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La Curia Romana  
 

 

 
 

Mons. Giampietro Dal Toso                      
Segretario,                                                                         
Pontificio Consiglio Cor Unum 


INDICAZIONI PRATICHE PER L'APPLICAZIONE DEl motu proprio INTIMA ECCLESIÆ NATURA

(Trieste 5 novembre 2013)



1. Introduzione: perché questo documento?
Prima di me il prof. Pree ha dato una spiegazione canonica del testo del Motu Proprio. Da parte mia, desidero spendere una parola sulle motivazioni che hanno spinto Benedetto XVI a questa legislazione, e poi prevedere alcune applicazioni pratiche, come stiamo provvedendo in questo primo anno dall’entrata in vigore.
Quali sono i motivi che hanno condotto al Motu Proprio? In primo luogo è stato lo stesso Benedetto XVI a rilevare una lacuna nel diritto canonico, come è stato indicato dal cardinale Sarah nel suo discorso di ieri. Mentre per la catechesi e la liturgia la legislazione canonica prevede in maniera dettagliata quali siano le responsabilità del vescovo, non è così per il servizio della carità. E tuttavia nel corso degli ultimi decenni tale legislazione si rendeva sempre più necessaria per la situazione che si è creata in molti organismi di carità cattolici. Da un punto di vista generale, la ragione profonda sta nel cambiamento che ha avuto luogo negli organismi di carità cattolici, nella loro identità e nella loro azione, un cambiamento che li ha condotti piuttosto ai margini della vita ecclesiale. Questo fenomeno, che assume contorni diversi nei singoli paesi europei, ha diversi motivi:

- Una comprensione dell’aiuto e dello sviluppo sempre più secolarizzata, e ciò ovviamente nel contesto di una cultura che emargina la questione di Dio. Questo ha delle conseguenze pratiche sul tipo di sviluppo da perseguire e sul ruolo che la Chiesa, e più in genere il fatto religioso, svolgono per l’uomo.
- Una progressiva diminuzione del personale religioso all’interno degli organismi di carità, data la decrescita delle vocazioni sacerdotali e religiose e il reale problema, in alcuni settori, della cura della vita interiore di sacerdoti e religiosi; ovviamente non si vuole dire che la presenza dei laici sia di per sé un fatto negativo, anzi, in certi ambiti amministrativi è meglio che siano dei laici a lavorare; ma la diminuzione del personale religioso ha sbiadito la percezione che un organismo è cattolico e nell’assunzione del personale spesso si è privilegiato l’aspetto professionale – più facilmente identificabile – rispetto all’aspetto propriamente religioso e spirituale.
- Una forte crescita della dipendenza finanziaria da enti pubblici, che in alcuni casi supera di molto il 50 %. Da un punto di vista psicologico, questo ha indotto a pensare che il vero riferimento dell’organismo, benché cattolico, non sia tanto la Chiesa, ma lo Stato che fornisce i mezzi finanziari. Da un punto di vista amministrativo, questo ha indotto a doversi riferire sempre più a criteri “pubblici” che a criteri ecclesiali, e questo si applicato nei diversi ambiti, a partire dai progetti realizzati o finanziati, fino al personale da assumere.
- Per gli organismi che operano anche nell’ambito dell’advocacy – e sono la maggioranza tra gli europei – non va sottaciuto un orientamento ideale che attinge più alla filosofia delle Nazioni Unite che non al magistero della Chiesa, come si evince facilmente dai documenti pubblicati a proposito di varie questioni internazionali. L’esperienza inoltre insegna che molto spesso gli organismi di carità, che per loro natura sono come un ponte tra Chiesa e società, sono stati in realtà la porta d’accesso attraverso cui queste filosofie hanno trovato adito e riconoscimento dentro la Chiesa, pur presentando seri problemi.
- La convinzione da parte di alcune conferenze episcopali che l’attività di carità è un’attività sociale svolta da laici competenti, per i quali non c’è bisogno di attenzione particolare.

Questa serie di motivazioni, che probabilmente non è esaustiva, ha dato adito a dei fenomeni a volte allarmanti. Nessuno vuole e può rinunciare all’apporto degli organismi di carità alla vita della Chiesa; ma proprio per questo dobbiamo essere chiari nell’identificare le lacune e cercare di sfruttare a pieno le potenzialità che risiedono nella pastorale della carità, che resta una – e forse la più importante carta di presentazione e di credibilità della Chiesa cattolica. Molti che non frequentano la Chiesa la conoscono tuttavia attraverso gli organismi di carità. Sappiamo che per qualcuno proprio questa è stata la strada per convertirsi alla fede. Tutto ciò ha fatto sì che Benedetto XVI intervenisse in maniera organica e precisa in questo settore, affidando al nostro Dicastero l’applicazione di questi suoi orientamenti.


2. Alcune riflessioni pratica sull’applicazione del Motu Proprio
Una delle difficoltà di fronte alle quali ci siamo trovati è stata quella che i Vescovi in diversi casi non hanno saputo individuare gli ambiti concreti in cui realizzare il Motu Proprio. Quanto dico ora non può esaurire tutte le indicazioni del documento, ma vuole focalizzare alcuni elementi importanti. E’ chiaro che, anche in Europa, le situazioni nei diversi paesi sono realmente diverse. Molto spesso il servizio di carità è nato in maniera spontanea e dunque ha avuto come conseguenza una impostazione strutturale e giuridica specifica dei rispettivi organismi a seconda dei paesi. Non posso diffondermi sulla diversa configurazione, anche canonica, che i diversi organismi hanno assunto a seconda della propria tradizione. Ma vi sono alcuni punti comuni, sui quali la legislazione ha voluto intervenire, pur restando per certi versi molto generica. Il nostro Dicastero sta intervenendo su due fronti: da una parte sensibilizzando gli organismi di carità sulla nuova normativa, dall’altra informando i Vescovi, ma soprattutto richiamandoli alla loro responsabilità di pastori nel servizio della carità. A questo proposito, a seguito della pubblicazione del documento, il nostro dicastero ha inviato a tutte le conferenze episcopali una lettera chiedendo di informare circa le modalità in cui le rispettive conferenze hanno affrontato il tema. Dalle risposte pervenute sembra che una discussione in proposito abbia avuto luogo in molte, forse in tutte le conferenze. In alcune ha condotto anche a dei cambiamenti in ordine alla conduzione della propria Caritas nazionale. Altre conferenze sono in fase di riflessione circa l’applicazione, soprattutto in ambiti delicati come il finanziamento. Per altre conferenze il Motu Proprio è stata l’occasione di rivedere completamente la gestione del proprio organismo di carità in quanto finalmente hanno in mano uno strumento giuridico per intervenire in maniera chiara e precisa.
Questa è la prima considerazione che vi sottopongo. Si è voluto offrire tramite il Motu Proprio uno strumento ai vescovi per impostare in maniera nuova il servizio della carità nel proprio ambito di competenza, o per correggere delle situazioni che non erano in linea con il magistero della Chiesa. Quindi mi permetto di invitarvi a intravedere nel testo normativo, prima che una legge, una opportunità per riflettere ed intervenire in ordine ad alcune questioni fondamentali nei vostri organismi di carità, qualora si fosse la necessità di cambiare alcuni elementi o di dare un nuovo taglio alla pastorale della carità.
Prima di entrare negli aspetti specifici vorrei presentare un’altra riflessione: mi sembra importante non omologare il servizio della carità alla Caritas. E’ chiaro che la Caritas nei singoli paesi ha un ruolo privilegiato. Qualche mese prima del Motu Proprio è stata pubblicata una nuova normativa riguardante Caritas Internationalis, normativa resasi necessaria perché la Confederazione ritrovassi pienamente la sua appartenenza ecclesiale. In quel contesto, Caritas viene definita come lo strumento del vescovo per la pastorale della carità. La Caritas rappresenta dunque la forma istituzionale della Chiesa, più precisamente del Vescovo, nell’esercizio del ministero della carità. Ma grazie a Dio, nella Chiesa sono sorte moltissime iniziative di carità, che vanno sostenute nella loro specificità e non omologate ad un unico modello. Esse nascono spesso dall’iniziativa dei laici e sono un segno della vivacità dello Spirito santo. Credo che sia importante nelle singole diocesi e nazioni tenere viva questa molteplicità. Anche il Motu Proprio riflette questa preoccupazione. Ora qualche elemento specifico.

1. Un ripensamento profondo circa il ruolo del vescovo, rispettivamente della conferenza episcopale. Il primo scopo della legislazione ì richiamare i vescovi alla loro responsabilità. Il primo invito che farei è di non lasciare che gli organismi di carità vivano la loro vita propria, pensando che comunque le cose funzionano in qualche modo. Uno dei problemi fondamentali che ci troviamo ad affrontare – a volte purtroppo quando è troppo tardi – è che gli organismi cattolici vivano di fatto non dentro la Chiesa, ma accanto ad essa, senza sentirsi parte di essa, ma piuttosto come loro partner. I vescovi diventano in questo caso un’istanza con cui confrontarsi, ma non dei riferimenti cui adeguarsi. In particolare poi, la missione della Chiesa in quanto tale viene vista piuttosto come un elemento a sé, forse addirittura di disturbo, piuttosto che un orientamento nel quale situarsi. Potete farvi voi stessi la domanda o porla ai vostri organismi di carità, come si situino rispetto alla missione della Chiesa in quanto tale di portare Cristo al mondo.

2. Una domanda fondamentale che il Motu Proprio suggerisce e per quale eventualmente offre delle risposte è la seguente: come si pongono i vescovi nei riguardi dei tanti organismi nati allo spirito cattolico del loro iniziatore, ma che nel frattempo, per diverse ragioni, hanno offuscato o perso il loro legame con la Chiesa? E’ una domanda molto concreta. Un esempio da fuori Europa: negli Stati Uniti grazie al Motu Proprio molte fondazioni si sono poste esattamente questa domanda: dopo essere nate in ambito ecclesiale, come ci situiamo oggi di fronte alla nostra appartenenza ecclesiale o come viviamo il nostro rapporto con i vescovi delle diocesi in cui siamo operanti? Lo stesso lo possiamo vedere in molti paesi europei, che hanno una forte radice cattolica dove il tessuto sociale è imbevuto tradizionalmente di valori cristiani: in essi si sono originate diverse iniziative di carità cattoliche, che però con il tempo hanno perso la loro matrice ecclesiale, pur sentendosi in qualche modo debitrici della tradizione cattolica. Rispetto ad essi, il Motu Proprio dà ai vescovi la possibilità di recuperarli alla loro appartenenza ecclesiale. Certo, prima i vescovi devono prendere una decisione: quando ci interessa mantenere nel solco ecclesiale tutte queste iniziative? Ma se l’interesse c’è, il Motu Proprio vi offre ora gli strumenti per mettere in atto tale decisione e di provvedere a quei meccanismi che vi permettano di agganciare alla pastorale di carità della Chiesa le tante iniziative che in passato da essa sono nate. Può invece benissimo darsi la situazione in cui i Vescovi decidano che è meglio lasciare che questi organismi prendano la loro strada, indipendentemente dalla loro originaria appartenenza ecclesiale. In ogni caso, è bene che si chieda agli organismi che si riconoscono in una identità ecclesiale che provvedano a degli statuti, anche minimi, in cui si salvaguardi questa appartenenza ecclesiale, individuando anche dei meccanismi o degli strumenti giuridici mediante cui il vescovo esercita la sua autorità.

3. Un’altra questione rilevante è la formazione degli operatori, menzionata nell’art. 7 del Motu Proprio. E’ chiaro che non possiamo mettere in concorrenza il criterio della preparazione professionale e quello dell’atteggiamento personale di fede. Ma tutti e due vanno considerati e tutti e due vanno formati. La formazione spirituale degli operatori della pastorale della carità è importante in primo luogo per loro stessi. Infatti molti, che solo blandamente si sentono legati alla Chiesa, sono invece ben disposti a fare qualcosa per gli altri, impegnandosi nei nostri organismi di carità. Dunque è una grande opportunità avvicinarli alla fede tramite il servizio che svolgono. Abbiamo in questo senso dei begli esempi, soprattutto nella pastorale giovanile, ma mi permetto di incoraggiare i vescovi in questo senso ad esplicitare nei riguardi dei nostri operatori il messaggio della fede come la vera ragione della nostra azione di carità. Inoltre questo ha una ricaduta su chi usa i nostri servizi di carità, che ha bisogno di incontrare dei testimoni, e non solo degli operatori. Nella introduzione teologica al Motu Proprio, Benedetto XVI scrive che: “l’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. Pertanto nell’attività caritativa, le tante organizzazioni cattoliche non devono limitarsi ad una mera raccolta o distribuzione dei fondi, ma devono sempre avere una speciale attenzione per la persona che è nel bisogno”. Lasciatemi dire che non insistiamo mai abbastanza su questo approccio personale e dunque su questa testimonianza personale, che è la vera, grande opportunità pastorale del servizio di carità. L’esempio di grandi santi, come al giorno d’oggi lo è stata Madre Teresa, dice esattamente che la testimonianza di carità è ciò che più convince della verità del vangelo. Dunque si tratta per i vescovi di individuare quei percorsi di formazione umana, professionale e spirituale, che consentano questa testimonianza personale del vangelo.

4. Legato a questa dimensione, devo menzionare un aspetto che resta ancora molto in ombra. Il Motu Proprio insiste sulla funzione pedagogica degli organismi di carità. Questa è un’indicazione pastorale particolarmente forte. Di fatto in molti paesi, anche europei, regna una visione piuttosto funzionale dell’organismo di carità. Esso esiste in funzione della realizzazione di progetti di promozione umana e – da alcuni anni sempre più – come strumento per intervenire nel dibattito pubblico su temi socialmente rilevanti, sia in ambiti nazionale che in ambito internazionale. Questo è il modello vigente forse nella maggior parte dei nostri paesi. Questa è anche la ragione più semplice in base alla quale alcuni organismi di carità si intendono come istituzione vicina alla Chiesa, ma non nella Chiesa. Il loro compito sarebbe infatti quello di portare a termine precise iniziative benefiche o di realizzare una certa denuncia sociale. Il Motu Proprio chiede invece agli organismi di sentirsi dentro la Chiesa per essere animatori delle comunità cristiane. Quando Benedetto XVI afferma che la carità rientra nelle tre dimensioni fondamentali della Chiesa, vuole anche dire che ogni comunità cristiana vive di queste tre dimensioni, carità compresa. Essa non può essere dunque delegata ad alcuni specialisti, ma è opera dei fedeli in quanto tali. Qui si apre un percorso importante per tutti i nostri organismi, che devono maturare esattamente questo atteggiamento di servizio per aiutare la comunità cristiana a sentirsi soggetto della carità. Perché la carità, come dice Gesù, è il primo dei comandamenti e vale per ogni cristiano. Il vescovo deve sostenere gli organismi i carità della sua diocesi nel sentirsi animatori della carità del popolo di Dio. E’ una grande sfida pastorale che il Motu Proprio indica in due diversi passaggi, a significare l’importanza che vi attribuisce.

5. Un ulteriore elemento pratico di forte interesse è contenuto negli artt. 6 e 8 quando si parla del coordinamento da parte del vescovo delle diverse iniziative di carità, suggerendo l’istituzione di un ufficio specifico. Al di là del nome che gli si voglia dare o delle forme concrete che deve assumere, ci sembra un suggerimento importante. Ogni diocesi dovrebbe avere un luogo dove si incontrano le diverse iniziative di carità, in modo che il Vescovo le conosca e le possa orientare. Ci sono già degli esempi in questo senso, per es. in Francia nel “Conseil diocésain de solidaritè”, cui corrisponde un simile consiglio nazionale, oppure in Italia le Consulte regionali – probabilmente vi sono altri esempi. In ogni caso, ritengo che questo sia un modello da implementare con maggiore forza. A nostro avviso questo tipo di raccordo sarà sempre più importante in futuro anche nei rapporti con le istituzioni pubbliche e con le nuove sfide che esse porranno. Al di là di questa funzione pratica, mi sembra che la creazione di un tale luogo di comunione intorno al vescovo, consenta proprio di manifestare l’unità delle tante iniziative di carità dentro la diocesi, espressione di una comune preoccupazione e appartenenza. Così emerge sempre più fortemente che è la Chiesa, attraverso singoli attori, il vero soggetto del servizio di carità.

6. Un ulteriore punto di interesse è la creazione di un gruppo, denominato “Caritas” o in altro modo, in ogni parrocchia, come prescritto all’art. 9 par. 1. Questa è un’indicazione che alcune conferenze episcopali avevano già fatto propria in passato, ma che la legislazione universale vuole rafforzare, in modo che risulti, anche a livello territoriale, che la Chiesa vuole svolgere la sua missione caritativa.

7. Ora un riflessione sulle finanze. Tra le diverse sfaccettature del problema, mi concentro sul par. 3 dell’art. 10 circa il finanziamento da parte di terzi. Questa norma nasce da problemi concreti insorti negli ultimi anni e che hanno spinto il legislatore universale ad offrire un appoggio agli episcopati locali. In particolare in Europa e nell’America settentrionale, il finanziamento pubblico in alcuni casi è stato sottoposto a condizioni inaccettabili per la parte cattolica. Mi riferisco all’obbligo di sottoscrivere impegni riguardanti il controllo delle nascite, l’ideologia del gender o l’adozione a coppie dello stesso sesso per poter usufruire di finanziamenti pubblici. Va da sé che degli organismi, se sono cattolici, non possono entrare in questa dinamica. La questione non è tuttavia risolta, ma si porrà in maniera ancora più forte in futuro, nel clima culturale dominante, sia nei singoli stati, che, per es., nei rapporti con l’Unione Europea. Per tale motivo si è voluto sostenere l’azione di orientamento dei vescovi in questa materia con delle norme specifiche al riguardo. Esse rispondo a mio avviso a due criteri teologici: evitare la cooperazione al male ed evitare lo scandalo dei fedeli. La normativa prevede al riguardo tre attenzioni: non accettare finanziamenti da parte di istituzioni che, in sé, perseguono fini contrari alla dottrina cattolica; non accettare finanziamenti sotto condizioni contrarie alla fede cattolica; non accettare finanziamenti per progetti specifici contrari alla fede cattolica. Si è posta negli ultimi mesi anche la domanda circa il finanziamento da parte di agenzie cattoliche a istituzioni che, tra gli altri, svolgono anche progetti da risvolti che non sono in linea con la fede cattolica. In questo ambito, tutte le questioni riguardanti la vita hanno ovviamente una collocazione particolare e richiedono massima attenzione. Qui invitiamo i Vescovi ad una vigilanza speciale secondo i due criteri che ho menzionato prima della cooperazione al male e dello scandalo. Va da sé che dobbiamo accettare anche un ridimensionamento della nostra azione di carità, se questo deve comportare dei compromessi di natura dottrinale. So che in Europa almeno una conferenza episcopale, grazie al Motu Proprio, ha affrontato il tema con il rispettivo organismo.

8. Un’ultima questione da considerare è il rapporto con i tanti organismi nati da istituti religiosi o da società apostoliche. Questo è un fenomeno relativamente nuovo, dovuto in parte anche alla legislazione dei singoli paesi. Molti istituti religiosi hanno creato una propria organizzazione per sostenere i propri progetti, per ragioni fiscali ed amministrative, in modo da poter destinare fondi in paesi extraeuropei. Questo fenomeno si affianca alle tante iniziative di carità nate nel corso dei secoli dagli istituti religiosi e che peraltro in questi anni si trovano in una fase di revisione a motivo della mancanza di vocazioni. Il Motu Proprio chiede al vescovo una vigilanza anche verso di loro. E’ una questione ancora aperta, che vorremmo in ogni caso affrontare anche con i responsabili di tali istituti. Ma ci sembra importante, nel senso della comunione ecclesiale, favorire, all’interno delle diocesi, un coordinamento anche con queste iniziative. Così lo chiede anche il Motu Proprio. In questo senso si è mossa per es. la Conferenza episcopale in Corea.

9. Infine devo dire una parola anche su Cor Unum. Il nostro Dicastero si vede affidate dalla recente legislazione due competenze: quella dell’applicazione del Motu Proprio stesso e quello della erezione di organismi di carità in ambito internazionale. Abbiamo al momento due richieste in tal senso che stiamo valutando Questa competenza ci sembra un passo necessario, in particolare dopo che la nuova normativa su Caritas Internationalis affida a Cor Unum degli specifici compiti di vigilanza sulla Confederazione. Ma in un mondo sempre più globale crescono anche le iniziative internazionali e dunque la Santa Sede ha voluto evitare che si creasse un vuoto giuridico proprio rispetto ad organismi a carattere internazionale. Cor Unum svolge comunque questo ruolo in diretto collegamento con i vescovi o con le conferenze episcopali interessate. Per l’applicazione della normativa siamo evidentemente a disposizione dei vescovi per valutare quali siano i passi da considerare nelle singole situazioni.

Quanto vi ho esposto sono gli aspetti emergenti nell’applicazione pratica del Motu Proprio. Molte altre considerazioni concrete non le ho potute svolgere, ma potrete verificarle nei vostri rispettivi territori di competenza, cercando le soluzioni pratiche anche in base alla legislazione vigente nei singoli paesi. Soprattutto, da un punto di vista culturale, tutta questa azione deve convergere su un approccio più teologico e meno sociologico a questa dimensione della vita della Chiesa. Vi ringrazio per la vostra attenzione e per tutto l’impegno nella realizzazione della pastorale della carità, sulla quale anche Papa Francesco tanto insiste con la sua parola ed il suo esempio di vita.


 

 

 

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