La Santa Sede Menu Ricerca
La Curia Romana  
 

 

 
 
 
 

"Deus caritas est": 

 un messaggio profetico

L'Arcivescovo Paul Josef Cordes, Presidente del Pontificio Consiglio "Cor Unum", ha tenuto sabato 12 maggio, ad Aparecida, una conferenza sul tema "Deus caritas est. Un messaggio profetico". Pubblichiamo qui di seguito il testo della sua riflessione in una nostra traduzione italiana: 

1. Introduzione

Dalla sua elezione Papa Benedetto XVI ha parlato spesso dei problemi e dei bisogni con cui l'umanità si deve confrontare attualmente. Ad esempio, dinanzi ai partecipanti alla XXXIII Conferenza dell'Organizzazione per l'Alimentazione e l'Agricoltura delle Nazioni Unite (FAO), nel novembre del 2005, il Papa ha deplorato il contrasto paradossale fra i nuovi progressi economici, scientifici e tecnologici e il constante aumento della povertà. Ha ammonito in modo diretto le istanze politiche, le istituzioni economiche e i potenti della società.

Con questi moniti, il Papa si situa nella linea di una nota e importante tradizione della Chiesa. A metà del XIX secolo, a causa dell'industrializzazione, la miseria minacciava di dominare l'uomo nel mondo occidentale. Di fronte a tale panorama, la Chiesa si fece portavoce dei bisognosi. Il Magistero della Chiesa reagì con dichiarazioni vincolanti. Sia Leone XIII sia Pio XI fecero appello alle coscienze dei loro contemporanei mediante Encicliche, al fine di contribuire a porre fine a tale situazione. Nacque così la Dottrina Sociale della Chiesa. I Pontefici che seguirono, i Papi Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II non vollero a loro volta tacere dinanzi alla costante miseria. Levarono quindi la loro voce, intervenendo nello sviluppo sociale dei popoli. Come le altre Conferenze precedenti, anche questa V Conferenza dell'Episcopato Latinoamericano con le sue decisioni s'integra perfettamente in questa missione della Chiesa universale. La "Sintesi dei contributi ricevuti", formulata come preparazione a questo grande incontro, osserva giustamente che l'impegno della Chiesa per i poveri dovrebbe trasformarsi "in un atteggiamento permanente che si manifesti in opzioni e gesti concreti" (n. 224).

La denuncia della miseria e dell'ingiustizia corrisponde alla definizione scientifica che la nuova disciplina fa di se stessa, trascendendo così la dimensione strettamente personale e individuale. Tale denuncia mira a migliorare le strutture della convivenza sociale. Sostanzialmente si tratta di correggere leggi carenti, problematiche o ingiuste. La Dottrina Sociale non si serve tanto di appelli all'amore o di richieste di benevolenza e di misericordia, quanto del diritto come strumento per ottenere più giustizia, libertà e rispetto della dignità umana.

I cristiani già praticavano l'amore per il prossimo molto prima della nascita della Dottrina Sociale della Chiesa e della sua applicazione concreta. Il Figlio di Dio lo istituì come comandamento principale del comportamento dei suoi discepoli, essendo Egli stesso testimone di questo amore. La Chiesa primitiva vedeva Cristo come il Buon Samaritano della parabola, che fa suo ogni tipo di ferita e di sfruttamento in ogni tempo e in ogni luogo. Negli Atti degli Apostoli si legge:  "passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui" (10, 38). Questa è la descrizione inconfondibile di Gesù. Per questo la giovane comunità cristiana fece suoi l'esempio e la missione di Gesù. Il Nuovo Testamento racconta in diversi punti le forme concrete di aiuto spirituale e materiale. Gli scritti successivi riflettono allo stesso modo la continuità di questa pratica. Così la Didascalia (della metà del III secolo) esorta il Vescovo:  "Pensa ai poveri, prendili per mano e alimentali". Si trovano indizi di questa pratica da Giustino, martire, a Tertulliano. L'amore per il prossimo dei primi cristiani era provocatore al punto da scandalizzare i pagani. Dall'Imperatore Giuliano l'Apostata ci giunge il seguente detto:  "Questi galilei atei alimentano non solo i propri poveri, ma anche i nostri".

Nel corso dei secoli, uomini e donne hanno conservato e vissuto questa eredità del Signore. Sono quelli che chiamiamo santi. Non sono nati con l'aureola. Il fascino che emanano si deve al fatto che hanno consumato la propria vita fino alla fine in un ammirevole e altruistico amore per il prossimo. Potrebbero costituire un autentico e attrattivo punto di riferimento per la narrazione della storia della Chiesa. Fra quelli che sono stati elevati agli onori degli altari si trovano fondatori e fondatrici di Ordini religiosi che si sono lasciati entusiasmare dall'amore verso Dio e, spinti da uno zelo impressionante, hanno riunito attorno a sé uomini e donne con lo stesso spirito, trasmettendo loro la propria intenzione di conquistare anime a Dio.

2. La testimonianza concreta della carità

Questa ondata di impegno cristiano lasciò la sua impronta nella società, anche se spesso il mondo non ha compreso che l'amore cristiano aveva il proprio fondamento in Cristo. A volte mi sembra che nessuno dei comandamenti del Signore abbia avuto un'eco così profonda nella Modernità come l'impegno di aiutare i bisognosi. Nel mondo occidentale l'accettazione di questo principio, al meno teoricamente, si è integrato nella cultura. Solo nel 2005 Caritas Internationalis ha avuto a disposizione più di 245 milioni di dollari come aiuto per le catastrofi, soprattutto a seguito dello Tsunami. Come non rallegraci per questo fatto, anche se i soldi non sono mai sufficienti?

Richiama l'attenzione il fatto che nel passato la Chiesa molto raramente ha presentato in modo dettagliato l'obbligo di aiutare i bisognosi. L'amore per il prossimo non aveva infatti bisogno di una giustificazione particolare. Nella predicazione della Chiesa, l'imperativo dell'amore si riconosceva direttamente come indicativo della fede. L'amore verso Dio e il prossimo formavano un'unità in quanto comandamento duplice, divenendo a sua volta per il cristiano un'esigenza. D'altro canto, la felice congiuntura della filantropia ai nostri giorni ha fatto sì che le sue radici cristiane venissero dimenticate.

Un secondo cambiamento di situazione attira la nostra attenzione.

Oggi, in molti Paesi del "Primo Mondo", l'azione caritativa giunge a tutti gli ambiti e le classi della società. Si relaziona con il diritto civile, con gli obblighi sociali, con la responsabilità dello Stato. Dall'asilo nido fino alla casa di riposo per anziani, la vita dell'uomo è accompagnata da un'assistenza organizzata. Così in alcuni Paesi dell'Occidente, la Confederazione Caritas è cresciuta fino a divenire un'impressionante impresa di servizi. Sebbene sia difficile a credere, Caritas Germania impiega 500.000 lavoratori specializzati, rappresentando così la seconda maggiore entità patronale della Germania dopo lo Stato. Il peso e l'influenza delle istituzioni caritative cattoliche è considerevole:  la Caritas negli Stati Uniti dispone annualmente, per l'assistenza a progetti in Paesi in via di sviluppo, del cosiddetto CRS (Catholic Relief Services), di un budget di circa 400 milioni di dollari.

Di conseguenza, chi si meraviglierebbe del fatto che oggi il lavoro della Caritas non è concepibile senza un elevato livello di professionalità? L'utilizzazione del denaro pubblico obbliga a una precisione burocratica, condizionando sia la fondazione sia il funzionamento di tutte le organizzazioni caritative. I contratti e l'esecuzione del lavoro, persino la concessione di sussidi e la loro utilizzazione, richiedono una particolare gestione amministrativa. Tutto ciò non è deplorevole, anzi potenzia l'opportunità di offrire un aiuto effettivo.

3. L'identità cristiana delle organizzazioni

Naturalmente, il carattere professionale dell'impegno caritativo implica anche la sua oggettivazione, che da un lato può avere come conseguenza in alcune persone un cambiamento della motivazione. Se quello che conta è l'azione di per sé, si può dimenticare che questa azione dovrebbe anche avere un significato più profondo:  voler essere un segno della bontà di Dio. Il carattere simbolico dell'aiuto viene meno o diviene invisibile. Tuttavia, se tale carattere della buona azione si indebolisce o scompare completamente, si potrebbe perdere la dimensione fondamentale delle opere sociali della Chiesa. Le agenzie cattoliche sarebbero l'equivalente della Croce Rossa, dell'UNICEF:  perderebbero anche la loro identità cristiana.

Purtroppo questi timori non sono frutto di speculazioni teoriche, ma si presentano in modo contundente nella realtà. Per non perderci nella moltitudine dei possibili rischi, ci limiteremo a due esempi concreti.

3.1 - Una delle maggiori organizzazioni caritative del mondo ha creato filiali nei Paesi più poveri con personale proprio, trasformandole in molti casi in un ostacolo al lavoro della Chiesa locale, più che in un rafforzamento. Così, ad esempio, nei Balcani il Cardinale Puljic, Arcivescovo di Sarajevo, in Bosnia, mi fece sapere che dieci degli undici collaboratori di un'agenzia cattolica erano musulmani. La loro attività rifletteva la strategia della loro religione di islamizzare il Paese. Con le loro azioni perseguivano un fine secondario, ossia la repressione dei cristiani presenti in Bosnia.

3.2 - Nel bilancio ufficiale delle sovvenzioni per progetti inviati alla Caritas di un piccolo Paese europeo risultava una richiesta di sussidio per il V Congresso delle femministe lesbiche dell'America Latina e dei Caraibi. Anche se non posso dire se tale sovvenzione sia stata approvata o no, il fatto che sia stata trattata in un'agenzia cattolica desta sorpresa.

Questi fatti problematici non devono portarci a dimenticare gli aspetti positivi delle Organizzazioni caritative della Chiesa, ma mostrano semplicemente perché una presentazione teologica precisa e vincolante del ruolo della Caritas nella Chiesa non è superflua.

La situazione descritta richiede, da molto tempo, una presa di posizione qualificata, affinché le organizzazioni ecclesiali di aiuto conservino le loro radici cristiane. Sebbene la beneficenza apparente sia un fattore della cultura occidentale, non per questo i cristiani devono abbassare la guardia. I credenti dovranno occuparsi della specificità della Caritas cristiana, ossia, in un certo senso di preservare la sua identità, di modo che questa si presenti e continui a presentarsi con il suo profilo tipico di forma riconoscibile in mezzo alla moltitudine di agenzia di aiuto umanitario.

4. Martyria, Leiturgia e Diakonia

Quali sono i dati ecclesiologici che devono essere considerati in modo prioritario?

Nella visione ecclesiale, la teologia articola la missione fondamentale della Chiesa in:  Martyria, Leiturgia e Diakonia. La teologia spiega che, sebbene questi campi siano diversi, nella vita ecclesiale concreta non si possono presentare isolati, ma devono essere intimamente collegati. Martyria, Leiturgia e Diakonia mostrano il lato felice della missione ecclesiale, il suo triplice volto. Esse hanno bisogno di un'osmosi, sia per ciò che concerne la missione della Chiesa nel suo insieme, sia per la vita di ogni inviato, sebbene il Corpo di Cristo abbia molte membra e i servizi della Chiesa siano diversi. Di fatto solo la predicazione che si può esplicitare nel servizio al prossimo e celebrare nel culto divino trasmetterà all'uomo la salvezza piena. Questa osmosi non significa che la carità si perda nell'impegno a favore della giustizia nel mondo. Diaconia e Pastorale Sociale devono differenziarsi in quanto hanno fini diversi. Entrambe hanno le proprie radici nell'amore che viene da Dio, ma mentre la Pastorale Sociale è ispirata alla Dottrina Sociale della Chiesa, la carità incarna tutto il patrimonio della Scrittura e della storia della salvezza sull'amore divino.

Occupandosi il nostro Dicastero Cor Unum della prassi dell'amore per il prossimo come missione della Chiesa, Giovanni Paolo II mi aveva chiesto di fornirgli un lavoro preparatorio per uno scritto magisteriale sull'amore per il prossimo. In una prima bozza pensai a una presentazione induttiva del tema:  il riferimento all'umanesimo accettato in tutta la cultura occidentale, le molte iniziative dello Stato e della Chiesa, il fondamento dell'amore per il prossimo in Dio. Tuttavia, nella fase finale del Pontificato di Papa Wojtyla l'elaborazione del testo rallentò. Così mi rivolsi al Cardinale Ratzinger, che lesse e corresse i lavori preparatori. Una volta eletto Papa mi ha chiesto in uno dei nostri primi incontri:  "Cosa succederà all'Enciclica?". Poco tempo dopo, mi ha fatto sapere che aveva scelto il tema della "Caritas". Ebbene, non si è limitato alla mia bozza, ma ha cambiato tutto in modo radicale. Tutti coloro che conoscono il mondo di scrivere del Santo Padre, scoprono che l'intero I testo è inconfondibilmente in "stile Ratzinger". L'Enciclica inizia con una formulazione teologica importante utilizzando la frase principale:  "Dio è amore". In tal modo, manifesta sia l'ordine temporale, sia la scala di valori, il primato assoluto di colui "che ci ha amati per primo".

5. "Deus caritas est Dio è amore"

Si potrebbe interpretare il menzionato cambiamento delle analisi magisteriali portate a termine dal Papa in un modo puramente metodico:  il teologo Ratzinger preferisce il metodo deduttivo di spiegazione a quello induttivo. Tuttavia questa interpretazione non tiene conto dell'impulso fondamentale del nuovo Papa. Le sue Omelie e le sue catechesi sono una dimostrazione dell'anelito a guardare costantemente in direzione di Dio. La sua prospettiva è determinata dal teocentrismo. Non si stanca mai di parlare del Padre celeste, di suo Figlio Gesù Cristo e della forza creatrice dello Spirito Santo.

Cari fratelli, rendo grazie a Dio di poter oggi, con voi, in questa occasione unica, dare un nuovo impulso alla prima Enciclica del nostro Papa. Non è stato facile - come potete immaginare - ottenere questo momento di riflessione. Ho dovuto lottare un po'. Mi ha tuttavia sostenuto lo stesso Santo Padre, che desidera ardentemente la diffusione di questo documento, "Deus caritas est". Di recente, circa un mese fa, durante la sua visita apostolica presso la tomba di sant'Agostino, a Pavia, ha affermato:  "Qui, dinanzi alla tomba di sant'Agostino, vorrei idealmente riconsegnare alla Chiesa e al mondo la mia prima Enciclica, che contiene proprio questo messaggio centrale del Vangelo Deus caritas est, Dio è amore (1 Gv 4, 8.16). Questa Enciclica, soprattutto la sua prima parte, è largamente debitrice al pensiero di sant'Agostino, che è stato un innamorato dell'Amore di Dio, e lo ha cantato, meditato, predicato in tutti i suoi scritti, e soprattutto testimoniato nel suo ministero pastorale. Sono convinto... che l'umanità contemporanea ha bisogno di questo messaggio essenziale, incarnato in Cristo Gesù:  Dio è amore. Tutto deve partire da qui e tutto qui deve condurre:  ogni azione pastorale, ogni trattazione teologica. Come dice san Paolo:  "Se non avessi la carità, nulla mi giova" (cfr 1 Cor 13, 3):  tutti i carismi perdono di senso e di valore senza l'amore, grazie al quale invece tutti concorrono ad edificare il corpo mistico di Cristo".

È realmente sorprendente che questa sia la notizia che vuole essere ascoltata dagli uomini di oggi. L'eco del documento papale è stata inaspettatamente positiva ottenendo quasi sempre una buona accoglienza. Così ce lo ricordano almeno due citazioni della stampa.

In uno dei giornali più importanti della Germania si legge:  "Mai prima un Papa aveva scritto un'estesa istruzione sull'amore umano in modo così sensibile e poetico e al contempo teologico come ha fatto Benedetto XVI, nel definire l'amore come un'"immersione nell'ebbrezza della felicità"".

Jan Ross, del settimanale Die Zeit delimita vistosamente le sfide ecclesiali contro l'Enciclica quando scrive:  "Joseph Ratzinger è conservatore, ma nel fondo non è un predicatore sulla morale, gli interessa ciò che è grande e totale, il nucleo essenziale del cristianesimo" (26.01.06).

Anche nella prima pagina del New York Times, giornale non proprio benigno nei suoi giudizi sulla Chiesa cattolica, appare un commento decisamente positivo. Mentre preparavo questa conferenza, mi sono rallegrato nel trovare anche nel documento di "Sintesi" preparatorio di questo incontro diversi riferimenti all'Enciclica.

Chi alla luce dell'Enciclica del Papa riflette sul motivo dell'enfasi che pone sulle radici cristiane dell'amore per il prossimo, scoprirà più di una direttiva pastorale. Il Papa si avvicina, in tal modo, nell'ambito dell'aiuto, a una problematica che fino ad ora non era ancora stata articolata. Egli va al di là di iniziative e programmi, poiché, accanto all'aiuto, intende occuparsi anche della persona che aiuta. Qui troviamo una forza motrice che non deve essere ignorata, in quanto presenta un nuovo modo di vedere la lotta contro la miseria. Fino ad ora, nel campo dell'impegno cristiano, gli obiettivi della diaconia ecclesiale hanno avuto una formulazione obiettiva come norme e imperativi pratici. Papa Benedetto XVI si rivolge ora in un modo più calcolato e dettagliato di quanto si faccia solitamente, ai soggetti dell'attività.

6. Limiti dell'obbligazione giuridica

La Dottrina Sociale della Chiesa serve - come ho detto all'inizio - alla diffusione delle leggi statali, affinché si giunga a creare un ordine sociale giusto. La dottrina sociale vuole motivare il cambiamento di opinione in coloro ai quali è stato affidato il processo decisionale. Essa appare orientata verso l'altro, potendo pertanto creare il malinteso secondo il quale sono gli altri a dover cambiare. Esistono alcuni rappresentanti della Chiesa che aspirano con ansia alla moltiplicazione del loro potere sociale e prendono parte alla responsabilità politica, per poter così esigere da altri la realizzazione dei propri obiettivi.

Papa Benedetto XVI fa notare nella sua Enciclica che non è compito della Chiesa imporre politicamente la dottrina sociale.

In una corretta Teologia della carità, non è presente questa tentazione del precedente orientamento verso qualcosa che si trova al di fuori della mia persona. Le istruzioni sulla Caritas valgono sia per la spiritualità sia per l'operato di quanti lavorano in questo ambito. Queste sono in primo luogo un'esigenza al proprio io, in quanto provengono direttamente da un'adesione personale a Dio e mirano spesso all'unione comunitaria o all'associazione.

In modo inequivocabile vi è una differenza fra il carattere obbligatorio della dottrina sociale e l'istruzione caritativa della Chiesa. La prima tiene conto delle strutture che rendono possibile ed esigono la condotta morale, la seconda si riferisce al cuore di ogni cristiano, affinché esso, trasformandosi in forza motrice, spinga sia agli individui sia alla comunità di fede a compiere opere buone per i bisognosi.

La differenza esposta non sminuisce in alcun modo il carattere vincolante dell'impegno sociale. Benedetto XVI nel suo recente e famoso libro "Gesù di Nazaret" mette in guardia i fedeli "misericordiosi" che intendono sfuggire alla difesa dei diritti, facendo opere di carità. Scrive nel suddetto libro che la guida sociale è una guida teologica e la guida teologica ha un carattere sociale. L'amore verso Dio e l'amore per il prossimo non si possono scindere. D'altro canto, non si possono identificare i doveri richiesti dalla Dottrina Sociale della Chiesa con il ricco patrimonio biblico vissuto dai testimoni della Carità e non distinguere le caratteristiche proprie di entrambi.

7. Per una spiritualità diaconale

Una lettura attenta del testo rivela che Papa Benedetto XVI intendeva offrire qualcosa di più di una nuova Enciclica da aggiungere a quelle già esistenti per migliorare la giustizia nel mondo. Certamente, possiede questo fine, ma fornisce alcune indicazioni rivolte soprattutto ai collaboratori delle grandi agenzie cattoliche di aiuto e che meritano di essere prese in considerazione per la loro educazione previa e anche per i volontari del servizio ecclesiale. Introducono misure ispirate dal tema "amore". Da un lato, si rivolgono alla persona del prossimo bisognoso. Gli esseri umani, con le parole dell'Enciclica, "necessitano sempre di qualcosa di più di una cura solo tecnicamente corretta". Inoltre hanno bisogno di "umanità", dell'"attenzione del cuore" (n. 31a). Per un incontro con essi, sono necessari anche radicamento nella fede e intimità con Dio. Spesso al bisognoso manca qualcosa di più del mangiare e del bere, dell'alloggio e della salute, poiché "è proprio l'assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza" (31c).

Poi il Papa cita alcune parole chiave, che sono essenziali per la spiritualità diaconale, e che purtroppo per mancanza di tempo, non posso esaminare. Tuttavia, queste costituiscono il punto di riferimento per qualcosa di fondamentalmente nuovo nella dottrina dell'aiuto umanitario, che vorrei definire come cambiamento di paradigmi.

Attraverso i secoli, molti Ordini religiosi si sono sentiti obbligati a combattere in alcuni Paesi del mondo occidentale contro la povertà e la miseria. Uomini e donne compassionevoli hanno fatto propria la sofferenza dei loro contemporanei in diversi Paesi europei. In Germania, nel 1910, 700.000 uomini e donne erano al servizio di Cristo in opere a carattere caritativo. Beneficiavano di una direzione spirituale, sia durante la loro preparazione per entrare nell'Ordine religioso, sia dopo, durante l'accompagnamento costante ricevuto come membri di tale Ordine. Si ritrovavano così dotati delle armi necessarie per non cadere nella tentazione di vedere il proprio lavoro da un punto di vista esclusivamente tecnico-amministrativo. I cristiani che non appartenevano a un Ordine religioso, ma che si univano ad esso come volontari, erano ispirati sia da coloro che apparivano come veri testimoni della fede sia dall'influente vita comunitaria e dalle corrispondenti associazioni.

Oggi il superamento della miseria umana appare essenzialmente più complicato che in passato. Affrontarlo significa dedicarsi a diversi compiti politici, ecologici, sanitari, antropologici. Tutto ciò esige una gestione corretta, con una formazione adeguata, che implica anche l'elaborazione dei corsi e degli esami corrispondenti.

Tuttavia, ai nostri giorni non si può rinunciare né semplicemente supporre "a priori" il fondamento della fede o la testimonianza cristiana degli artefici della filantropia ecclesiale. Costituendo la diakonia una delle tre missioni fondamentali della Chiesa e trovandoci oggi immersi in una cultura in cui la filantropia viene ammessa a livello generale, ci vediamo dinanzi all'obbligo di porci nuovamente all'opera.

Come è stato fatto finora, Papa Benedetto XVI esorta i membri della Chiesa sia a impegnarsi nella lotta contro la miseria nel mondo, sia a formulare obiettivi efficaci e ad auspicare la loro realizzazione. Allo stesso tempo, al fine di aiutare, s'impone un cambiamento di paradigmi. Di fronte a un mondo trasformato occorre aggiungere a questi programmi e progetti una seconda dimensione:  le persone, che in nome della Chiesa rendono testimonianza dell'amore di Dio, devono essere formate e pervase dalla fede. Nell'orientamento alla fede dei volontari cristiani si decide ciò che è specifico della lotta contro la miseria, che solo la Chiesa può offrire all'umanità. Nell'impegno sociale della Chiesa si presenta il bisogno di agire. Per questo spetta ai Pastori della Chiesa la responsabilità. Si suggerisce loro un'accoglienza favorevole dell'impulso offerto dall'Enciclica.

8. Il compito centrale del Vescovo

Concludendo, nell'Enciclica "Deus caritas est" Papa Benedetto XVI indica senza giri di parole la responsabilità ultima del Vescovo nella missione diaconale della Chiesa. Naturalmente, il Pastore di una Diocesi si deve lasciare aiutare in questo compito; ma non lo può delegare ai suoi collaboratori, per quanto preparati essi siano. L'adempiere a tale responsabilità proviene dall'essenza dell'ordinazione episcopale. Il documento del Papa lo esprime chiaramente:  "Nelle precedenti riflessioni è ormai risultato chiaro che il vero soggetto delle varie Organizzazioni cattoliche che svolgono un servizio di carità è la Chiesa stessa - e ciò a tutti i livelli, iniziando dalle parrocchie, attraverso le Chiese particolari, fino alla Chiesa universale... Alla struttura episcopale della Chiesa, poi, corrisponde il fatto che, nelle Chiese particolari, i Vescovi quali successori degli Apostoli portino la prima responsabilità della realizzazione, anche nel presente, del programma indicato negli Atti degli Apostoli (cfr 2, 42-44)" (n. 32).

Quando a novembre dello scorso anno cercavo di trasmettere questo chiarimento del Papa ai Vescovi tedeschi nella loro visita ad limina, ho trovato qualche opposizione. Le Chiese del cosiddetto Primo Mondo possiedono associazioni che si dedicano a combattere la povertà, le quali tendono ad operare autonomamente. I Vescovi delle diocesi che ricevono gli aiuti, sono chiamati a mantenere e a sviluppare la comunione e il dialogo con i Vescovi dei Paesi donanti. Ai Pastori corrisponde una funzione di vigilanza, non sempre facile da svolgere. Tuttavia, come si può combattere la secolarizzazione globale senza Pastori coraggiosi?

Ponendo l'enfasi sulla responsabilità episcopale per la diaconia non si intende sostenere un nuovo clericalismo. Al contrario, prendendo a fondamento la nuova Enciclica, si tratta di aiutare la retta teologia in tutto il mondo, anche per quanto riguarda le grandi opere di carità. È il sacramento dell'Ordine, nel quale si chiede e si conferisce attraverso l'imposizione delle mani al Vescovo la pienezza dello Spirito Santo per la predicazione, il servizio divino e il governo della Chiesa. Così egli acquisisce la responsabilità ultima per le tre missioni della Chiesa. Allo stesso modo, come non la può delegare per la predicazione e la liturgia, non può farlo per la diaconia. Tale nuovo orientamento teologico deve essere rispettato in primo luogo da tutti coloro che si occupano della diaconia individualmente o nelle istituzioni:  questi non possono porsi al di sopra dell'ultima responsabilità del Vescovo.

 

Aparecida

Conferenza dell'Arcivescovo Paul Josef Cordes 

Presidente del Pontificio Consiglio "Cor Unum"

12 maggio 2007 


 

top