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PONTIFICIA COMMISSIONE PER I BENI CULTURALI DELLA CHIESA

RELAZIONE DI S.E. MONS. MAURO PIACENZA

Il centro dello spazio liturgico e il cuore della sacralità umana:
1. Presbiterio e Crocifisso

Loreto, 28 luglio 2006

 

XII Corso di Arte e Iconografia Cristiana Associazione il Baglio 

1. Lo spazio liturgico della chiesa esprime un’ecclesiologia, cioè corrisponde all’idea teologica che la stessa Chiesa ha di sé stessa. Di fatto nel corso della storia della Chiesa non si è avuto un unico modello di spazio liturgico.

Ad esempio, nella seconda metà dell’800 si era giunti ad un modello quasi ovunque unico di spazio liturgico: l’altare maggiore con il tabernacolo collocato verso la parete dell’abside; altri due altari alle pareti terminali delle navate laterali, a fianco del presbiterio; quest’ultimo separato dalla navata da una balaustra per la comunione. L’idea fortemente unitaria, con la sottolineatura dell’elemento strutturale gerarchico della Chiesa aveva dato luogo ad un modello uniforme di chiesa.

Anche la diversa accentuazione della fede cristiana ha influito sulla liturgia e sull’architettura liturgica. Ad esempio, in epoca barocca molte aule di chiese furono provvidenzialmente costruite in funzione del culto al santissimo Sacramento, secondo uno schema che potremmo chiamare a “sala del trono”, il cui vero motivo ordinatore era l’adorazione dell’Eucaristia, conservata nel tabernacolo, di fatto il centro focale della chiesa. Tale schema è diverso da quello della basilica con le navate, che non permettono di vedere il tabernacolo da ogni angolo dello spazio. Non è che quando si costruivano le basiliche fosse minore la considerazione per l’Eucaristia, piuttosto va rilevato che dopo il Concilio di Trento fu pastoralmente necessario sottolinearne il culto anche fuori della S. Messa a motivo di una maggiore consapevolezza della Chiesa, di un sentimento sempre crescente nella cristianità fin dal Medioevo e dalla messa in discussione, da parte dei Protestanti, della Presenza reale e della sua permanenza dopo la celebrazione. Certamente lo Spirito Santo guidò in tale senso e i Pastori furono strumenti docili per l’autentico progresso.

2. Oggi la liturgia e la costruzione di chiese devono confrontarsi autenticamente con il Concilio Vaticano II (1962-1965), che ha trattato dell’ecclesiologia ed ha promulgato una riforma liturgica direttamente legata ad essa.

Proprio in ordine all’interpretazione del Concilio il Santo Padre Benedetto XVI ha fornito alla Chiesa le coordinate ermeneutiche per ovviare ad una certa confusione e difficoltà nella sua applicazione (Discorso alla Curia romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, 22 dicembre 2005). Il Papa distingue una fuorviante ermeneutica, “della discontinuità e della rottura”, da un’ermeneutica autentica, “della riforma”. Mentre infatti la prima asserisce che il vero spirito del Concilio andrebbe al di là dei testi che ha prodotto – i quali sarebbero frutto di compromesso – e si concretizzerebbe nello slancio verso il nuovo, la seconda correttamente legge nel Concilio l’impegno a “esprimere in modo nuovo una determinata verità”, presentando elementi di continuità e di discontinuità.

Come avviene per le verità di fede, che sono suscettibili non di variazione, ma di maggiore comprensione, per dar luogo ad uno “sviluppo” della medesima verità, così avviene anche per le riforme. Pertanto la riforma liturgica del Vaticano II ha inteso introdurre alcune modifiche, non per il gusto della novità in se stessa, ma per maggiore fedeltà al mistero di Dio sempre più approfondito e per esigenze di carità pastorale.

3. Pertanto alla luce degli insegnamenti del Vaticano II, per quanto riguarda lo spazio liturgico e, in particolare, quello dell’altare, non si potrà non tenere presente l’esigenza che i fedeli “partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente” (Sacrosanctum Concilium nn. 48 e 51).

Non si tratta solamente di una esortazione pastorale, ma di un’asserzione che si radica in una ben precisa ecclesiologia, secondo la quale “ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza” (ivi n. 7). Pertanto i fedeli e i ministri ordinati, insigniti rispettivamente del sacerdozio comune e del sacerdozio ministeriale o gerarchico, pur distinti fra loro essenzialmente, “partecipano all’unico sacerdozio di Cristo” (Lumen gentium n. 10) e mentre i sacri ministri “compiono il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offrono a Dio a nome di tutto il popolo”, i fedeli “concorrono all’oblazione dell’eucaristia” (ivi).

È nota inoltre l’asserzione della Sacrosanctum Concilium (n. 7) secondo cui “Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche; per cui “è presente nel sacrificio della Messa, sia nella persona del ministro […] sia soprattutto sotto le specie eucaristiche […]. È presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega […]. Tutte queste affermazioni ci indicano che la liturgia non è qualcosa di statico, uno spettacolo a cui “assistere”, ma qualcosa di dinamico, nel senso di un’azione mediante la quale Dio si rende presente e alla quale si deve piuttosto “partecipare” in modo consapevole.

Alla luce di quanto detto, alcuni elementi della riforma liturgica sembrano ormai acquisiti: a) un altare unico, staccato attorno al quale si possa girare per l’incensazione, sebbene ciò non indichi di per sé il verso del celebrante; b) l’altare separato dalla custodia eucaristica; c) un ambone avvolgente come luogo fisso per la proclamazione della Parola; d) una sede per la presidenza nella celebrazione liturgica, preferibilmente non centrale ma in forma chiastica con l’ambone; e) una collocazione visibile per il fonte battesimale (fuori del presbiterio ed, eventualmente, fuori dalla Chiesa). Permane la necessità di una distinzione chiara fra presbiterio e aula.

4. Vogliamo ora affrontare il rapporto fra i singoli elementi nell’arredamento del presbiterio o santuario, con particolare attenzione per l’altare, centro della chiesa.

L’Introduzione Generale del Messale Romano (IGMR 3a ed. 2000) traduce in pratica i principi teologici e ad essi – come alle introduzioni e ai testi dei libri liturgici – deve volgere l’attenzione l’architetto di chiese.

Nel n. 295, cominciando a descrivere la disposizione del presbiterio, l’IGMR parla di un’opportuna sua distinzione dalla navata della chiesa “per mezzo di un’elevazione, o mediante strutture ornamentali particolari”. È evidente che si vuole giustamente sottolineare in questo modo la differenza essenziale fra sacerdozio ministeriale e dei fedeli. È anche vero che tale norma deve essere coordinata con l’esigenza espressa dal paragrafo precedente (n. 294), per cui “è necessario che la disposizione generale del luogo sacro sia tale da presentare in certo modo l’immagine dell’assemblea riunita, consentire l’ordinata e organica partecipazione di tutti e favorire il regolare svolgimento dei compiti di ciascuno”.

Pertanto ogni elevazione o elemento strutturale dovrà servire a sottolineare la dignità del presbiterio e a creare un’area di rispetto  e non certo a respingere i fedeli. Assolvevano a questo scopo le antiche pergulae nelle basiliche paleocristiane, che in seguito si sono evolute in elementi separatori dell’altare dall’assemblea (jubé, Lettner, trascoros, cancel) tanto da essere quasi ovunque rimosse dopo il Concilio di Trento per permettere la visione dell’altare. Le balaustre furono ideate in seguito per favorire la distribuzione della comunione in ginocchio e non hanno necessariamente terminato la loro funzione: la distribuzione della comunione in ginocchio non è certamente proibita e, inoltre, nelle chiese antiche sarebbe scriteriato rimuoverle.

Negli adeguamenti, occorre inoltre che gli spazi a gradini siano rituali, ovvero siano simbolici, anche numericamente, e permettano i movimenti liturgici, quali l’incensazione, la genuflessione, le prostrazioni, le processioni, la collocazione del faldistorio, etc.,  

5. L’elemento unificante del presbiterio e di tutto lo spazio liturgico naturalmente è l’altare, il quale deve costituire “il centro verso il quale spontaneamente converga l’attenzione dei fedeli” (IGMR n. 299) e ancora: “l’altare è il centro dell’azione di grazie che si compie con l’eucaristia” (ivi n. 296).

Analogamente però, a sua volta, a proposito dell’ambone si afferma che “l’importanza della Parola di Dio esige che vi sia nella chiesa un luogo adatto dal quale tale Parola venga proclamata, e verso il quale, durante la Liturgia della Parola, spontaneamente si rivolga l’attenzione dei fedeli” (ivi n. 309). L’ambone inoltre deve essere avvolgente, quale figura del sepolcro vuoto, dell’annuncio della Resurrezione.

Queste norme, che non sono affatto in contraddizione, traducono il principio dell’unità delle due parti della Messa, la liturgia della parola e la liturgia eucaristica, “congiunte strettamente fra di loro da formare un solo atto di culto” (Sacrosanctum Concilium n. 56). Anche l’IGMR pone questi due significati in un rapporto di complementarità: “L’altare sul quale si rende presente nei segni sacramentali il sacrificio della croce, è anche la mensa del Signore, alla quale il popolo di Dio è chiamato a partecipare quando è convocato per la messa […] (n. 296).

Naturalmente tali esigenze hanno introdotto dei problemi che l’architetto, in collaborazione con il liturgista, è chiamato a risolvere: come mettere in relazione fra loro questi due poli? Come esprimere l’idea di un parallelismo fra una “mensa del corpo del Signore” (Sacrosanctum Concilium n. 48) e di una “mensa della parola di Dio” (ivi n. 51), senza dimenticare la centralità, non solo ideale ma anche reale e architettonica, da riservare assolutamente all’altare come centro dell’azione di grazie, che si compie nell’eucaristia?

È, ad esempio, da escludere in modo perentorio un modello del presbiterio con l’ambone in asse, oppure uno schema ellittico, che riservi all’altare e all’ambone il posto dei due fuochi, attribuendo pertanto ad essi erroneamente una sostanziale equivalenza. Questo non deve sottrarre gli architetti dall’affascinante sfida di ricercare nuove soluzioni, aiutandosi con lo studio della sana dottrina cattolica, della liturgia e della storia dell’architettura per il culto, dove novità non significa mai eccentricità, ma fedeltà al messaggio religioso da comunicare nel flusso di una tradizione vivente.

6. Normalmente poi nel presbiterio è prevista la presenza della sede, la cui collocazione deve consentire al sacerdote celebrante di presiedere l’assemblea e di guidare la preghiera (IGMR n. 310). La sua collocazione deve essere tale da soddisfare alla sua funzione pratica e simbolica, senza diminuire l’importanza preminente dell’altare e dell’ambone. In questo caso può servire la dimensione più ridotta dell’arredo. Va poi opportunamente differenziata la sede del presbitero dalla cattedra del vescovo, soprattutto – come è ovvio – nella chiesa detta significativamente “cattedrale”. Inoltre occorre valutare lo spazio per le processioni, avendo presente un percorso per breviorem ed uno per longiorem.

Più problematico è il rapporto fra l’altare (e di conseguenza gli altri arredi) e il tabernacolo, nel caso si scelga di collocare la custodia eucaristica nell’area presbiteriale. L’IGMR al n. 315 esclude che la santissima eucaristia sia conservata sull’altare verso popolo sul quale si celebra abitualmente la santa Messa. Prevede quindi due soluzioni: a) “in presbiterio, però non sull’altare della celebrazione,  […] non escluso il vecchio altare che non si usa più per la celebrazione; b) “in qualche cappella adatta all’adorazione e alla preghiera privata dei fedeli […]”.

Questa norma prevede delle alternative: come comportarsi per una giusta scelta? La chiave è data dal n. 314 dell’IGMR, il quale invita a proposito della custodia eucaristica a tenere conto “della struttura di ciascuna chiesa e delle legittime consuetudini dei luoghi”. Si potrebbe pertanto affermare che è preferibile riservare alla custodia della santissima eucaristia una apposita cappella che favorisca il raccoglimento adorante dei fedeli e, nello stesso tempo, “sia unita strutturalmente con la chiesa e ben visibile ai fedeli” (n. 315) per indicare l’essenziale connessione fra presenza reale permanente e sacrificio dell’altare. Tuttavia si danno casi, come l’assenza di cappelle o la ristrettezza della chiesa, in cui sia decisamente preferibile conservare l’eucaristia nel vecchio tabernacolo dell’altare maggiore in una chiesa antica o costruirne uno apposito in una chiesa nuova, sempre avendo cura che sia posto in punto elevato, e non ostruito dalla sede e dal nuovo altare e sia rilevante e davvero mobile! Pastoralmente si tenga presente che il fedele deve potersi riferire al tabernacolo con immediatezza e si deve immediatamente comprendere che in esso è custodito Colui che è il centro di tutto!

Naturalmente in quest’ultimo caso deve essere studiata una collocazione che assolva ai requisiti propri di ogni arredo, compreso il tabernacolo. 

7. È noto che è in corso un dibattito a proposito dell’altare i cui termini sono in dialettica fra loro ma non contrapposti in modo esclusivo. Esso riguarda l’orientamento della preghiera liturgica che, secondo un’ampia e antica tradizione, dovrebbe svolgersi verso “oriente”. Non si tratta solo di un punto cardinale, ma si tratta di rivolgersi a Cristo, il quale è “Sole che sorge” (Lc 1, 78), in attesa del suo ritorno escatologico. Il dibattito, come si sa, non è nuovo, ma è stato innescato ultimamente da uno scritto dell’allora cardinale J. Ratzinger (Lo spirito della liturgia, ed. tedesca 1999, ed. italiana 2001). Il futuro Pontefice discute sulla riforma liturgica, affermando a proposito della celebrazione versus populum come essa sia frutto di un equivoco riguardante l’interpretazione del modo di celebrare nelle antiche basiliche romane. In pratica, in esse si celebrava versus populum perché in tal modo si celebrava rivolti ad oriente, essendo l’abside di tali basiliche volta verso occidente; viceversa, in tutti gli altri edifici con l’abside orientata si celebrava in modo che sacerdote e fedeli potessero guardare tutti “verso il Signore”, sicuramente almeno durante la Preghiera eucaristica (pp. 72-73).

Il teologo Ratzinger in realtà non propone di ritornare allo status quo ante (“Niente è più dannoso per la liturgia che il mettere tutto continuamente sottosopra”, p. 79), ma di sollevare un problema, per una migliore consapevolezza del significato della liturgia. Oltretutto vi sono elementi della riforma ormai irrinunciabili, che hanno portato frutti nella pietà del popolo cristiano, come il ricupero della liturgia della parola versus populum e del suo luogo proprio di proclamazione, un equilibrato ambone; l’avvicinamento dell’altare all’assemblea da un luogo prima talvolta molto lontano.

Il problema inoltre non è solo di ordine pratico, poiché implica la teologia della Messa e la teologia della Chiesa, approfondite dal Concilio Vaticano II. In altre parole, mediante la “nuova” disposizione dell’altare, introdotta dalla riforma liturgica, si vuole evidenziare il valore della Messa come banchetto e, mediante la posizione del sacerdote, dare maggiormente l’idea della Chiesa come una famiglia riunita attorno ad una tavola. Ma, questo è solo un aspetto della Messa, aspetto ormai consolidato, che non è affatto in contrasto con l’altro, quello del sacrificio, a cui anzi è complementare: la comunione sacramentale, infatti, è parte integrante del comune compimento del sacrificio. L’aspetto sacrificale è però decisamente prioritario, diremmo fontale.

A proposito di questo fondamentale, prioritario aspetto della Messa, che va naturalmente tenuto presente nell’allestimento dell’altare e nella disposizione dello spazio liturgico, la Costituzione del Vaticano II sulla sacra liturgia ci ricorda: “Il nostro Salvatore nell’ultima cena, la notte in cui veniva tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue, col quale perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrificio della croce, e per affidare così alla diletta sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e risurrezione” (Sacrosanctum Concilium n. 47).

In modo equilibrato si potrebbe dire che architettura e scultura dovrebbero descrivere, a loro modo, la Santa Messa come “sacrificio conviviale”.

8. Un cenno deve essere pure riservato all’altare in se stesso. Per evidenziarne l’importanza e il significato, l’altare dovrebbe essere unico, fisso, possibilmente di pietra naturale per indicare che si tratta di Cristo “pietra viva” (ivi nn. 298 e 301; Cfr 1 Pt 2, 4; Ef 2, 20); inoltre deve essere rivestito di una tovaglia bianca, adornato di fiori eccetto che nei tempi penitenziali di Avvento e Quaresima e nelle celebrazioni funebri, ornato di candelieri (ivi nn. 304-305 e 307).

9. Oggi sovente si utilizza un termine, a mio parere felice, quello di “iconicità spaziale”, per indicare la capacità dello spazio liturgico disposto architettonicamente e degli stessi arredi, di essere “icone”, ovvero elementi architettonici non solo funzionali allo svolgimento di un rito, ma pure significativi di una realtà spirituale e misterica: tale realtà, resa attuale dalla celebrazione liturgica, costituirebbe una sorta di iconologia di cui gli elementi architettonici e le immagini sarebbero i segni rivelatori, l’iconografia. In altre parole, l’altare – ma anche , l’ambone, il battistero ecc. – grazie ai materiali usati, alla loro forma e disposizione, dovrebbero essere in sé portatori di un significato che li trascende (celebrazione del Sacrificio e del convito eucaristico, annuncio della Parola, immersione nella morte e risurrezione di Cristo) e lo stesso dicasi per lo spazio nel suo rapporto con la luce e l’assemblea che lo abita. In tal senso, è da evitare che l’altare abbia la foggia di tavolino; deve piuttosto avere le caratteristiche di ara del sacrificio.

In ogni caso, secondo una consuetudine che risale all’antichità, si usa anche lodevolmente decorare l’altare o mediante l’applicazione di paliotti o scolpendo direttamente la materia di cui è fatto. Riguardo all’iconografia – da scolpire, cesellare, dipingere, ricamare – si ripropongono i misteri della vita del Signore dall’Incarnazione alla Parusía, celebrati nella Messa; oppure i misteri della Passione e Morte del Signore o dell’Ultima Cena o le “figure” bibliche del sacrificio di Cristo; o anche si inseriscono elementi simbolici come l’Agnello immolato, derivato dall’Apocalisse e riferito al mistero pasquale di Cristo; si possono utilizzare anche allegorie (pellicano) o elementi naturalistici (grano e uva) o altri (calice), ma facendo attenzione alla immediata comprensibilità.

10. Proprio traendo spunto dal discorso appena fatto sulle immagini, riprendiamo in considerazione il libro sopra citato dell’allora cardinale Ratzinger, il quale proprio in un’immagine, quella del crocifisso, trova la soluzione  alla questione da lui sollevata della direzione della preghiera liturgica “conversi ad Dominum”. Con un’intuizione a mio parere assai felice, scrive: “La direzione verso oriente si trova in stretto rapporto con il ‘segno del Figlio dell’uomo’ (cfr Mt 24, 27), con la croce, che annuncia il ritorno del Signore” (p. 79).

Con ciò si affida il completamento del significato di un arredo essenziale alla liturgia, come l’altare, ad un’immagine, la quale si qualifica pertanto come immagine “liturgica”. Mi sembra quanto mai opportuno parlare oggi di immagini liturgiche in un tempo in cui l’arte cristiana, con grave nocumento per tutti, è per lo più arte semplicemente “religiosa”, in quanto unicamente espressiva dell’esperienza spirituale personale dell’artista. L’arte liturgica (il termine a mio parere è preferibile a quello più controverso e ambiguo di arte “sacra”), invece, unisce al precedente aspetto, il servizio alla Chiesa almeno in una triplice modalità: culto, catechesi e devozione. In particolare nell’ambito del culto l’arte liturgica – al pari del rito, del canto, delle vesti e delle suppellettili –  concorre a rendere partecipi i fedeli dei santi misteri pasquali della salvezza che si stanno celebrando.

Tralasciando un discorso più complessivo sulle immagini, nella liturgia latina l’unica immagine esplicitamente richiesta per la liturgia è la croce: “Vi sia sopra l’altare, o accanto ad esso, una croce, con l’immagine di Cristo crocifisso, ben visibile allo sguardo del popolo radunato. Conviene che questa croce rimanga vicino all’altare, anche al di fuori delle celebrazioni liturgiche, per ricordare alla mente dei fedeli la salvifica passione del Signore” (IGMR n. 308). E più ampiamente: «Fra le immagini sacre tiene il primo posto “la figura della preziosa Croce fonte della nostra salvezza”, come quella che è simbolo ricapitolativo di tutto il mistero pasquale. […] Per mezzo della Santa Croce viene rappresentata la passione di Cristo e il suo trionfo sulla morte e, nello stesso tempo, […] viene insegnata la sua seconda venuta» (Benedizionale, n. 1331). La Croce dunque è l’icona figurativa che riunisce gli altri tre fuochi cristologici, e deve portare il Cristo, con occhi chiusi o aperti.

La presenza della croce nella celebrazione della Messa è attestata fin dal V secolo, ed è costante dall’alto Medioevo la presenza di croci sospese ai cibori o di una croce astile collocata accanto all’altare. A partire dal X-XI secolo, in concomitanza con lo spostamento dell’altare verso il fondo dell’abside, divenne abituale in occidente la croce d’altare, in forma di crocefisso, fissata o appoggiata alla mensa nel bordo posteriore e affiancata da due candelieri: attestata come prassi comune nel XIII secolo, fu resa obbligatoria col Messale tridentino. Era anche comune collocare un grande crocifisso sulla sommità della porta dello jubé dietro l’altare detto appunto “del crocifisso”, o sospenderlo nell’arco trionfale o sopra l’altare.

La teologia altomedievale ha inteso il crocifisso come segno di vittoria, mediante la rappresentazione del corpo di Cristo conforme a una bellezza ideale e privo di segni di sofferenza. Ne sono esempio i crocifissi altomedievali gemmati, analoghi alle croci musive o dipinte sulle absidi paleocristiane, che richiamano il segno del ritorno del Figlio dell’uomo nella parousía (cfr. Mt 24, 4-31; 25, 31) e l’Apocalisse, dove le gemme sono prerogativa della Gerusalemme celeste “dimora di Dio con gli uomini” (Ap 21, 3). Solo in seguito, sulla base di prototipi bizantini, per influsso della teologia (Anselmo di Aosta), della spiritualità (mistica francescana, Devotio moderna) e per il diffondersi della devozione all’umanità sofferente di Cristo, il Crocifisso cominciò ad apparire con gli occhi chiusi e i segni della passione, mostrando in maniera crescente le sofferenze, secondo una tipologia sempre molto cara ai fedeli.

Sembra proprio però che all’immagine del crocifisso d’altare si chieda oggi di essere qualcosa di più di una semplice immagine devozionale, che provochi una partecipazione affettiva o che richiami semplicemente l’evento storico del Golgota: deve essere espressiva dall’intero mistero pasquale. Deve cioè saper riassumere e rendere evidente lo stesso mistero di Cristo morto, risorto, asceso al cielo, di cui si attende il ritorno. In altre parole, lo stesso mistero pasquale che si celebra nella Messa, dovrebbe apparire ripresentato da questa immagine liturgica del crocifisso, la cui collocazione dovrebbe essere tale da costituire il punto di orientamento della preghiera del sacerdote e dei fedeli “conversi ad Dominum” (Ratzinger, pp. 79-80).

Alla Croce, infine, convergono altre immagini, fra le quali la pala, in cui abitualmente è presentato il titolo dedicatorio. Essa è nell’abside, perché la Chiesa è Cristo, per cui la Madonna, gli angeli e i santi intercedono per il popolo presso il Salvatore. Si deve sempre poter percepire l’abbraccio caloroso della famiglia di Dio!

Mauro Piacenza
Presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa
Presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra

 

 
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