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CONGREGAZIONE DELLA CAUSE DEI SANTI

RIFLESSIONE DEL CARDINALE JOSÉ SARAIVA MARTINS

Ad un anno dalla X Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema:
"Il Vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo..."

La Chiesa all'alba del terzo Millennio

È passato un anno dall'ultima Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi sul tema: "Il Vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo" (27 settembre - 27 ottobre 2001). Un argomento di estrema importanza pastorale e di scottante attualità per la Chiesa di oggi.

Quella che è emersa dai numerosi e ricchi interventi dei Padri sinodali è una Chiesa pienamente consapevole delle grandi sfide che è chiamata ad affrontare all'inizio del nuovo millennio e dell'assoluta necessità di essere sempre più, per dare ad esse una risposta soddisfacente, una vera comunione missionaria, una autentica "Casa della santità" aperta al dialogo. Soltanto così, la Chiesa potrà essere davvero lievito dell'odierna società ed efficace segno di speranza per gli uomini del nostro tempo.

Una Chiesa-comunione

La Chiesa di Cristo è, anzitutto, per sua natura, una "koinonia". Il termine comunione con i suoi sinonimi è stato, senza dubbio, uno dei più sentiti nell'Aula sinodale. Così facendo, i Padri non hanno fatto altro, in realtà, che riprendere, sottolineandolo con vigore, uno dei pensieri-chiave della Novo Millennio ineunte. In questo documento profetico e programmatico, infatti, il Papa Giovanni Paolo II ricorda che la comunione "incarna e manifesta l'essenza stessa del mistero della Chiesa" (NMI, 42), e che, pertanto, "fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione è la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia" (Ib., 43).

All'origine della comunione ecclesiale sta la stessa comunione trinitaria, di cui quella altro non è che l'espressione visibile, il sacramento, la trasparenza. La Chiesa deve, quindi, per essere fedele a se stessa, essere e presentarsi all'uomo di oggi come una immagine viva della Trinità, ossia come "popolo di Dio radunato nell'unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (san Cipriano, La preghiera del Signore, 23: PL, 4, 553; Cfr LG, 4).

La natura comunionale della Chiesa va vissuta ed espressa a tutti i livelli della sua vita e della sua molteplice attività salvifica. Ciò comporta, però, che tutti i suoi membri siano una cosa sola nell'amore, che tutti siano coscienti che la carità è il "cuore" della Chiesa, per usare la bella ed incisiva espressione di santa Teresina di Lisieux. "Capì, ella dice, che la Chiesa aveva un Cuore. Capì che l'amore richiudeva tutte le vocazioni, che l'amore era tutto" (Opere complete, Città del Vaticano 1977, 223; Cfr NMI, 42).

Per vivere e rafforzare questo spirito di comunione, occorre, come hanno ricordato a varie riprese i Padri sinodali, che esistano nella Chiesa, e nelle Chiese, dei rapporti di comunicazione, di servizio, di corresponsabilità e di partecipazione. Oltre, ovviamente, a quelli già esistenti, come le Conferenze Episcopali e i vari Consigli diocesani e parrocchiali. Occorre, perciò, promuovere e vivere un'autentica cultura della reciprocità, come si esprimeva qualche Padre sinodale; riconoscere e valorizzare la varietà dei carismi, delle vocazioni e delle responsabilità, in modo che tutto converga verso l'unità e l'arricchisca (Cfr 1 Cor, 12); programmare ed attuare una azione pastorale unitaria e differenziata; instaurare un corretto rapporto di coordinamento e di una retta integrazione tra la comunità parrocchiale e i diversi movimenti ecclesiali ivi esistenti.

Non va dimenticato, però, che tutte le strutture e strumenti, se non fossero animati e vivificati da una profonda spiritualità di comunione, servirebbero a ben poco: "diventerebbero apparati senz'anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita" (NMI, 43). È, infatti, questa spiritualità che "conferisce un'anima al dato istituzionale" (Ib., 45). Occorre, dunque, è stato rilevato nel Sinodo, promuovere a tutti i livelli tale spiritualità. Essa deve costituire uno dei principi fondamentali da tenere in conto nella formazione delle varie componenti della Chiesa: sacerdoti, consacrati, laici, operatori pastorali, famiglie e comunità.

La comunione ecclesiale, intesa alla luce dalla tradizione della Chiesa e vissuta secondo lo spirito del Vangelo, non intacca, dunque, in alcun modo, la struttura gerarchica della Chiesa, voluta dallo stesso Cristo, e, quindi, sacra, immutabile. Al contrario, la rafforza. Essa porterà, inoltre, i Vescovi, senza rinunciare al loro insostituibile e autorevole ruolo di Pastori, posti dallo Spirito Santo a reggere la sua Chiesa, ad un più ampio ascolto del Popolo di Dio. È quanto ricorda l'attuale Sommo Pontefice nella NMI, quando afferma che, "se la saggezza giuridica ponendo precise regole alla partecipazione, manifesta la struttura gerarchica della Chiesa e scongiura tentazioni di arbitrio e pretese ingiustificate, la spiritualità della comunione conferisce un'anima al dato istituzionale" (Ib.). Pensiero, questo, ribadito anche da non pochi membri dell'assise sinodale.

Una Chiesa-missione

La Chiesa-koinonia è la Chiesa-missione. L'annuncio della Buona Novella non è un optional per la Chiesa di Cristo. Proclamare il Vangelo, è stato detto e ripetuto in mille modi, è la sua vocazione, la sua identità più profonda, la sua stessa ragione d'essere. Quella di Cristo è una Chiesa in cammino, in continua tensione missionaria, apostolica, evangelizzatrice. Chiesa e missione, in fondo, s'identificano. Perciò, in qualunque contesto socio-culturale si trovi a svolgere la su attività salvifica, essa è sempre la Chiesa "per sua natura missionaria" (AG, 2).

Il termine "missione" non va, pertanto, applicato solo, alla luce del Concilio, alla "missio ad gentes", ma altresì a quella svolta nei territori di antica tradizione cristiana. Anche questi, purtroppo, sono spesso terre di missione. I "pagani" o non credenti, almeno nella pratica, li abbiamo tra noi, nella società sempre più scristianizzata in cui viviamo. L'ateismo pratico e l'indifferenza religiosa si diffondono a macchia d'olio in essa. La nostra è, quindi, una società che ha bisogno di essere evangelizzata.

L'annuncio del Vangelo non può, però, limitarsi alla promozione dei cosiddetti "valori del regno", come la giustizia, la libertà, la fraternità e la pace. Essi fanno parte dell'annuncio integrale del lieto annuncio. Ma ciò non è sufficiente, "se non si proclama che Cristo è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini" (RMs, 17), l'unico Redentore del mondo. Cristo morto e risorto deve essere, dunque, sempre al centro della missione della Chiesa. L'oggetto di essa non è, infatti, la proclamazione di un elenco più o meno lungo di verità, bensì di una Persona, quella di Cristo. Questa dimensione essenzialmente cristologica della missione è stata sottolineata a varie riprese dai Padre sinodali sia nelle assemblee plenarie sia nei gruppi di lavoro.

La proclamazione del Vangelo va fatta con autentica passione. Nell'Aula sinodale si sono sentite, in proposito, delle affermazioni quanto mai chiare e categoriche, come: la verità del Vangelo "deve essere proclamata con coraggio e chiarezza", il ministero episcopale "va esercitato con entusiasmo totale e generoso, uscendo a pescare in mare aperto". Affermazioni, queste, che non fanno che riassumere l'insegnamento del Papa al riguardo. Infatti, rivolgendosi ai vescovi venuti a Roma per celebrare il Giubileo, il Papa aveva parlato della necessità di ritrovare "l'entusiasmo pentecostale dell'annuncio" e di non dimenticare che "l'annuncio del Vangelo à l'atto di amore più alto nei riguardi dell'uomo, della sua libertà e della sua sete di felicità" (in L'Osservatore Romamo, 8 ottobre 2000).

I Padri sinodali hanno rammentato, infine, il ruolo sempre più importante dei mass media nell'opera della nuova evangelizzazione. La Chiesa, che vive nel tempo e nella storia, incarnata nell'odierna società, non può prescinderne nello svolgimento della sua missione. Essi sono, infatti, come ha detto Paolo VI, "una versione moderna ed efficace del pulpito" (EN, 45), e, quindi, vanno usati come altrettanti potenti mezzi di evangelizzazione del mondo di oggi.

Una Chiesa "Casa della santità"

Una delle linee portanti del pontificato di Giovanni Paolo II à stata, sin dall'inizio, la valorizzazione della santità, che costituisce una delle note costitutive della Chiesa di Cristo. La ricca fioritura di beatificazioni e di canonizzazioni cui abbiamo assistito negli ultimi due decenni, va vista proprio in questo stupendo contesto ecclesiale.

Sulla scia del pensiero del Santo Padre, sono stati molti i Padri sinodali che si sono occupati del tema della santità nella Chiesa. In numerosi interventi, è stata ribadita l'assoluta necessità che la santità sia posta al centro di tutta la molteplice attività dei Pastori. La loro azione pastorale non sarebbe, infatti, efficace se non fosse accompagnata dalla loro santità. É questa che renderà feconda quella. La santità è il linguaggio proprio della Chiesa, a cui non potrà mai rinunciare, senza essere infedele a Colui che è la santità del Padre incarnata, fattasi tempo e storia; senza lasciare di essere, in contraddizione con se stessa, la "sposa senza macchia e senza rughe" del suo Signore; senza lasciare di essere, tra gli uomini, il riflesso, la trasparenza di quella "luce delle genti" che è Cristo (cf LG, 1); senza correre il rischio che la sua dottrina religiosa e morale sia confusa con una ideologia puramente umana.

La Chiesa, come Comunità di fede, di speranza e di amore, è chiamata ad essere la "Chiesa del grembiule", dell'azione, del servizio all'uomo, ma è chiamata altresì, ad essere, nel contempo, la Chiesa della preghiera, del silenzio, della contemplazione del volto di Cristo, prima di annunciarlo.

E in una Chiesa chiamata per vocazione alla santità, il primo compito dei Pastori non può non essere quello di additare la santità ai fedeli che sono stati loro affidati e di impostare su di essa tutta la propria attività pastorale. Lo aveva detto il Papa: "non esito a dire che la prospettiva in cui deve porsi tutto il cammino pastorale è quella della santità" (NMI, 30). Lo hanno ripetuto in molti modi i Padri sinodali.

Ma l'appello più credibile, e, quindi, più convincente, che un Pastore può rivolgere ai suoi fedeli, è, senza dubbio, quello di una autentica testimonianza personale di santità. Santità che egli è chiamato ad acquisire, non accanto, ma attraverso il suo ministero pastorale. Questo, infatti, non è, per lui, un ostacolo alla propria santificazione, ma, al contrario, la sua via specifica per raggiungerla. È quanto il Santo Padre ha messo in luce con particolare vigore ricevendo i Vescovi nominati nell'anno in corso: "Il successo del nostro ministero pastorale non può essere misurato in termini di organizzazione burocratica o di dati statistici: la santità ha altri criteri di misura. (...) La santità personale è la condizione per la fruttuosità del nostro ministero come Vescovi della Chiesa" (Udienza ai Vescovi 5.07.2001).

Nella carità pastorale egli troverà il punto unificante tra la sua vita interiore e di preghiera e le crescenti esigenze della nuova evangelizzazione nel complesso contesto socio-culturale dell'odierna società.

In particolare, il Vescovo è l'icona di Cristo Buon Pastore, che riassume in sé la verità, l'amore ed il totale dono di sé per il suo gregge. Il suo è, insomma, come quello di Cristo, un amoris officium, per usare l'espressione del vescovo di Ippona (Tract. 123 in Ioan.: PL, 35, 1967), e, quindi, anche un sanctitatis officium. L'amore a Cristo e ai fratelli è, infatti, l'altro nome della santità.

Una Chiesa in dialogo

Un'altra dimensione della Chiesa evidenziata con forza nell'Assise sinodale dell'anno scorso, è quella del dialogo ecumenico e interreligioso.

L'impegno ecumenico della Chiesa è essenziale. Esso è irreversibile. Lo ha voluto Cristo (Gv 17, 21-23). Egli diede la sua vita per radunare tutti i figli dispersi (Gv 11, 52). Non si tratta, dunque, di una scelta. L'opzione è obbligata. Lo esige la fedeltà a Cristo e al suo disegno di salvezza. Lo richiede l'attuale situazione della Chiesa e della società.

"Il cammino ecumenico sarà presumibilmente ancora lungo e difficile", ha detto il Cardinale Walter Kasper, Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani (Synodus Episcoporum, Bollettino, 16, 6). Ci si trova, infatti, di fronte a sempre nuove sfide. Occorre, perciò, un rinnovato slancio ecumenico, una nuova carica, una vera passione per l'unità: quella che ardeva nel cuore di Cristo. Occorre, inoltre, come ricordato da alcuni fratelli separati, superare ogni pregiudizio e malinteso esistente" (Ib., 19, 4; cf. ib., 6, 8); e non dimenticare che "la purificazione della memoria rappresenta una parte fondamentale dell'agenda ecumenica", come ha rilevato S. Em. R. Ambrosius della Chiesa Ortodossa di Finlandia, per il Patriarcato Ecumenico (Ib., 3).

L'ecumenismo va fatto, ovviamente, a livello dottrinale o teologico. Ma non va sottovalutato "l'ecumenismo della vita", che deve coinvolgere tutti i membri della Comunità ecclesiale. L'"Ut unum sint" di Gesù è rivolto, non solo ai Dodici e ai loro successori nel ministero, ma a tutti i credenti nel suo nome. "Il dialogo della vita e l'ecumenismo dei semplici gesti quotidiani di comunione e di servizio, si leggeva già nell'Instrumentum Laboris del Sinodo, ... avvicinano i cuori e le menti dei cristiani" (IL, 131; cf. Ib. 6, 8). Affermazione, questa, sentita spesso nell'Aula sinodale.

L'ecumenismo è un impegno spirituale. L'unità è un dono dello Spirito. Sarà Lui a realizzare pienamente l'"Ut unum sint" di Gesù. Ma noi, osservava ancora il Cardinale Kasper, "dobbiamo essere ecumenicamente uniti nella nostra preghiera per l'unità, e dobbiamo pregare, come fecero gli Apostoli con Maria, affinché discenda su di noi lo Spirito di Dio e per l'avvento di una nuova Pentecoste" (Ib., 6).

Insieme al dialogo ecumenico, i Padri sinodali si sono occupati altresì del dialogo interreligioso, mettendone in luce l'urgenza e indicando il modo di attuarlo.

Per la Chiesa, rileva il Cardinale Francis Arinze, allora Presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, "il dialogo e la collaborazione interreligiosa sono contrassegnati dalla speranza, la speranza che un giorno tutti e tutto si riconcilino in Cristo, Signore della storia e anelito di tutti i cuori" (Ib., 7, 8).

Il dialogo interreligioso fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa e rientra nelle prospettive delle sfide del terzo millennio (Cfr RMs, 55. TMA, 53).

Nel dialogo interreligioso, rileva ancora il Card. Arinze, "l'ortoprassi deve fondarsi sull'ortodossia ... Il Vescovo deve vegliare sulle idee teologiche in materia di dialogo interreligioso nella sua area di competenza... Deve promuovere, incoraggiare e guidare la riflessione teologica sui temi riguardanti il dialogo" (Ib., 8).

In particolare, va evitato ogni sincretismo ed ogni relativismo religioso. Essi segnerebbero la fine di ogni vero dialogo alla luce delle verità irrinunciabili della fede cristiana. Un altro pericolo è quello dell'orizzontalismo. "Se il dialogo interreligioso, rileva lo stesso Porporato, può incominciare dalla dimensione orizzontale - la ricerca congiunta della giustizia, della pace, dell'armonia e dei valori sociali - esso deve soprattutto puntare sulla dimensione verticale: la ricerca di Dio, la ricerca della verità religiosa, lo sforzo di una maggiore apertura all'azione divina" (Ib.).

Il dialogo interreligioso può, e deve, tradursi in una fattiva collaborazione a favore dell'uomo e della società. I campi indicati dai Padri sinodali sono sapratutto quelli della giustizia, della pace, della libertà, della difesa della vita e della dignità dell'uomo, della fratellanza e del rispetto inalienabile della libertà religiosa e di coscienza.

Una Chiesa-lievito della società

Il mondo di oggi è segnato da una cultura immanentistica chiusa al soprannaturale, da cui scaturisce una progressiva indifferenza religiosa, che non lascia di avere il suo influsso negativo tra gli stessi cristiani, molti dei quali corrono il rischio di perdere il senso escatologico e trascendente della vita. Un forte orizzontalismo culturale, che sembra allargarsi a macchia d'olio nella società di oggi, può portarli ad affievolire il senso verticale della loro vita di fede, e, di conseguenza, a dimenticare quelle "realtà ultime" che dovrebbero illuminare tutta la loro esistenza terrena.

Un altro elemento posto in rilievo dai Padri sinodali nella loro acuta analisi della società attuale, è quello che riguarda le intollerabili situazioni di ingiustizia in cui versano ancora tanti milioni di esseri umani. È scandaloso, ad esempio, che l'80% della popolazione nel mondo viva con il 20% delle sue risorse, ed un miliardo e duecento milioni di uomini siano costretti a "vivere" con meno di un dollaro al giorno (Cfr Synodus Episcoporum, Nuntius, n. 10).

Questa situazione interpella fortemente la Chiesa del terzo millennio. Occorre evangelizzare la cultura e le culture del nostro tempo. Non è certamente un compito facile. Anzi. Si tratta di un compito "gigantesco", come ha osservato il Card. Paul Poupard, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura (Ib., 6, 5). Ciò, infatti, significa "spegnere i focolai della contro-cultura della morte, e creare con tutti gli uomini di buona volontà la civiltà dell'amore dove gli uomini di tutte le culture sapranno vivere come fratelli, se noi l'aiuteremo a riscoprirsi in Gesù Cristo Figlio di Dio-Amore, Padre di tutti gli uomini" (Ib.); significa fecondare, dal di dentro, la cultura e le culture immanenti, chiuse in se stesse, con lo spirito del Vangelo, aprendole al trascendente.

Davanti poi alle inammissibili ingiustizie di cui sono vittime tanti nostri fratelli, la Chiesa si propone di impegnarsi a contribuire, con la forza del Vangelo, a mettere fine a tali situazioni che offendono la dignità della persona umana. Nel Messaggio finale del Sinodo, i Padri sinodali sono espliciti e categorici al riguardo: "Si impone, essi dicono, un cambiamento di ordine morale: la dottrina sociale della Chiesa assume ogni un'importanza che non può essere esagerata. Noi Vescovi ci impegniamo a farla conoscere meglio nelle nostre Chiese particolari" (Nuntius, n. 10). Nella dottrina sociale della Chiesa, infatti, si trovano tutti i principi che, se ben applicati, garantiscono una vera giustizia sociale.

Evangelizzando le culture e lottando per la giustizia sociale, la Chiesa dà il suo prezioso contributo ad una progressiva trasformazione della società, rendendola sempre più giusta, più umana e, perciò stesso, sempre più cristiana. E facendo ciò, la Chiesa diventa il lievito della società. Questo è, in fondo, il senso della sua missione a servizio dell'uomo, della sua salvezza integrale, della sua liberazione totale.

Nell'assolvere a questo suo compito, la Chiesa può contare sulla collaborazione dei laici. Essa è insostituibile. L'evangelizzazione delle culture e di tutte le altre realtà umane, sarebbe, senza di essi, quanto mai difficile. Occorre, pertanto, che ci siano nella Chiesa dei cristiani laici adulti nella fede, capaci d'impegnarsi seriamene nel servizio apostolico e sociale, nella promozione integrale dell'uomo e nella costruzione di una nuova civiltà: quella dell'amore.

La Chiesa-segno di speranza

L'ultimo Sinodo dei Vescovi può, infine, essere chiamato il Sinodo della Speranza. Esso era stato convocato dal Santo Padre per approfondire l'argomento del "Vescovo servitore del Vangelo per la speranza del Mondo".

Si tratta di un tema di estrema importanza pastorale per la Chiesa di oggi. Non c'è dubbio, infatti, che l'uomo dei nostri giorni ha uno speciale ed urgente bisogno di speranza. Ciò appare chiaro dai tragici avvenimenti cui si è recentemente assistito, nonché dalle minacce di vario genere che spuntano all'orizzonte di questo inizio di secolo. Molti sono i problemi che assillano l'uomo contemporaneo, che non sembrano di facile soluzione (Cfr Cardinale Vinko Puljic, Synodus Episcoporum, Bollet., 17, 3). Già l'Instrumentum Laboris parlava di "segni di sfiducia o addirittura di disperazione che sono nel mondo", che, al di là delle analisi politiche, sociologiche ed economiche, indeboliscono la speranza (IL, 17).

In particolare, l'uomo di oggi ha bisogno di speranza, perché egli è deluso dalle ideologie, dalle teorie, dai sistemi, che, nonostante le ottimistiche promesse, non sono riusciti, di fatto, a dare una risposta soddisfacente ai suoi molteplici problemi. Egli si sente spesso impotente davanti ai mali che continuano ad affliggerlo. Quello di oggi è un uomo che, dimentico non di rado del passato, elabora dei progetti piuttosto effimeri e limitati, sovente influenzati da potenti fattori economici e politici, che non riescono a dargli quella felicità a cui giustamente aspira.

È a quest'uomo, nella sua concretezza storica, che la Chiesa è chiamata a parlare di speranza, ad offrirgli "ragioni valide" per credere e sperare. È questa la sua missione irrinunciabile, come messo in risalto da molti Padri sinodali. Essa è posta davanti al mondo, all'inizio del nuovo millennio, come segno di speranza, come sorgente inesauribile di essa. Senza speranza, ha detto un Padre sinodale, tutta l'azione pastorale del Vescovo, sarebbe sterile" (Cardinale Ricardo Maria Carles Gordó, Ib., 11, 2). Questo si può, e si deve, applicare a tutta l'azione pastorale della Chiesa.

Ma la speranza che la Chiesa è chiamata a vivere, di cui deve essere fonte ed annunciatrice, non è, ovviamente, una speranza puramente umana, bensì una speranza teologica, quella cioè che non ha solo una dimensione terrena, ma anche, e soprattutto, una dimensione escatologica, e che si affida totalmente alle promesse di Dio. Così intesa, la speranza è, per i cristiani, "forza motrice del nuovo, capace di sognare il futuro e di segnare tracce durevoli nel tempo con la novità delle opere, di costruire la storia con la forza del Vangelo, o, almeno, di dare senso alla storia, prima ancora che siano le forze del mondo a stabilire il senso del futuro o a programmare le scadenze (IL, 13).

La Chiesa, sulla scia del passato (Cfr Ib., 14, 10), annuncerà la speranza all'uomo moderno, proclamando, con rinnovato coraggio, il Vangelo di Cristo, unico fondamento della speranza che non delude (Rom 5, 5); il Vangelo di Cristo che apre i cuore degli uomini alla speranza nella sua duplice suddetta dimensione: di quel Cristo che, dopo 2000 anni, continua ad essere, e lo sarà sempre, "potenza di vita, parola che umanizza e unisce i popoli in una sola famiglia, razza e religione" (Ib., 10). Il lieto annuncio della salvezza è sempre un annuncio di speranza, perché è essenzialmente l'annuncio di Colui, con la usa morte e risurrezione, è divenuto per sempre "la nostra speranza" (1 Tim 1, 1). Evangelizzare sarà sempre seminare speranza tra gli uomini. L'araldo del Vangelo è, prima di tutto, un pellegrino, un seminatore, un profeta della speranza. E questo è un compito che non riguarda soltanto i Pastori, ma anche tutti gli altri membri del popolo di Dio, in virtù della loro vocazione battesimale.

Ecco una specie di identikit della Chiesa del nuovo millennio, tale come emerge dai vari interventi dei Padri nell'ultima assise sinodale. È l'identikit di una Chiesa che, nella fedeltà a se stessa e al suo Signore, è pienamente consapevole delle grandi sfide della nostra epoca, ed è decisa ad affrontarle con entusiasmo, slancio e coraggio, per continuare ad essere, anche per l'uomo del nostro tempo, segno visibile e sicuro di incrollabile speranza.

 

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