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La Curia Romana  
 

 

 
 

     S. Em. Cardinale Robert Sarah                                           3 dicembre 2010
     Presidente                                                                          
Esercizi Spirituali Europa 
    
Pontificio Consiglio Cor Unum                    
                      Czestochowa, Polonia
 

  OMELIA DI CHIUSURA

(Isaia 20, 17-24; Matteo 9, 27-31)

La cecità fisica, al tempo di Gesù, era una malattia molto comune. Molti episodi dei Vangeli raccontano infatti di guarigioni di ciechi: Marco narra l’episodio del cieco di Betsàida (8, 22-26), Luca cita la storia del cieco Bartimeo (18, 35-43) e Giovanni ci parla del cieco dalla nascita cui Gesù ordina di andare a lavasi nella piscina di Siloe (9, 7). Anche nel vangelo di Matteo, autore del brano di oggi, troviamo, nel capitolo 12, l’episodio di un indemoniato cieco e muto (v. 22-32).

L’intenzione degli Evangelisti, doveva probabilmente essere quella di metterci di fronte a quella profonda miseria umana che Gesù è venuto ad affrontare. La cecità, all’epoca, veniva infatti considerata una malattia ripugnante. Le persone avevano timore di toccare un cieco. Tale infermità veniva provocata da infezioni o malattie che causavano rossori o gonfiori che sfiguravano il volto, oltreché una lacrimazione costante. A sua volta, poteva produrre anche altre patologie fisiche. Inoltre, al tempo di Gesù, i ciechi venivano perseguitati da alcuni capi religiosi, che pretendevano di essere nel giusto e li accusavano di essere peccatori puniti da Dio. Gli stessi discepoli hanno posto a Gesù la stessa domanda : «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» (Gv 9,2). In effetti, i ciechi erano persone inermi, escluse ed emarginate dalla società, che potevano sopravvivere soltanto grazie a gesti di occasionale compassione da parte degli altri.

Nel vangelo di oggi, Gesù non si limita a parlare ai due ciechi, li tocca per raggiungere in profondità la loro sofferenza e restituire loro la dignità di persone. Compie un atto ben preciso. Nell’Enciclica Deus caritas est, alla quale ci siamo tanto sovente richiamati in questa settimana, il Santo Padre attira la nostra attenzione sul fatto che, di fronte ad una persona nel bisogno, il primo atto di carità consiste nel rispondere alle necessità immediate: « Secondo il modello offerto dalla parabola del buon Samaritano, la carità cristiana è dapprima semplicemente la risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata: gli affamati devono essere saziati, i nudi vestiti, i malati curati in vista della guarigione, i carcerati visitati, ecc.» (n.31a). Quanto sublime è stata la testimonianza della Chiesa, nel corso dei secoli, nell’offrire un sostegno immediato e senza discriminazioni a tutti coloro che versavano in qualunque condizione di necessità! Cari fratelli e sorelle, l’Europa deve affrontare, oggi, un gran numero di situazioni di miseria e di sofferenza. Anche in questo Continente, tanto prospero, vi sono persone che hanno fame, non hanno una casa o un lavoro. Nascono nuove forme di povertà, come ad esempio quelle provocate dall’abbandono dei più deboli – le persone anziane, gli handicappati, i bambini che devono ancora nascere –, ma la povertà più tragica in Europa è il rifiuto e l’esclusione totale di Dio dalla vita sociale ed economica, la rivolta contro le leggi divine e contro quelle della natura, a beneficio della creazione di nuove leggi, nonché di una nuova etica mondiale sulla sessualità, la famiglia e la Vita. Voi stessi, insieme agli organismi caritativi che rappresentate, appartenete alla storia della testimonianza di una tale sollecitudine da parte della Chiesa. E la Chiesa desidera ringraziarvi per il vostro impegno!

Eppure, come Gesù, non possiamo limitarci a rispondere ai bisogni dettati dalle primarie necessità, fossero esse materiali o fisiche. E’ vero, Cristo guarisce i malati, nutre gli affamati, rende la vista ai ciechi e fa udire i sordi. Nel capitolo 9 di Matteo, guarisce un paralitico, restituisce la vita ad una fanciulla, guarisce una donna che soffriva di emorragia e cura un muto indemoniato. Nella persona di Cristo trovano pieno compimento le parole del profeta Isaia, che abbiamo sentito durante la prima lettura.

« Certo, ancora un po’, e il Libano si cambierà in un frutteto
e il frutteto sarà considerato una selva.
Udranno in quel giorno i sordi le parole di un libro; liberati dall'oscurità e dalle tenebre,gli occhi dei ciechi vedranno.
Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore,i più poveri gioiranno nel Santo di Israele» (Is 29,17-19).

Per mezzo di tali atti di guarigione, Gesù è venuto a manifestarci la bontà del Padre che lo ha mandato e conduce chi soffre alla gioia di conoscere il Signore, che libera l’umanità dal motivo di qualunque tristezza e dalle tenebre, ovvero dal Male e dal Maligno.

Lo stesso Apostolo dei Gentili lo aveva imparato a sue spese. Era infatti diventato cieco sulla via di Damasco e avrebbe poi scritto: «E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6). In altre parole, la più profonda cecità nell’uomo consiste nel non conoscere Dio, la salvezza è un’illuminazione, la venuta della luce. La salvezza comincia quando Dio fa brillare la luce nelle tenebre e ciò avviene sovente in occasione di gesti di carità: anche se donassimo ai poveri tutti i nostri beni materiali, ma Dio non rifulgesse nel nostro cuore, li abbandoneremmo alla loro cecità e alle loro tenebre. Il Santo Padre lo esprime in questi termini: «Se non diamo Dio, non diamo abbastanza». In nome della vostra fede cattolica e nel nome di Gesù, invito urgentemente voi organizzazioni caritative a portare a tutti i poveri del mondo – e l’Europa ne fa parte integrante – sia i beni materiali sia il Dio di Gesù Cristo, che è il nostro Bene Supremo.

Non è un caso se questa nostra settimana di Esercizi dedicati alla “formazione del cuore” si conclude con la festa di san Francesco Saverio, patrono delle Missioni. Mentre si preparava al sacerdozio, questo giovane, che era stato un borghese spagnolo, ha compreso che la fonte di un’esistenza missionaria straordinaria, che lo avrebbe portato in India, Malesia e Giappone, non poteva essere altro che un rapporto personale con Gesù. Era pertanto necessario incontrarlo, toccarlo e contemplarlo. Ecco come si è preparato, con lunghe ore di preghiera e di intimità con Gesù, in una comunione di cuore che lo ha trasformato completamente e profondamente! Il missionario è colui che si è rivestito di Cristo, al punto che chiunque incontri il missionario o l’inviato trova Cristo stesso. Il missionario, sacerdote o laico, non è soltanto un alter Christus, quanto ipse Christus, Cristo stesso, presenza visibile di Cristo. Come cristiani, siamo la presenza tangibile di Gesù sulla terra, siamo i suoi occhi e le sue orecchie per guardare ed ascoltare con amore i nostri fratelli e le nostre sorelle; siamo le sue mani, i suoi piedi e la sua bocca per recare agli uomini l’Amore di Dio che si è rivelato in Gesù Cristo. Sì, siamo Gesù Cristo in terra, come dice san Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Ga 2,20).

Due mesi fa, in occasione della mia ultima missione al servizio della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, dove sono stato Segretario per circa dieci anni, mi trovavo a Goa, città nella quale riposa il corpo intatto di san Francesco Saverio e ho avuto il privilegio di poter pregare davanti alla cassa dove si trovano le sue spoglie. Ripensare alla missione di questo santo in quella piccola regione indiana ha qualcosa di commovente: sebbene fosse il legato del Santo Padre, appena giunto in India nel 1542, si è messo immediatamente, semplicemente ed umilmente a servizio del vescovo locale, in quanto riconosceva in lui la presenza visibile di Cristo. E in questo ecco anche un messaggio per noi: per quanto le nostre intenzioni siano nobili e piene di zelo, il lavoro caritativo che svolgiamo è l’opus proprium della Chiesa, della cui identità e fulgore è garante il Vescovo. Quando hanno proposto a san Francesco Saverio di prendere alloggio nel palazzo vescovile, egli ha preferito condividere la condizione dei sofferenti e ha trovato una sistemazione sommaria presso l’ospizio dei malati. Soleva trascorrere la domenica in visita ai lebbrosi, ai prigionieri e ai poveri dei villaggi. Ha creato una scuola di formazione per i cristiani, di cui diceva: «Si tratta dell’iniziativa più necessaria ed indispensabile. Da questa casa, usciranno persone che, se Dio vuole, faranno aumentare il numero dei cristiani».

Cari fratelli e sorelle, stiamo per lasciare questo magnifico santuario di Nostra Signora di Jasna Góra. «Da questa casa, usciranno persone che, se Dio vuole, faranno aumentare il numero dei cristiani»: che queste parole possano risuonare nel nostro cuore. Alla fine del capitolo 9 del vangelo di Matteo, in cui incontriamo i due ciechi e tantissime altre persone che soffrono, l’evangelista sottolinea che, vedendo le folle Gesù «ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite» (v. 36). Allora esortava i discepoli dicendo: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!» (vv. 37-38).

Da Czestochowa, il Maestro ci manda lontano, come missionari dell’amore di Dio. La testimonianza di una vita cristiana è forma prima ed insostituibile della missione. L’Europa secolarizzata di oggi, che si organizza e vive come se Dio non esistesse, sarà molto sensibile alla testimonianza evangelica della sollecitudine verso le persone, verrà toccata dalla carità testimoniata ai poveri, ai deboli e a quanti soffrono. Infatti, è in queste circostanze che amare come Gesù, Buon Samaritano per eccellenza, ovvero senza limiti e fino in fondo, consente di illuminare quanti non vedono la bontà di Dio, in modo che, grazie alla nostra testimonianza, possano fare proprie le parole del salmo di oggi: «Il Signore è mia luce e mia salvezza».

Ci auguravamo che, durante questa settimana, il nostro cuore venisse formato dalla Parola di Dio e venisse rinnovato dal suo amore, in modo da consentirci, a nostra volta, di offrire quello stesso amore a coloro che soffrono e si trovano nel bisogno. Abbiamo deciso di partecipare a questi Esercizi, magnificamente animati e diretti da Madre Teresa Brenninkmeijer, in risposta all’insegnamento del Santo Padre, che ci ricorda che la salvezza delle persone, così come quella dell’umanità tutta intera, ha bisogno di cristiani in ricerca, essi stessi, del Dio che salva. Ecco perché abbiamo tanti buoni motivi per ringraziare il Signore, Madre Teresa Brenninkmeijer e la sua comunità. Desideriamo anche esprimere di cuore la nostra gratitudine al nostro fratello, Monsignor Anthony Figueiredo, che è stato l’anima e la guida piena di saggezza di questo incontro spirituale, nel corso di questa liturgia di ringraziamento che è l’Eucaristia, Sacramentum caritatis. Vi affido ora alla Parola di Dio e alla potenza della sua grazia. Amen.


 

 

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