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S.E. Mons. Juan Ignacio Arrieta Ochoa de Chinchetru                      
Segretario,                                                                         
Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi 

2 dicembre 2012

TRA RESPONSABILITà  E SERVIZIO
L’espressione canonica del servizio della Carità
(Commento alla Lettera Apostolica in forma di "Motu Proprio"
Intima Ecclesi
æ natura, dell'11 novembre 2012)



Il richiamo alle espressioni concrete di carità verso i bisognosi come esigenza pratica della fede cristiana, e al fatto che questo rappresenti uno dei compiti “strutturali” della propria Chiesa, è argomento ricorrente nel Magistero di Benedetto XVI. In più occasioni, il Papa si è soffermato sull’esperienza delle prime comunità cristiane, che, fin dai tempi apostolici, stabilirono uno specifico ministero ecclesiastico – l’ordine dei diaconi – quale canale istituzionale di assistenza per poveri e indigenti, e avviarono a larga scala la raccolta di elemosine in ausilio delle Chiese in necessità.

Dopo sette anni di Pontificato, sulla scia di questo costante Magistero del Papa, è più facile da capire perché nella sua prima Lettera Enciclica, Deus caritas est, ricordando gli sforzi anche organizzativi che ha destinato la Chiesa al servizio della carità in ogni tempo, Benedetto XVI rilevasse come nella disciplina del vigente Codex iuris canonici (Cic) mancava invece un’adeguata menzione dell’impegno che a tale riguardo assumono i Vescovi, quali Pastori a guida delle rispettive comunità ecclesiali (cfr. n. 32). Probabilmente tale compito è compreso nel mandato generale affidato che fa al Vescovo il can. 394 § 1 Cic (analogo al can. 203 § 1 del Codex canonum ecclesiarum orientalium [Cceo]), di favorire, curare e coordinare nella propria diocesi “omnia apostolatus opera”; ma indubbiamente, un riferimento solo implicito fatto in questo modo appariva insufficiente per tradurre nelle formalità giuridiche della Chiesa uno dei tre compiti che, come il Papa afferma, esprimono adeguatamente la sua intima natura (proemio).

E’ stato proprio questo richiamo del Pontefice ad avviare una riflessione che ha portato adesso alla promulgazione del Motu Proprio Intima Ecclesiæ natura, dell’11 novembre 2012. Se il servizio della carità è, infatti, un’espressione della natura della Chiesa, l’attività che lo riguarda deve necessariamente configurare nella società ecclesiale posizioni di responsabilità, alcune di esse – in particolare, quella del Vescovo, significata dal Papa – derivate dalla struttura sacramentale della Chiesa.

Consapevole del problema, il Pontificio Consiglio Cor Unum sollecitò nel 2008 il Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi ad approfondire in sede canonistica la questione sollevata dal Pontefice, e venne costituito un “Gruppo di studio” composto da esperti canonisti e officiali di vari Dicasteri. La commissione esplorò l’intera tematica per circa un anno, cercando di identificare le posizioni soggettive che appaiono delineate in questo tipo di attività e gli interessi che l’ordinamento della Chiesa è tenuto a proteggere, avendo conto dell’esperienza maturata nel settore durante gli ultimi decenni.

Una prima bozza di documento, preparata alla fine di questi lavori, venne inviata a diversi organismi consultivi, e ad alcune delle Conferenze Episcopali più attive nel settore. Sulla base di tali osservazioni, si preparò poi una seconda bozza, nuovamente esaminata dalle istanze consultive, che si riflette sostanzialmente nel testo che il Papa ha promulgato adesso.

Il proemio del Motu Proprio dà ragione dei fondamenti dottrinali e dei propositi disciplinari che la norma persegue: “Esprimere adeguatamente nell’ordinamento canonico l’essenzialità del servizio della Carità nella Chiesa ed il suo rapporto costitutivo con il ministero episcopale tratteggiando i profili giuridici che tale servizio comporta nella Chiesa, soprattutto se esercitato in maniera organizzata e col sostegno esplicito dei Pastori” (proemio).

La norma intende fornire “un quadro normativo organico” e diversificato per ordinare in modo essenziale “le diverse forme ecclesiali organizzate del servizio della carità” (proemio), nel quadro della disciplina canonica in vigore. Di conseguenza, una parte delle norme di questo Motu Proprio risponde semplicemente alla disciplina associativa e delle fondazioni autonome ormai presente nel Cic e nel Cceo. Tali disposizioni comuni sono adesso riformulate, assieme ad altre determinazioni provenienti dall’esperienza giuridica e pastorale maturata negli anni, e presentate con una certa organicità per riferimento alle forme ecclesiali organizzate di servizio alla carità.

Quali siano queste “forme organizzate del servizio della carità” tenute ad osservare le presenti disposizioni è indicato nell’articolo 1 del Motu Proprio. Si tratta delle entità associative e delle fondazioni autonome in qualche maniera “collegate al servizio di carità dei Pastori della Chiesa” e/o che intendano avvalersi del contributo dei fedeli per realizzare i propri fini. L’enunziato normativo probabilmente avrà bisogno d’essere limato nel confronto dottrinale, e risponde a un primo tentativo di identificare un’intera “categoria” di enti che, se intendono agire nel modo determinato dall’articolo 1, per esigenze di giustizia sono tenuti a seguire la disciplina proposta. Tra di essi sono anche comprese, in modo necessario, le entità e fondazioni promosse dagli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica.

Almeno tre grandi gruppi di espressioni organizzate del servizio della carità sono individuati dal proemio e regolati poi in maniera differente nel testo. Si parte, dunque, dalla premessa che a ciascuno dei tipi occorra riconoscere l’autonomia di gestione adeguata alla rispettiva natura, anche per evitare di sostituire indebitamente la responsabilità che in queste iniziative assumono in piena libertà i fedeli cristiani.

Anzitutto, un primo tipo specifico riguarda la Caritas. La norma prende atto dei tratti istituzionali che, ormai in tutto il mondo, hanno assunto i diversi organismi della Caritas come attività promosse in maniera corporativa dalla gerarchia della Chiesa a livello  nazionale, diocesano e di parrocchia, ma anche sul piano internazionale, attraverso Caritas Internationalis e le sue varie ramificazioni per continenti. L’attività della Caritas possiede particolari connotati ed è adeguatamente regolata ai vari livelli dalla rispettiva autorità ecclesiastica. Di conseguenza, il presente Motu Proprio, non contiene particolari riferimenti alla Caritas, tranne quello, molto concreto, dell’articolo 9, che chiede al Vescovo (e anche al parroco) di favorire la coesistenza delle sue attività con altre promosse dall’iniziativa dei fedeli.

Un secondo, variatissimo gruppo di espressioni organizzative di servizio alla carità che individuano le norme corrisponde a quelle provenienti, appunto, dalla spontanea iniziativa dei fedeli, che intendono liberamente configurarsi come espressioni concrete d’impegno ecclesiale, alle quali si aggiungono quelle sorte dal lavoro di Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica (art. 1). Le prime iniziative sono collegate al ministero di carità affidato ai Pastori per libera scelta dei fedeli (anche se ugualmente legittimo risulta non esprimere formalmente tale collegamento e agire autonomamente nel quadro della legislazione civile); nelle seconde il collegamento è necessaria esigenza della condizione ecclesiale degli Istituti e Società. In ogni caso, il legame ecclesiale con i Pastori deve essere contemperato con un’autonomia proporzionata alle caratteristichedell’iniziativa.

Infine, una terza categoria tratteggiata nel proemio e nelle norme dispositive corrisponde, alle restanti iniziative di carità promosse nei vari luoghi dalla rispettiva autorità gerarchica, per canalizzare la carità dei fedeli e per raggiungere obiettivi di assistenza forse non sufficientemente coperti da altre iniziative. Questo tipo di opere, solitamente diverse dalle Caritas locali, possedono generalmente uno specifico quadro giuridico, adeguato ad assicurare l’ecclesialità dell’iniziativa.

Le esperienze riconducibili a queste categorie sono, com’è evidente, assai ricche e certamente eterogenee, risultando assai problematico il tentativo di classificarle in modo più definito. Dal punto di vista legislativo, d’altronde, tale pretesa avrebbe scarso interesse, perché questo settore appartiene principalmente alla spontanea liberalità di chi a titolo gratuito intende praticare la virtù della carità, e, di conseguenza, muove in ambiti giuridici di libertà (conditio libertatis). Detto connotato impone il bisogno di limitare al massimo gli interventi normativi e la necessità di ribadire che per i fedeli risulta ugualmente legittimo agire autonomamente, nel quadro della legislazione civile. Tuttavia, dal momento in cui iniziative del genere sono promosse, o esplicitamente sostenute, dall’autorità gerarchica, o risultino legittimate dall’ordinamento canonico come espressioni delle proprie entità, i doveri e le responsabilità in esse generati devono essere delineati in maniera sufficiente nell’ordinamento canonico.

Anzitutto, c'è la responsabilità di chi è messo a capo della comunità cristiana. La responsabilità del Vescovo in ambito di servizio di carità proviene, come ha segnalato il Papa, dalla natura e dai compiti della Chiesa stessa: configura un “ministero” che spetta al Pastore diocesano come esigenza della propria struttura della Chiesa e che adesso viene “determinato” dal Legislatore in alcune concrete manifestazioni di dovere e di diritto. Al Vescovo tocca, nella sua Chiesa locale, il compito di convogliare l’adeguato sviluppo di questo compito ecclesiale, e il dovere di garantire che le varie iniziative poste sotto la sua sorveglianza raggiungano lo scopo loro affidato.

La maggior parte delle norme del Motu Proprio si rivolgono, perciò, al Vescovo diocesano, cercando di delineare responsabilità e strumenti per adempierla. In tale senso, mentre la maggioranza delle norme riguardano tutti i Vescovi dioceseani o equiparati nella rispettiva diocesi, alcune altre vanno concretamente rivolte al Vescovo diocesano o, più in generale, all’autorità ecclesiastica (Conferenza episcopale o anche Santa Sede) da cui direttamente dipenda l’organizzazione in funzione dell’ambito (diocesano, nazionale, internazionale) per il quale siano state istituite, secondo i canoni 312 Cic e 575 Cceo.

L’articolo 4, per esempio, ricorda al Vescovo il dovere di farsi “promotore” in diocesi di queste attività, e il correlativo “dovere di vigilanza” che gli spetta, mentre l’articolo 6, in collegamento con i canoni 394 § 1 Cic e 203 § 1 Cceo, segnala il suo compito di coordinamento nel settore, nel rispetto sempre dell’identità delle singole iniziative. L’articolo 5 richiama l’impegno del Pastore per promuovere nella società civile spazi di libertà che consentano l’attuazione di queste iniziative, e perché sia osservata la legislazione di Stato. L’articolo 10 ribadisce i doveri di vigilanza del Vescovo sui beni ecclesiastici di queste organizzazioni, e il successivo articolo 11 il suo dovere di adottare misure disciplinari per fare osservare la disciplina in materia. I seguenti articoli 12 e 14 si occupano, rispettivamente, del suo compito di promuovere iniziative congiunte con organismi di altre diocesi e anche la cooperazione di carattere ecumenico.

Nel delineare i doveri di vigilanza del Vescovo diocesano la norma ha voluto soffermarsi su alcuni particolari aspetti, corrispondendo a esigenze di giustizia che vanno necessariamente protette: anzitutto quella di rassicurare la comunità sull’adeguata destinazione delle elemosine (artt. 4 § 3, 10 § 2). Così l’articolo 9 § 3 ricorda il suo dovere di vigilanza (e anche quello del parroco) perché i fedeli non siano indotti in errore o in malintesi in occasione di questue pubblicizzate in ambiente ecclesiastico; l’articolo 10 § 2 menziona il dovere di evitare che questi organismi ricevano finanziamenti che possano condizionare la piena identità cristiana delle loro opere. In ogni caso, il Motu Proprio ricorda al Vescovo il dovere di moderare, se fosse necessario, l’esercizio dei diritti riconosciuti ai fedeli onde evitare una eccessiva proliferazione di iniziative in questo ambito, che possa disperdere le forze, portando a un detrimento dell’operatività e dell'efficacia che si propongono (art. 2 § 4).

Una norma particolare, quella dell’articolo 13, riguarda il Vescovo ad quem, quello del luogo dove vengano realizzate le opere di carità promosse da organizzazioni che dipendono da altre autorità. La norma ricorda la responsabilità del Vescovo nei confronti della comunità assegnatagli e, quindi, il diritto che gli compete di conferire l’assenso all’attuazione delle iniziative, nonché il compito di vegliare perché vengano in tutto rispettate la disciplina e la dottrina della Chiesa, rammentando, infine, il dovere di vietarle e di adottare, quando il caso lo richieda, i provvedimenti punitivi che l’ordinamento canonico concede all’Ordinario diocesano.

Per rendere possibile il controllo, il Motu Proprio impone alle entità qui contemplate determinate esigenze. Anzitutto, l’approvazione dei propri Statuti,  da parte della competente autorità ecclesiastica da cui dipendano in ogni caso (artt. 1 § 1, 3 § 1), con la descrizione in essi delle proprie finalità e delle caratteristiche identitarie (art. 2). Queste entità devono poi sottoporre all’autorità da cui dipendono un rendiconto annuale della propria attività (art. 10 § 5).

Nel caso delle iniziative promosse spontaneamente dai fedeli, la formale richiesta diapprovazione degli Statuti all’autorità indicata nei canoni 312 Cic e 575 Cceo rappresenta la libera accettazione del regime giuridico specifico stabilito nell’ordinamento canonico per questo tipo di attività. Nella disciplina latina, ciò non necessariamente pregiudica la natura pubblica o privata dell’entità richiedente, come si evince dal can. 322 §2 Cic, né la sua personalità giuridica canonica; è soltanto un’esigenza posta dall’ordinamento alle iniziative che operano nel settore, allo scopo di proteggere adeguatamente gli interessi in gioco.

Le entità sottoposte al Motu Proprio sono tenute a osservare, inoltre, determinati parametri suggeriti dalla prudenza e dalla dottrina cattolica. L’articolo 7 si trattiene, per esempio, sui criteri di selezione degli operatori e degli agenti di queste organizzazioni, e sulla necessità che siano in grado di saper esprimere un senso di fede nella loro attività, il che richiede a monte il dovere di curare la loro formazione. Nella stessa linea,  l’articolo 10 § 4 segnala concreti parametri per contenere le “spese di gestione” in queste attività, dando così un chiaro segno dello spirito che le vivifica.

Come si vede, la norma presta speciale attenzione ad assicurare l’identità e la coerenza cristiana dell’intera attività di queste iniziative e investe il Vescovo del ruolo di vigilanza. Non è stata, perciò, una svista  che due diversi articoli cerchino di preservare queste entità dal rischio di vedersi “condizionate”, nelle loro attività, per aver accettato finanziamenti che imponevano esigenze di attuazione non compatibili con la dottrina della Chiesa. A tale proposito, l’articolo 1 § 3 segnala il dovere di respingere tali finanziamenti, e poi l’articolo 10 § 3 impone al Vescovo il dovere di vigilanza per impedire forme di strumentalizzazione o “millantamento” da parte di istituzioni in contrasto con la dottrina della Chiesa.

Nell’attribuire competenze in questo settore, al Pontificio Consiglio Cor Unum, come d’altronde era necessario, il presente Motu Proprio determina variazioni significative della cost. ap. Pastor Bonus. L’articolo 15 affida al Dicastero il compito di assicurare l’osservanza della norma e, ancora più in generale, di curare che le istituzioni cattoliche di carità che agiscono in ambito internazionale svolgano il loro compito in comunione con le Chiese del luogo. Tutto ciò appare in perfetta armonia con le attribuzioni recentemente date al Dicastero nei confronti di Caritas Internationalis.

Si tratta, in effetti, di provvedimenti che hanno modificato il profilo di questo Pontificio Consiglio, poiché, oltre alle funzioni di promozione delle attività di carità o di gestione di determinati fondi assistenziali, dovrà adesso realizzare atti esecutivi di governo (can. 129 Cic), analogamente a come agisce, per esempio, il Pontificio Consiglio per i Laici nei riguardi delle associazioni cattoliche di ambito internazionale (art. 133 Pastor Bonus). Infatti a Cor Unum spetteranno adesso “l’erezione canonica di organismi di servizio di carità a livello internazionale” (art. 15) e i susseguenti compiti di controllo disciplinare su queste organizzazioni, sempre nel rispetto delle competenze assegnate ad altri Dicasteri della Curia Romana.
 

L'OSSERVATORE ROMANO, domenica 2 dicembre 2012, p. 9.

 

 

 

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