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PONTIFICIA COMMISSIONE PER I BENI CULTURALI DELLA CHIESA

RELAZIONE DI S.E. MONS. MAURO PIACENZA

La custodia dell’Eucarestia
Il Tabernacolo e la sua storia

Casamari, 31 luglio 2004

 

Ab assuetis non fit passio, recita un antico detto: “non si fa caso alle cose abituali”; ed è, per noi, abitudine consolidata vedere il tabernacolo collocato al centro dell’altare. Non sempre ha avuto questa collocazione e anche oggi, dopo il Concilio Vaticano II, si ritorna, talvolta, a vedere il tabernacolo collocato in una cappella fuori dall’aula principale della chiesa o, comunque, fuori dall’altare maggiore.

Mi sembra utile tornare a ritroso nella storia liturgica percorrendo le tappe di una evoluzione sempre correlata alla storia dell’altare.

L’unicità dell’altare nelle chiese è attestata fino dal VI secolo, in seguito gli altari aumentano di numero ma rimane l’assoluto rispetto per la mensa dominica che esclude quanto è estraneo alla celebrazione del Santo Sacrificio. Verso la fine del secolo IX si inizia a collocare sulla mensa dell’altare, in modo permanente, un nuovo elemento molto significativo: le reliquie dei Santi. Si aggiungono ben presto altri elementi, tanto che agli inizi del X secolo un importante documento, di origine gallicana, conosciuto sotto il nome di Admonitio Synodalis, divenuto legge generale per tutte le Chiese d’occidente, prescrive che sull’altare “si devono tenere soltanto le urne dei Santi (capsae), l’Evangeliario e la pisside con il Corpo del Signore per gli ammalati; ogni altra cosa va riposta in un luogo conveniente”.

Si dovrà attendere il sec. XVI per trovare il tabernacolo fisso sull’altare maggiore e, più tardi ancora, per vederlo collocato al centro della mensa, ultima fase dello sviluppo storico dell’altare. Come doveroso omaggio alla recente Enciclica e alla conseguente Istruzione sull’Eucarestia mi propongo di tracciare - anche se in rapida sintesi - la storia della custodia eucaristica, sia per quanto riguarda il luogo, sia per i vasi sacri usati per conservare l’Eucaristia.

Intenderei promuovere, infatti, un movimento di fede, da esprimersi nelle varie branchie dei beni artistici che, bruciante d’amore per la reale presenza di Gesù Cristo nell’Eucarestia, porti all’adorazione pubblica e privata, alla visita al SS.mo Sacramento, a quel dialogo silenzioso ed intimo, cuore a cuore con il Salvatore, che costituisce un fattore di ineguagliabile efficacia per la realizzazione di se stessi nella santità, per la intelligenza delle cose di lassù, per la promozione delle opere di carità, per la crescita delle vocazioni, per la pace vera e non bellicosamente pacifista, per l’unità dei cristiani e non per un assemblaggio irenistico di condivisori di “valori”, per la dilatazione missionaria del Regno di Cristo fino ai confini della terra e fino ai confini di ogni cuore.

Questi sono i propositi che depongo nelle mani della Donna Eucaristica, il cui seno immacolato, è ineguagliabilmente splendido Tabernacolo di carne. Lì depongo tali propositi, cercando artisti che siano sintonizzati sulla medesima lunghezza d’onda, quella della Maddalena che scelse la logica dello “spreco”, o meglio, la logica dell’amore cospargendo di profumo preziosissimo e coprendo di baci i piedi del nostro adorabile Redentore.

Cari amici del Tabernacolo, cari amici di Gesù con noi, realisticamente sappiamo che la civiltà dell’amore che – almeno a parole – più o meno tutti vagheggiano, la si può edificare, in questo mondo transeunte, soltanto conseguentemente al culto puro. E’ dell’adorazione, dalla contemplazione, dell’Ostia consacrata che sgorga impetuoso e salutare il fiume delle grandi realizzazioni sociali. Le vite dei Santi, con le opere da essi compiute, sono le pagine illustrate di tutto ciò.

Se lo capiamo ci accorgiamo che dobbiamo allearci, rimboccarci le maniche e – lavorando – remare contro corrente senza sosta.

I tempi lo esigono e l’amore lo urge.

Periodo delle catacombe

Sappiamo con certezza, per l’unanime testimonianza dei Padri dei primi secoli, che, durante le persecuzioni, i cristiani conservavano con adorante amore l’Eucaristia nelle loro abitazioni. Terminata la celebrazione eucaristica si distribuiva il pane consacrato che i fedeli custodivano dentro piccoli vasi, o piccole scatole, per poi comunicarsi quando ne sentivano il bisogno. L’archeologo M. de Rossi, rifacendosi ad un testo di S. Cipriano e agli Atti dei Martiri di Nicomedia, sotto Diocleziano, chiama questi piccoli vasi arca o arcula. Il cardinale Bona, nel suo Rerum Liturgicarum n. 17, cita il testo delle disposizioni impartite da un vescovo di Corinto, che permettono di conoscere il rito di una comunione domestica. “Se la vostra casa è dotata di un oratorio depositerete sull’altare il vaso che contiene l’Eucaristia, se manca l’oratorio sopra una tavola decente. Stenderete un piccolo velo sulla tavola e vi depositerete le sacre particole; brucerete qualche grano d’incenso e canterete il trisagion (il nostro Sanctus, n.d.a.) ed il simbolo; quindi, dopo aver fatto tre genuflessioni, in segno di adorazione, assumerete religiosamente il Corpo di Gesù Cristo“. S. Eusebio ci informa che i sacerdoti conservavano l’Eucaristia nelle loro abitazioni per portare la comunione agli ammalati’.

Da antiche testimonianze sappiamo anche che l’Eucaristia veniva portata appesa al collo, sia dentro un pannolino che S. Ambrogio chiama oraria, sia in vasi d’oro, argento, avorio, legno, ed anche di argilla, detti comunemente encolpía. L’encolpium era una piccola scatola che conteneva le reliquie ed anche il libro dei Vangeli che i fedeli portavano al collo per devozione. Ne conosciamo alcuni esemplari trovati nelle tombe del cimitero del Vaticano, di forma cubica, muniti di sospensorio e ornati sul davanti del monogramma di Cristo con ai lati l’alfa e l’omega.

Epoca delle basiliche

Dopo che, con la pace di Costantino, i cristiani poterono, in tutta libertà, celebrare i sacri riti e costruire i luoghi di culto, sulle testimonianze dei Padri, siamo a conoscenza che, ben presto, si stabilì la prassi di custodire l’Eucaristia nelle stesse chiese anche se, secondo il Baronio, l’uso di conservare l’Eucaristia nelle abitazioni private cessò definitivamente all’inizio del secolo VI. San Giovanni Crisostomo ci informa che, qualche volta, si conservava l’Eucaristia sotto le due specie e da S. Ambrogio sappiamo che, a Milano, il preziosissimo Sangue si conservava in un vaso d’oro a forma di botticella, chiamato dolium. La sacralità e la preziosità costituiscono una costante. Ed è la logica della fede e dell’amore. Mai nulla è troppo per l’Eucarestia perché mai è troppo per Gesù. L’Eucarestia non è una invenzione di teologi famosi, non è una iniziativa devota di gente pia: essa viene direttamente da Colui che per noi è morto in croce, è risorto e adesso siede alla destra del Padre. E’ totalmente dono suo: è il dono di nozze con cui Egli ha abbellito l’umanità che ha sposato col suo sangue, cioè la Chiesa.

E la Chiesa è giustamente gelosa di questo dono che intende circondare d’affetto, di tenerezza, di arte, di splendore, di preziosità. Non è una preziosità quantificabile in denaro ma in sentimenti e, quindi, non ha prezzo!

La custodia eucaristica, nelle prime basiliche, ebbe due forme: la torre e la colomba. Si discute, fra gli eruditi, sulla priorità fra le due forme ma, con tutta probabilità, la torre servì da custodia alla colomba che conteneva il pane eucaristico. L’ipotesi è avvalorata dalla materia usata per la fabbricazione, infatti le torri erano d’argento e le colombe d’oro. Il bibliotecario Anastasio scrive nel De vita Pontificum che Costantino donò alla Basilica di S. Pietro una torre ed una colomba di purissimo oro, impreziosita da duecentocinquanta perle bianche; Innocenzo I fece costruire per la chiesa dei S.S. Gervasio e Protasio una torre d’argento ed una colomba d’oro e Papa Ilario donò alla basilica del Laterano una torre d’argento ed una colomba d’oro. Si discute anche quale fosse il luogo dove si riponevano le torri e le colombe. Citando un passo delle Costituzioni Apostoliche, che risalgono al IV secolo, c’è chi ritiene che fossero custodite nel Pastophorium, cioè nel luogo più ritirato e inaccessibile della chiesa: “Dopo che tutti si sono comunicati i diaconi portino gli avanzi nel pastoforio“. C’è chi identifica il luogo della conservazione nel sacrarium. Un passo di S. Girolamo chiarisce che si tratta dello stesso luogo: “Quare sacrarium, in quo iacet Christi corpus, qui verus est Ecclesiae et animarum nostrarum sponsus, proprie thalamus seu pastophorium appellatur“. Si tratta di un locale nobilmente riservato, al di fuori dell’aula ecclesiale.

Le specie eucaristiche si introducevano nella colomba tramite una piccola apertura praticata sul dorso e chiusa con cura per mezzo di un coperchio a cerniera. Le torri e le colombe venivano sospese, per mezzo di catenelle, al centro del ciborio che ricopriva l’altare. Da rilevare, a questo proposito, che per ciborio (dal latino ciborium più tardivamente tegurium e tíburium) si deve intendere il padiglione a pianta quadrata che, fino dal tempo di Costantino, si innalza sopra l’altare, partendo dai quattro lati, per conferire allo stesso eleganza e sontuosità. Qualche volta sotto il ciborio se ne innalzava un altro, di piccole dimensioni che prendeva il nome di peristerium (colombaio) in quanto custodiva la colomba eucaristica. Le quattro cortine che cingevano il ciborio, dette per questa caratteristica tetravela, rimasero in uso fino agli ultimi anni del secolo IX. Il ciborio nell’arte cristiana ha una sua particolare storia che non possiamo trattare in questa sede. Non si può fare a meno, però, di citare come vanto dell’arte barocca, il ciborio di Lorenzo Bernini che si slancia maestosamente a ventinove metri di altezza nel cielo della cupola di Michelangelo. La fede eucaristica si fa arte e l’arte illustra la fede eucaristica. Quanto dobbiamo imparare ma questa lezione non si impara soltanto nel corso delle indispensabili lezioni di architettura e delle varie arti che ne conseguono. E’ indispensabile la cattedra della grande teologia con quella dell’inginocchiatoio, dell’orazione, della vita di grazia, della pietas, della appassionata immersione nella vitalità pasquale dell’anno liturgico, nel grande senso della perenne “traditio Ecclesiae”. Occorre avere abituale orizzonte dell’eternità sul quale si misura tutto ciò che è transeunte.

Periodo romanico

Nel periodo romanico alle due forme già in uso ‑torre e colomba‑ si aggiunge la pisside. Con questo nome si designa generalmente il vaso sacro, di qualsiasi forma o grandezza, che contiene l’Eucaristia. Il sostantivo greco, però, ha il preciso significato di scatola che toglie ogni ambiguità al termine generico di “custodia“ differenziando nettamente questo vaso dalla torre e dalla colomba. Le colombe romaniche, a differenza delle antiche, sono fornite di un piedistallo che, qualche volta, presenta il bordo leggermente rialzato. Circa l’uso della colomba come luogo della riserva eucaristica si deve rilevare che se nel medioevo era comune in Francia, non altrettanto lo era in Italia dove, dall’XI al XVI secolo, si preferì fare uso di armadi fissati nel muro oppure nel secretarium, in una degna sacristia.

Non è detto che l’uso della pisside abbia soppiantato quello della torre e della colomba; del resto la pisside altro non era che una torre di media grandezza. Normalmente consisteva in una scatola rotonda, qualche volta quadrata, chiusa da un coperchio per lo più conico ma anche piatto. Proprio per queste caratteristiche risultava di uso assai pratico ed anche di minore costo. La pisside, qualche volta, veniva attaccata al becco della colomba come segno evidente della presenza delle specie eucaristiche nel suo interno. Si hanno anche esempi di pissidi sorrette da un piedistallo, specialmente durante il XII secolo, donde il nome di pisside pediculata.

Le custodie eucaristiche ‑torri, colombe e pissidi‑ nel periodo romanico venivano sospese sopra l’altare ma, essendo scomparso l’antico ciborio, si modificò anche il modo della sospensione. Generalmente si fissava un pendaglio a forma di croce all’ancona e si appendeva la custodia alla sua voluta. Non mancano esempi di altre soluzioni, anche di un certo valore artistico, che sarebbe troppo lungo descrivere.

Nel periodo romanico l’oro e l’argento furono le materie abituali per la fabbricazione delle custodie eucaristiche, qualunque ne fosse stata la forma. Per decorare le pissidi si usarono anche le pietre preziose. Si faceva però anche uso di rame dorato e smaltato, di avorio, ed anche di legno.

Periodo gotico

Durante questo periodo il modo di conservare il SS. Sacramento presenta diverse soluzioni. La custodia ‑torre, colomba o pisside‑ viene sospesa sopra l’altare avvolta da un velo. Qualche volta la custodia si riponeva sotto l’altare, come appare dagli Statuti Sinodali di Liegi del 1287: “Corpus Domini in honesto loco, sub altari vel in armariolo sub clave custodiant”. Normalmente, però, la custodia si conservava in un armadietto o edicola, scavata nel muro, a destra oppure a sinistra dell’altare.

Si aveva cura, specialmente nelle chiese di una certa importanza, di ornare la porta dell’armadietto con eleganti ferramenta ed anche con pitture, il tutto incorniciato da un arco acuto sorretto da pilastrini rivestiti di archetti e sormontati da pinnacoli. Comunque si curava di decorare con pitture sia l’interno che la porta dell’armadietto. Un’apertura circolare oppure a forma di trifoglio e quadrifoglio, chiusa da una griglia, praticata nel muro in corrispondenza con l’interno dell’armadio, permetteva ai fedeli di adorare in ogni tempo, dal di fuori, il SS. Sacramento. Una lampada accesa davanti all’apertura indicava da lontano il luogo dove si conservava il pane transustanziato. Con l’avvento del XVI secolo non ci si accontenta più di questo ornato, significativo ma pur modesto armadio, anche se di un certo interesse artistico. Cominciano ad apparire le prime edicole del Sacramento, che in un primo momento ‑ scorcio del XIV secolo ‑ furono una caratteristica quasi esclusiva delle chiese del nord Europa.

L’origine di queste edicole ci rivela come lo Spirito Santo guidi i fedeli e si deve alla diffusa pietà popolare che, nel medioevo, desiderava contemplare l’Ostia consacrata, sia durante la S. Messa, nel momento dell’elevazione, sia al di fuori della celebrazione. Il culto dell’Eucaristia si incentra nelle cosiddette mostranze, che moltiplicavano le esposizioni eucaristiche, quasi per un moltiplicarsi della fede cordiale e semplice, quanto profonda e preziosa. Così l’entusiasmo cresce. Noi oggi dobbiamo stare attenti a non fare archeologismo intellettualistico in un campo così delicato e vitale; dobbiamo rispettare il soffio dello Spirito.

Fede e ragione sono nativamente amiche e anzi quasi sorelle, nate ambedue dalla sapienza misericordiosa del Creatore, chiamate ad integrarsi e a collaborare per il vero bene dell’uomo.

Così è avvenuto per secoli; e appunto dalla loro buona armonia è stata segnata ed impreziosita l’epoca dei più alti traguardi culturali mai raggiunti: l’epoca delle cattedrali, l’epoca delle «summae» teologiche - e della splendida ufficiatura del “Corpus Domini” – l’epoca della Divina Commedia, l’epoca del fiorire delle Università che, in tutta Europa, hanno irrobustito le radici cristiane.

Ci dobbiamo guardare da chi sostiene - o agisce come se lo sostenesse - che fede e ragione anziché essere sorelle sono poli antitetici. In un contesto di tale genere l’uomo si perde e la società diventa conflittuale.

Facciamo argine, anche con l’impegno artistico motivato e consapevole, a certe deviazioni che inquinano anche ambiti vitali come il culto divino e l’ascesi personale.

La mostranza altro non era che il culto pubblico del Corpo del Signore con l’Ostia esposta all’adorazione dentro un ostensorio. La pratica delle mostranze era così radicata nel popolo che talune misure restrittive di alcuni Sinodi non riuscirono a limitare. Si può comunque accennare che la prima festa del Corpus Domini fu celebrata dai canonici di Liegi nel 1247. Papa Urbano IV, nel 1264, la estese a tutta la Chiesa ma soltanto nel 1316 fu definitivamente e provvidenzialmente approvata dal papa Giovanni XXII.

Le edicole eucaristiche furono il punto d’incontro fra la pietà popolare e le disposizioni sinodali, in quanto realizzarono una specie di esposizione permanente del SS. Sacramento davanti ai fedeli. Si presentano come costruzioni monumentali, a forma di torre la cui altezza giunge fin quasi alla volta, in prevalente stile ogivale, dentro le quali si custodiva l’Ostia consacrata in un vaso trasparente posto dietro una larga grata metallica, in modo da lasciar contemplare ai fedeli, anche se confusamente, il Sacramento.

Il tabernacolo sopra la mensa dell’altare

L’ultima fase storica dell’evoluzione del tabernacolo, come custodia eucaristica, che avrà la sua sede sopra la mensa dell’altare, si avrà agli inizi del XVI secolo. Pioniere di questa soluzione fu, in Italia, il pio vescovo di Verona, Mons. Matteo Giberti, che la volle nelle chiese della sua diocesi. Per precisione storica questa disposizione la troviamo già nelle Ordinationes degli Eremitani di S. Agostino, redatte sotto Alessandro IV (1254‑1261): “Vogliamo che in tutte le nostre chiese il Corpo di Cristo sia conservato in un ciborio collocato sopra l’altare maggiore, dentro pissidi di avorio o di altra materia preziosa, in modica quantità, ricoperto da un mondissimo velo.“

La disposizione di Mons. Giberti ebbe una particolare risonanza nell’alta Italia e si estese ben presto anche nelle altre diocesi, prima fra tutte Milano per opera di S. Carlo Borromeo il quale dispose di trasferire la residenza del SS. Sacramento dalla sacristia sopra un altare del duomo. I “gusti” dei Santi devono farci riflettere molto. A Roma questa iniziativa fu caldeggiata dal papa Paolo IV. Nel 1614 il Rituale di Paolo V lo imponeva alle chiese della sua diocesi raccomandando l’adozione anche alle altre. Fuori d’Italia vari Concili lasciarono libera scelta circa il luogo di custodia del SS. Sacramento; si preferì, in generale, usare tabernacoli murali e, dove esistevano, le edicole eucaristiche.

Come è noto, erano quelli gli anni dell’applicazione delle norme del Concilio di Trento (1545-1563) che, in questo caso, reagiva alla dottrina protestante che negava la permanenza della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche. All’esigenza di affermare la dottrina cattolica si deve la diffusione della collocazione del tabernacolo, ben visibile, sull’altare maggiore. La forma più consueta è a piccola casa, incorporato nell’alzato dell’altare, affiancato da gradini (abitualmente disposti su tre ordini) sui quali vennero posti candelieri per l’accensione di ceri, talvolta numerosi, soprattutto in occasione delle solenni esposizioni eucaristiche. Accadde così che la mensa divenne, visivamente, quasi una parte minore dell’altare che è sempre più monumentale e in cui grande sviluppo artistico fu dato a croci, candelieri, busti-reliquari o statue di santi e di angeli, grandi ancone, ecc. Nel Settecento le opere più pregiate erano le porticine dei tabernacoli, in metalli e pietre preziose.

Verso la metà del secolo XVIII la collocazione del tabernacolo sull’altare era ormai prassi comune in quasi tutte le chiese, tanto che Benedetto XIV nella sua Costituzione Accepimus (16 luglio 1746) la dichiarava “disciplina vigente“. Fu accolta universalmente in seguito al Decreto della S. Congregazione dei Riti del 16 agosto 1863 che vietava ogni altra forma di custodia.

La disciplina odierna

La disciplina odierna circa il luogo in cui si deve conservare la SS. Eucarestia, è un frutto del rinnovamento liturgico operato dal Concilio Ecumenico Vaticano II, sistematicizzato, in seguito, dall’Istitutio Generalis e dal CIC.

Nella maggior parte delle nostre chiese, per note ragioni storiche, l’elemento centrale – dominante sullo stesso altare – è stato, per circa quattro secoli, il tabernacolo eucaristico. L’adeguamento liturgico delle chiese esistenti, mirante a esaltare il primato della celebrazione eucaristica e quindi la centralità dell’altare, deve riconoscere anche la funzione specifica della riserva eucaristica. Si ritiene necessario, perciò, che, in occasione di eventuali interventi di adeguamento sia dedicata una particolare cura al “luogo” e alle caratteristiche della riserva eucaristica. In tal caso, il riservare un luogo a sé per la conservazione dell’Eucaristia deve essere inteso in modo tale da consentire di sottolineare ancor di più il mistero della permanenza della presenza reale e di creare le condizioni per la sua adorazione (cfr. Istitutio Generalis, nn. 314-317; CIC. cc. 934-944).

Naturalmente bisogna avere ben presente che ogni progetto di adeguamento, pur rivolto a risolvere un problema particolare, deve essere globale, cioè riguardare l’intero edificio di culto. L’adeguamento liturgico dovrebbe essere considerato anche come un’occasione unica per promuovere lo studio della chiesa, delle opere d’arte e dell’arredo storici e, di conseguenza, per conservare e valorizzare quanto ci viene dalla tradizione. Alla luce di tali considerazioni diventa superfluo aggiungere che sarebbe da musealizzare solo quanto dovesse risultare veramente incompatibile con la vigente normativa liturgica.

Tale intervento richiede grande attenzione soprattutto dal punto di vista dottrinale e pastorale. E’ noto, infatti, quanto il culto per la santissima Eucaristia abbia inciso in modo determinante nella sana formazione spirituale del popolo cristiano e quanto l’idea stessa dell’edificio di una chiesa cattolica sia associata alla presenza in essa del tabernacolo nel quale sta il Tesoro dei tesori: il SS. Sacramento! Al fine di educare i fedeli a cogliere il significato di centralità della celebrazione eucaristica, si ritiene necessario che, in occasione di costruzioni nuove o di progetti di restauro, vengano catechisticamente illustrati ai fedeli i rapporti tra la celebrazione e la conservazione dell’Eucaristia e le ragioni di questa conservazione. Il tutto con l’attenzione a fomentare la fede nella presenza reale del Signore anche dopo la celebrazione. Per certi aspetti dottrinali gravi non siamo molto lontani dalle situazioni nelle quali si trovò il Concilio di Trento che seppe reagire positivamente con l’indispensabile saldatura fra dottrina, disciplina e pastorale.

Anche la localizzazione e l’eventuale realizzazione di una nuova nobile custodia eucaristica devono costituire parte integrante del progetto globale di adeguamento liturgico e dovranno facilitare l’individuazione, e l’accesso diretto alla custodia eucaristica in un ambiente raccolto e favorevole all’adorazione personale. Qualora la cappella eucaristica non fosse immediatamente visibile all’ingresso, si dovrebbe pensare ad opportune indicazioni che, chiaramente e con buon gusto, guidino ad essa. Nella cappella, come nel vano per la celebrazione non potranno mai mancare adeguate panche con il genuflessorio affinché rimanga consueta la possibilità di adorare stando genuflessi. Anche questo va detto e fatto in quanto non mancano certo insinuanti prassi finalizzate a rendere ben arduo il pregare genuflessi. Si elimina anche il segno. Sotto tutto ciò c’è un attentato alla fede nella presenza reale. Come non intuirlo?

In ogni caso si deve ricordare che in ciascuna chiesa il tabernacolo per la riserva e per l’adorazione eucaristica deve essere unico.

Il Santissimo Sacramento deve essere custodito in un luogo architettonico veramente importante, normalmente distinto dalla navata della chiesa, adatto all’adorazione e alla preghiera, soprattutto personale, nobilmente ornato ed illuminato adeguatamente.

Il tabernacolo, oltre ad essere unico, deve essere anche inamovibile, solido ed inviolabile, non trasparente adorazione (cfr. Istitutio Generalis, n. 314; CIC. can. 938 § 2). Non si trascuri di collocarvi accanto il luogo per la lampada dalla fiamma perenne, quale segno di onore reso al Signore (cfr. Istitutio Generalis, n. 316; CIC. can. 940). Anche il conopeo e l’ornamento floreale aiutano opportunamente a far cogliere la vita che pulsa all’interno di quella custodia.

Può considerarsi idonea una soluzione che individui uno spazio all’interno dell’aula (ad esempio, una cappella laterale capiente), da adattare con dignità, decoro e funzionalità alla preghiera e all’adorazione, e da evidenziare opportunamente (cfr. Istitutio Generalis, n. 315 sub. a).

Specialmente nel caso di chiese nuove o di adeguamenti su edifici di più recente costruzione e ancor privi di una congrua decorazione, occorre curare anche per la cappella eucaristica un adatto programma iconografico. Esso può riguardare le pareti, il pavimento e le vetrate e, naturalmente e, soprattutto, il tabernacolo (e gli altri arredi, suppellettili e stoffe della cappella, nel caso essa coincida con la cappella feriale). Tutte le tecniche artistiche vi sono coinvolte, dall’oreficeria per il tabernacolo, alle tecniche pittoriche e musive, all’arte vetraria, alla scultura, al tovagliato, ai tessuti preziosi fino all’arte che rende suggestive le luci e a quella di ben disporre piante e fiori.

Riguardo ai temi da rappresentare, la tradizione della Chiesa ha elaborato un ampio repertorio iconografico di carattere narrativo e simbolico. Il primo, con intento evidentemente catechetico, attinge sia all’Antico Testamento – in cui molti episodi sono letti come profezie dell’Eucaristia (Abramo e Melchisedech, la manna dell’Esodo ecc.), sia al Nuovo Testamento, dove le profezie si realizzano (l’Ultima cena, la crocifissione,  la moltiplicazione dei pani, i discepoli di Emmaus e così via); le fonti di tale repertorio si possono trovare nel Lezionario della messa del “Corpus Domini” o della messa votiva della SS. Eucaristia, oppure nel Rituale per il culto eucaristico fuori della Messa. I simboli eucaristici sono fin troppo noti da dover essere solo accennati, e alcuni di essi appartengono addirittura alla primitiva simbologia cristiana, come il pesce, il buon pastore, la colomba, i pani con inciso il segno della croce, l’agnello, il pellicano, ecc. Ma non vanno sottovalutate neppure le potenzialità dell’arte, applicata alle vetrate, mediante giochi di luce e di colore, si può creare così un’atmosfera particolarmente propizia alla meditazione.

Anche un corretto orientamento della luce naturale e una adeguata illuminazione artificiale contribuiscono non poco a creare uno spazio sacro e ad attrarre l’attenzione sul tabernacolo e spingere all’adorazione.

Non è forse fuori luogo accennare in questa sede ai vasi sacri destinati ad accogliere il corpo e il sangue del Signore durante la Messa (calice, patena) e durante l’adorazione eucaristica (ostensorio). Recentemente la Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei Sacramenti ha emanato una istruzione «su alcune cose che si devono osservare ed evitare circa la santissima Eucaristia» in cui si occupa anche dei vasi sacri ricordando che devono essere forgiati con materiali considerati nobili a seconda delle varie regioni ed evitati vasi di uso comune o privi di qualsiasi valore artistico (citando cestini, vasi di vetro, argilla creta o altro materiale fragile), e questo perché «con il loro uso si renda onore al Signore e si eviti completamente il rischio di sminuire agli occhi dei fedeli la dottrina della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche» (Redemptionis sacramentum 117).

Non deve sembrare fuori luogo l’insistenza – che risulta da una prassi universale e costante – sulla decorazione delle chiese con opere d’arte anche di grande valore e sulla preziosità dei vasi sacri, delle altre suppellettili o dei paramenti, quasi che esso fosse a detrimento di una giusta sobrietà e di una doverosa carità. Affronta proprio questo tema lo stesso Santo Padre nella sua ultima Lettera enciclica sull’Eucaristia quando ricorda l’obiezione di Giuda nei confronti del gesto della donna di Betania che, alla vigilia della passione, aveva versato sui piedi di Gesù dell’unguento preziosissimo: «Perché questo spreco? Lo si poteva vendere a caro prezzo per darlo ai poveri.» (Mt 26,8). O ancora quando ricorda l’incarico dato da Gesù ai discepoli di preparare accuratamente con tappeti e addobbi la grande sala per consumare la cena pasquale, l’ultima cena (cf. Mc 14,15; Lc 22,12). In questo caso si tratta di un preciso ordine di Gesù in vista di un rito nel corso del quale avrebbe istituito l’Eucaristia; nel primo caso si tratta di un gesto di amore, altamente apprezzato da Gesù, che anticipa quello della Chiesa «che non ha temuto di “sprecare”, investendo il meglio delle sue risorse per esprimere il suo stupore adorante di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia» (Giovanni Paolo II, Ecclesia de eucharistia 47-48).

Il lavoro di chi costruisce la casa del Signore riceve il suo statuto dalla Sacra Scrittura. Dando avvio ai lavori per la Santa Dimora «Mosè disse agli Israeliti: “Vedete, il Signore ha chiamato per nome Bezaleel, figlio di Uri…, L’ha riempito dello spirito di Dio, perché egli abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro, argento, rame, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro ingegnoso» (Es 35, 30-33). Certamente quello dell’artista non è un lavoro comune. Con le parole del Papa possiamo parlare di una vera e propria vocazione che consiste innanzitutto nel fare della propria vita un’opera d’arte e nell’esprimere pienamente le proprie potenzialità creative: una vocazione dunque morale e artistica (Giovanni Paolo II, Lettera del papa agli artisti, 4 aprile 1999, 2).

Bezaleel, Ooliab e tutti gli altri artisti e artigiani devono realizzare un progetto «secondo ciò che il Signore aveva ordinato» (cfr Es 36,1), cioè secondo un’immagine ben precisa concepita da Dio e comunicata a Mosé. Ora all’artista e all’artigiano cristiano non si chiede di eseguire oggetti predefiniti rinunciando alla propria creatività, ma si richiede di concepire la propria opera come servizio a qualcosa di più grande dell’autoespressione assoluta, quale il culto a Dio, che prevede regole appunto rituali. Sentirsi inseriti in una tradizione che vive da millenni non deve essere vissuto come una mortificazione della creatività né come un rifugio sicuro a cui attingere per mancanza di ispirazione; la tradizione offre linee guida alle quali essere fedeli e nel cui solco si deve procedere arricchendo, e non già depauperando, un patrimonio di fede incommensurabile, turgido di implicanze evangelizzatrici. Si tratta appunto di un servizio reso alla e nella Chiesa, nell’ascolto alla propria ispirazione interiore.

Mauro Piacenza
Presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa

 

 
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