mezzo (dia) della fede nel Cristo (Rm 3,29-30; cf 26). Egli è il Padre che ha mandato il suo unico Figlio per salvare il mondo (Gv 3,16).

L'unione del Padre e del Figlio è il fondamento dell'unità fra tutti (Gv 17,21).

Il Padre è l'origine di tutto (1Cor 8,6) e il termine di tutto (1Cor 15,28). L'unità è espressa:

- dai nomi diversi dati alla Chiesa di Cristo;

- dall'orizzonte universale proposto al dinamismo di ciascuna Chiesa e dai fattori di comunione tra le Chiese.

 

1. I diversi nomi dell'unica Chiesa

I nomi dati alla Chiesa del Nuovo Testamento non sono soltanto vari, ma talvolta disparati, se si prendono alla lettera i vocaboli e le immagini. Ciò perché la Chiesa non si lascia rinchiudere in una definizione. Come tutti gli esseri viventi, ha una sua propria individualità. Essa si lascia cogliere attraverso nomi e immagini varie, nate da ambienti diversi e che esprimono esperienze differenti e complementari.

1. Il suo nome specifico, Chiesa, indica sempre la medesima realtà, anche se questa appare sotto forme diverse, ora limitate a un luogo particolare, ora riproducenti la sua identità attraverso il tempo e lo spazio, realtà fatta per estendersi a tutto il mondo.

Nell'Antico Testamento greco, questo nome designava il popolo del Signore radunato da Mosè nel deserto per ascoltare la Parola di Dio e per impegnarsi ad obbedirgli (Dt 4,10; 5,22; cf At 7,38). Assemblea sacra, composta di membri purificati (cf Dt 23,2.3.4.8-9; Es 19,14-15; cf At 7,38), convocata in vista di un evento fondante, essa continuava a vivere dell'evento e doveva costantemente rinnovarlo nel rito (cf Dt 5,3). Nel Nuovo Testamento l'evento fondante, che porta a compimento e perfezione le promesse dell'Antico Testamento, è la morte e risurrezione del Cristo. La Chiesa ne è nata e ne vive.

2. Con il Cristo, manifestazione di Dio in un corpo crocifisso e risorto, anche la Chiesa acquista una figura nuova, quella del corpo. L'immagine, familiare all'antichità classica, acquista un senso più profondo: i cristiani sono «corpo di Cristo» (1Cor 12,27). Nel Cristo, essi sono le membra, necessariamente diverse, di un unico corpo (Rm 12,5; 1Cor 12,12; Ef 2,16; Col 3,15). Hanno doni diversi (Rm 12,6; 1Cor 12,4), ma ascoltano la stessa Parola di Dio, ricevono tutti la dottrina di Cristo (Mc 1,27; At 13,12; Tt 1,9) e si nutrono del medesimo pane (1Cor 10,17).

Questo Corpo è un organismo vivente e articolato (Ef 4,16; Col 2,19). Il Cristo ne è chiamato il capo (Col 1,18); i fedeli sono membra gli uni degli altri (Rm 12,5). Questo organismo cresce nello Spirito (Ef 2,21-22), finché tutti insieme, giunti all'età adulta, raggiungano la piena maturità di Cristo (Ef 4,13).

3. L'immagine del corpo concentra l'attenzione sull'organizzazione della Chiesa, sul suo funzionamento e sulla sua crescita. L'immagine del gregge evoca a un tempo il rischio e l'avventura, e la responsabilità del pastore. Nell'Antico Oriente era un'immagine tradizionale di portata politica e religiosa a un tempo. Quei popoli di allevatori erano abituati ad aspettare dai loro re e dai loro dei nazionali l'abbondanza e la sicurezza. Il Dio d'Israele è il Pastore del suo popolo (Sal 23). Davide, che nella sua giovinezza aveva custodito il gregge familiare (1Sam 7,8), si considera anch'egli responsabile del popolo (2Sam 24,17). Quando Dio decide di salvare le sue pecore maltrattate da pastori indegni, promette al suo popolo un nuovo principe, «il mio servo Davide» (Ez 34,23-24).

Gesù, figlio di Davide, è questo pastore promesso. Egli è il solo pastore di questo gregge unico (Gv 10,11-15). Egli conduce nel suo ovile pecore venute da altre parti (Gv 10,16). Ed affida ai discepoli la cura del suo gregge (Gv 21,15-17; cf At 20,28; 1Pt 5,2).

Il Cristo pastore è anche il re del suo popolo. Dopo aver annunciato il Regno di Dio durante il suo ministero (Mc 1,15 e par.), al momento di morire, rivendica la propria regalità davanti a Pilato dichiarando che essa non è di (ek) questo mondo (Gv 18,33-37). Risorto, la esercita (1Cor 15,24; Ap 1,16-18; 3,21) fino al momento in cui consegnerà il regno al Padre suo (1Cor 15,24).

4. Chiesa, corpo, gregge: necessariamente in questi vocaboli c'è una parte di immagine. Tutti e tre definiscono delle precise relazioni tra Cristo e il popolo di Dio. Altri nomi dati alla Chiesa suppongono che tali relazioni siano definite e pongono l'accento sulla loro portata affettiva. Lungi dall'essere secondari, essi valorizzano alcuni aspetti essenziali.

Tre immagini s'impongono in maniera particolare: il popolo di Dio è una costruzione, una piantagione, una sposa. Queste tre immagini si possono accostare: esse corrispondono ai tre atti fondamentali che, nella Bibbia, danno valore all'esistenza umana: costruire, piantare, sposare (cf Dt 20,5-7). La cosa meravigliosa è che Dio voglia costruirsi una casa, piantarsi una vigna, prendersi una sposa, e che questo progetto sia proprio la Chiesa.

a) Il popolo di Dio è una costruzione (oikodomê, 1Cor 3,9) che s'innalza per diventare un santuario santo (naos haghios, Ef 2,21). La Chiesa locale si riunisce spesso in una casa (kat'oikon: Rm 16,5). Tutti i cristiani sono i figli della Gerusalemme celeste (Gal 4,26). Nel loro corpo essi sono il santuario di Dio (1Cor 3,16; 2Cor 6,16) nel quale abita lo Spirito (1Cor 6,19). Cristo si presenta ora come il costruttore della sua Chiesa che egli edifica su Pietro (Mt 16,18), ora come il basamento (themelion) dell'edificio costruito dagli Apostoli (1Cor 3,11), ora come la sua pietra angolare (akrogôniaios, Ef 2,20; 1Pt 2,6; kephalê gônias Mc 12,10; At 4,11). In Efesini (2,20; 4,16), gli Apostoli e i Profeti sono le fondamenta di tale edificio (2,20) che si costruisce nell'agape (4,16).

b) Il popolo di Dio è anche chiamato una vigna, coltura delicata e preziosa da cui il vignaiuolo attende i frutti (Is 5,1-7; Ez 15; 17,68; Sal 80,9-17; Mc 12,1-12 e par.). Per portare frutto i discepoli debbono restare attaccati al ceppo (Gv 15,1-8). Anche l'olivo in Paolo è un'immagine del popolo di Israele, eletto da Dio, sul quale per grazia è stato innestato un ramo selvatico destinato a ricevere la linfa santa (Rm 11,16-24).

c) L'amore di Dio per il suo popolo è espresso con un'immagine ancor più audace, quella sponsale. Fin dalla sua elezione, Israele era la sposa eletta, spesso deludente, mai definitivamente abbandonata (Os 2,4-25; Ger 2,2; 31,3-4; Ez 16,6-62). L'immagine è ripresa da parecchi autori del Nuovo Testamento che l'applicano al Cristo e alla Chiesa (Mt 9,15 e par.; cf Gv 3,29; Mt 22,1-14; 2Cor 11,2; Ef 5,23-32). La relazione nuziale trova la sua pienezza alla fine dei tempi (Ap 19,7-9; 21 2.9; 22 17).

 

2. La comunione ecclesiale nella diversità

I dati forniti dal Nuovo Testamento permettono di rilevare alcuni tratti caratteristici e di abbozzare una descrizione fenomenologica della Chiesa così com'essa si rivela nei suoi primi anni. Da un lato, ci sono delle comunità locali e dei gruppi diversi; d'altra parte, si parla della Chiesa di Dio e del Cristo come di una realtà universale.

Si constata l'esistenza di Chiese a Gerusalemme, ad Antiochia, a Corinto, a Roma, nelle regioni della Giudea, della Galazia, della Macedonia. Nessuna pretende di essere essa sola tutta la Chiesa di Dio, ma questa è realmente presente in ciascuna di esse. Si stabiliscono relazioni tra le Chiese: tra Gerusalemme ed Antiochia, tra Chiese fondate da Paolo e Gerusalemme a cui esse mandano il frutto di una colletta, tra le Chiese alle quali è indirizzata la prima lettera di Pietro, e tra quelle alle quali si rivolge l'Apocalisse. Paolo scrive che porta la preoccupazione di tutte le Chiese (2Cor 11,28) e l'autorità apostolica è riconosciuta dappertutto nella Chiesa.

1. Nei fenomeni così descritti, progetto universale e attuazioni diverse, le Scritture rilevano dei dinamismi. La potenza di unità universale è quella di Dio. Sebbene Ef 4,4-6 non parli di «una sola Chiesa», quel testo definisce al tempo stesso la fonte dell'unità e i mezzi d'azione: «C'è un solo Corpo e un solo Spirito, come c'è una sola speranza alla quale siete stati chiamati; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti».

«Un solo Signore», il Cristo, che raduna in sé uomini e donne, chiunque siano. Tutti si scoprono uniti in lui, liberati dai propri limiti.

«Una sola fede», che è il principio e la ricchezza della vita nuova nello Spirito, e la porta d'ingresso ad un mondo nuovo in cui tutti possono vedere il Padre nel Figlio suo (cf Gv 14,9) ed accogliersi scambievolmente come fratelli e sorelle.

«Un solo battesimo», che è la liturgia d'iniziazione in cui, con il rito, è sigillata l'adesione a Cristo Signore e alla sua Chiesa.

«Una sola speranza», «che non delude» (Rm 5,5) coloro che s'incamminano per «essere sempre con il Signore» (1Ts 4,17).

«Un solo corpo», perché tutti partecipano ad un unico pane (1Cor 10,17).

«Un solo Spirito», che agisce nella diversità dei doni spirituali, dei ministeri e delle operazioni in vista del bene comune (cf 1Cor 12,4-7).

«Un solo Dio Padre di tutti», che «ha riconciliato a sé il mondo in Cristo» (2Cor 5,19), «dal quale tutto proviene e verso il quale siamo diretti» (1Cor 8.6).

2. Questa potenza divina e questa esperienza dell'unità sono vissute da uomini diversi, portatori di forze diverse e talvolta antagoniste.

I dinamismi di questo mondo sono numerosi, i carismi della Chiesa sono vari, l'azione dei santi è esercitata secondo la personalità loro propria. I ministeri sono diversi: apostoli e profeti, vescovi e presbiteri, diaconi, maestri, pastori... Le loro designazioni variano secondo i luoghi ed alcuni possono essere affidati a persone dell'uno o dell'altro sesso. Da queste diversità l'unica fede riceve effettivamente espressioni dottrinali e teologiche, realizzazioni culturali e sociali in cui possono al tempo stesso fiorire e purificarsi le diversità dei pensieri e delle tradizioni dell'umanità ed esercitarsi le invenzioni dell'agape.

Grazie a quest'amore diffuso nei cuori dallo Spirito (Rm 5,5), grazie alla frazione del pane (1Cor 10,16-17), grazie alla testimonianza dei Dodici, dei quali Pietro, come «primo» (Mt 10,2), è incaricato da Gesù di pascere le sue pecore (Gv 21,16-17), grazie alla predicazione di Paolo, continuata dai suoi collaboratori, Tito e Timoteo, grazie al messaggio dei quattro vangeli, l'unità della Chiesa del Cristo si realizza attraverso tutte le diversità. Essa è la riconciliazione dei popoli divisi dall'odio (Ef 2,14-16). Per la misericordia di Dio, per l'azione del Cristo risorto e per la potenza dello Spirito, l'unità della Chiesa può superare divisioni apparentemente insuperabili. In essa, le diversità legittime trovano una meravigliosa fecondità.

Roma, 11 aprile 1988

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