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QUINTA SEDUTA PUBBLICA DELLE ACCADEMIE PONTIFICIE
Contributo delle Pontificie Accademie all'umanesimo cristiano

"Per una rinnovata epifania della Bellezza: 
gli Artisti protagonisti dell’umanesimo cristiano"

 

SUMMARIUM

 


 

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PER UNA RINNOVATA EPIFANIA DELLA BELLEZZA:
GLI ARTISTI PROTAGONISTI
DELL'UMANESIMO CRISTIANO
 

 

Già da quattro anni, il lavoro delle Pontificie Accademie è orientato, nel rispetto della specificità di ognuna di esse, verso la promozione dell’umanesimo cristiano. Non si tratta solo di studiare ed approfondire il ricco patrimonio umanistico della Chiesa — compito assolutamente necessario —, ma anche di presentare l’umanesimo cristiano quale proposta valida per il nuovo millennio.

 

Ora, è ben noto il bisogno di ravvivare, per le giovani generazioni, il valore e il significato della persona umana, perché la società e le culture sono sottoposte a mutamenti così ampi e radicali che i riferimenti fondamentali, indispensabili per comprendere l’uomo nella complessità del suo essere, si perdono.

 

Per questa Quinta Seduta Pubblica, il Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie ha affidato alla Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere il compito di preparare un insieme di espressioni artistiche per illustrare il tema: Per una rinnovata epifania della Bellezza: gli Artisti protagonisti dell'umanesimo cristiano. L'artista, ad immagine del Creatore, è sempre chiamato alla generosità, alla disponibilità, a farsi testimone della Bellezza e a « farne dono al mondo », in cui la verità e la bellezza rischiano spesso di essere sopraffatte o dimenticate a causa della mediocrità e della violenza, dell'indifferenza e dell'ipocrisia che degradano l'animo umano.

 

Per la quarta volta viene assegnato il Premio delle Pontificie Accademie, creato il 23 novembre 1996 da Giovanni Paolo II, per premiare ed incoraggiare sia giovani candidati, sia istituzioni culturali, per un rilevante contributo recato allo sviluppo delle scienze religiose o dell'arte ispirata alla fede, nella promozione dell'umanesimo cristiano. Il Santo Padre ha assegnato il Premio del 2000 all'Associazione Amici della Musica « F. Fenaroli » di Lanciano, per il suo trentennale impegno in favore di giovani musicisti provenienti da vari Paesi. 

 


 

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DISCORSO DEL CARDINALE PAUL POUPARD
PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA CULTURA
AI PARTECIPANTI ALLA QUINTA SEDUTA PUBBLICA
DELLE PONTIFICIE ACCADEMIE
 

 

    Eminenze ed Eccellenze Reverendissime,

    Signori Ambasciatori,

    Illustri Accademici,

    Signore e Signori,

  

con grande gioia e con vivo piacere ho l'onore di accogliervi, a nome del Santo Padre Giovanni Paolo II, a questa V Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie riunite nell'intento di cooperare alla promozione di un nuovo umanesimo, radicato in Cristo Redentore e fecondato dalla Sua Grazia.

Questa occasione di incontro annuale risente del clima particolarmente suggestivo del Grande Giubileo del 2000, che ci coinvolge tutti e a tutti offre motivi ed occasioni di conversione, di rinnovamento e di nuovo slancio nell'impegno umano e cristiano.

Anche a causa dei numerosi e gravosi impegni relativi alla celebrazione dell'Anno Santo, Sua Santità Giovanni Paolo II non può essere presente a questa Pubblica Seduta delle Accademie Pontificie, ma ci assicura il Suo interesse e la Sua partecipazione alle iniziative che tutte le Accademie Pontificie hanno realizzato in quest'Anno Giubilare e a quelle che intendono mettere in opera nel prossimo anno per mantener fede al loro impegno e alla loro vocazione con generosità e continuità.

Negli ultimi anni, come testimoniano questi nostri incontri che si rinnovano da ormai cinque anni, il fervore e l'attività delle Pontificie Accademie sono andati crescendo e sviluppandosi, con risultati veramente apprezzabili. Ultimo passo della riforma delle stesse Accademie, il rinnovamento istituzionale della Pontificia Accademia di San Tommaso d'Aquino e della Pontificia Accademia di Teologia sta producendo i suoi frutti, che si annunciano particolarmente ricchi e significativi, grazie all'impegno profuso dai nuovi Presidenti e Segretari.

Quest'anno la Seduta Pubblica è stata organizzata dalla Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, presieduta egregiamente e con grande entusiasmo dal Prof. Vitaliano Tiberia, a cui va il mio più vivo ringraziamento  per l'attività svolta come pure per il gentile saluto rivoltomi all'inizio di questa Seduta.

Il motivo ispiratore ed il tema di questo nostro incontro sono tratti dalla Lettera agli Artisti di Giovanni Paolo II, pubblicata il 4 aprile 1999, e che ho avuto l'onore di presentare nella Sala Stampa Vaticana il 23 aprile dello stesso anno.

La Lettera è indirizzata  « a quanti con appassionata dedizione cercano nuove 'epifanie' della bellezza per farne dono al mondo nella creazione artistica ».

In questa intestazione già leggiamo, in nuce, tutto il messaggio contenuto nella stesso documento. E' un messaggio rivolto a tutti coloro che, sia come persone che come artisti, mossi dalla passione della ricerca della verità, vi si dedicano con tutte le loro energie ed i loro talenti, ne fanno lo scopo della loro esistenza. Viene alla mente la bella definizione che Giovanni Paolo II dà della persona umana nell'Enciclica Fides et ratio: « Si può definire l'uomo come colui che cerca la verità » (n.28).

La ricerca umana, dunque, non è fine a se stessa, si pone inizialmente obiettivi particolari, ma che possono e devono essere ricondotti ad un fine ultimo: la ricerca della verità. La verità che appare, si manifesta, si svela all'intelligenza umana non ripiegata su se stessa, ma aperta anche al trascendente, al mistero della vita e al mistero di Dio, è una verità « bella », affascinante, che suscita emozione nell'animo umano e lo rende creativo, cioè capace di essere immagine del Creatore continuando l'opera della creazione, trasformando la materia, anzi trasfigurandola con la forza e la luce della verità scoperta nell'intimo e profondamente accolta in tutta la propria esistenza.

Non è un caso che Giovanni Paolo II ponga all'inizio della Lettera agli Artisti il versetto della Genesi che recita: « Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona » (Gn 1, 31).

La creazione artistica, quando è vissuta come autentica ricerca della verità e della bellezza, è profonda e attiva partecipazione al progetto creatore di Dio, consapevole adesione alla vocazione umana di essere « immagine e somiglianza » di Dio.

L'artista, ad immagine del Creatore, è allora chiamato alla generosità, alla disponibilità, a farsi testimone della Bellezza e a « farne dono al mondo », a quel mondo in cui la verità e la bellezza rischiano spesso di essere sopraffatte o dimenticate a causa della mediocrità e della violenza, dell'indifferenza e dell'ipocrisia che degradano l'animo umano.

Se la contemplazione della bellezza del volto di Cristo, splendore della gloria del Padre, ci conduce alla sua sorgente divina, siamo chiamati a tradurre e ad esprimere quella bellezza nelle nostre opere. « L'uomo esprime la verità del suo rapporto con Dio Creatore - afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica - anche mediante la bellezza delle proprie opere artistiche. L'arte è una forma di espressione propriamente umana. Al di là dell'inclinazione a soddisfare le necessità vitali... essa è una sovrabbondanza gratuita della ricchezza interiore dell'essere umano » (n. 2501). L'arte, poi, si qualifica come sacra quando riesce ad « evocare e glorificare, nella fede e nell'adorazione, il Mistero trascendente di Dio, Bellezza eccelsa di Verità e di Amore, apparsa in Cristo "irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza" » (n. 2502).

L'artista cristiano diviene, così, un testimone e le sue opere sanno comunicare quella bellezza spirituale: « L'autentica arte sacra - prosegue il Catechismo della Chiesa Cattolica - conduce l'uomo all'adorazione, alla preghiera e all'amore di Dio Creatore e Salvatore, Santo e Santificatore » (n. 2502).

Egli, inoltre, ha coscienza di non essere il padrone della bellezza, la cui sorgente perenne è altrove, ma si sente al servizio della bellezza, facendosi umilmente e semplicemente comunicatore e diffusore di bellezza, come un diamante che riceve un raggio di luce e lo rifrange in tante direzioni con sfumature di colore sempre diverse.

L'artista cristiano è, dunque, uomo di contemplazione e di preghiera, che sa abbandonarsi al soffio dello Spirito, che si lascia ispirare da Lui per dare forme nuove e originali alla materia, per imprimere linfa vitale  e profondità interiore alle parole come ai suoni, per rendere diafani e trasparenti le immagini ed i colori affinchè ogni forma, ogni opera rimandi alla Bellezza originaria e alla sua Sorgente eterna.

Il Pontefice, proprio per valorizzare tale importantissimo e delicato compito degli artisti, manifesta con grande chiarezza la disponibilità della Chiesa nei loro confronti: « La Chiesa ha bisogno dell'arte. Essa deve, infatti, rendere percepibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante il mondo dello spirito, dell'invisibile, di Dio... La Chiesa ha bisogno, in particolare, di chi sappia realizzare tutto ciò sul piano letterario e figurativo...ha bisogno dei musicisti... degli architetti... La Chiesa, dunque ha bisogno dell'arte » (n. 12 – 13).

A conclusione della Lettera, il Santo Padre rivolge un accorato appello agli Artisti, confermando loro il Suo incoraggiamento: « Mi rivolgo a Voi, artisti del mondo intero, per confermarvi la mia stima e per contribuire al riannodarsi di una più proficua cooperazione tra l'arte e la Chiesa....Faccio appello specialmente a voi, artisti cristiani - prosegue Giovanni Paolo II - a ciascuno di voi vorrei ricordare che l'alleanza stretta da sempre tra Vangelo e arte, al di là delle esigenze funzionali, implica l'invito a penetrare con intuizione creativa nel mistero del Dio incarnato e, al contempo, nel mistero dell'uomo » (n. 14).

Oggi questo appello viene rivolto a Voi in particolare, illustri Accademici, chiamati singolarmente a contribuire con le vostre opere ed il vostro talento ad una rinnovata epifania della Bellezza, ad essere protagonisti di un nuovo umanesimo cristiano attraverso il quale il Vangelo possa giungere ad ogni uomo, e ad ogni cultura, per illuminare il suo cammino e la sua ricerca e rispondere alla nostalgia di bellezza e di verità che abita l'animo umano.

A tal proposito, mi piace riportare un brano del Documento Per una Pastorale della Cultura, pubblicato dal Pontificio Consiglio della Cultura il 23 maggio 1999: « In una cultura contrassegnata dal primato dell'avere, dall'ossessione della soddisfazione immediata, dall'attrattiva del guadagno, dalla ricerca del profitto, è sorprendente constatare non solo la permanenza, ma anche lo sviluppo di un certo interesse per il bello. Le forme, che rivestono tale interesse, sembrano esprimere l'aspirazione che rimane e, perfino si rafforza, ad un'"altra cosa" che incanta l'esistenza e, fors'anche, la apre e la porta al di là di se stessa » (n. 17). In quello stesso Documento esprimiamo l'auspicio di una rinnovata e feconda collaborazione con gli artisti: « Un rapporto  di fiducia con gli artisti, fatto di ascolto e di cooperazione, permette di valorizzare tutto ciò che educa l'uomo e lo eleva ad un superiore livello di umanità, mediante una partecipazione più intensa al mistero di Dio, somma bellezza e suprema bontà » (n. 36).

Illustri Accademici, carissimi amici, mi auguro che l'incontro di oggi rafforzi i nostri propositi e ci spinga ad una sempre maggiore collaborazione in campo culturale ed artistico, per offrire alla Chiesa e al mondo occasioni di conversione alla bellezza della verità che risplende sul volto di Cristo.

Ciò detto, mi è particolarmente gradito consegnare, a nome del Santo Padre, il Premio delle Pontificie Accademie per l'anno 2000.

 

La Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti  e Lettere dei Virtuosi al Pantheon ha avuto il compito di proporre il bando di concorso a tutte le classi di artisti, per valorizzare coloro che contribuiscono, con il loro impegno, all'umanesimo cristiano.

Dopo aver raccolto il giudizio del Consiglio di Coordinamento fra le Accademie Pontificie, Sua Santità Giovanni Paolo II ha deciso di attribuire il Premio delle Pontificie Accademie ad una benemerita Istituzione che opera, esattamente da trent'anni, nel campo della formazione musicale, l'Associazione Amici della Musica « Fedele Fenaroli » di Lanciano, soprattutto per l'opera che svolge a favore dei giovani, provenienti da diversi Paesi, a cui viene offerta l'opportunità di frequentare i corsi di musica e di partecipare a significativi eventi musicali.

Ha ritenuto, inoltre, di assegnare la Medaglia del Pontificato al Signor Tobias Kammerer, proveniente dalla Germania, autore di artistiche vetrate, fra cui un particolare « tondo » con la raffigurazione dell'Annunciazione.

Prima di consegnare il Premio delle Accademie Pontificie alla Signora Filomena Di Renzo, Presidente dell'Associazione Amici della Musica di Lanciano, a cui va il mio personale augurio e l'incoraggiamento ad un sempre più proficuo impegno culturale ed artistico, vorrei, infine, ringraziare il Prof. Vitaliano Tiberia che, con i suoi Accademici, ha organizzato questa V Seduta Pubblica ed il Maestro Mons. Giuseppe Liberto, con la Cappella Musicale Pontificia, per averci offerto momenti di grande suggestione attraverso i brani musicali eseguiti quest'oggi.

Sono, infine, lieto di trasmettere ad ognuno di voi e ai vostri cari la speciale Benedizione Apostolica, che il Santo Padre concede con particolare affetto, implorando su ciascuno l'abbondanza delle grazie divine.

 


 

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INDIRIZZO DI SALUTO
DEL PROF. VITALIANO TIBERIA
 

Presidente della Pontificia Insigne Accademia
di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon
 

 

Eminentissimo Signor Cardinale Paul Poupard,

Eminenze Reverendissime,

Eccellenze Reverendissime,

Illustrissimi Signori Presidenti delle Accademie Pontificie,

Illustrissimi Signori Ambasciatori,

Illustrissimi Signori Accademici,

Signore e Signori,

 

sono molto onorato di porgervi il saluto della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, in questa occasione della consegna del Premio delle Accademie Pontificie, che il Cardinale Poupard farà tra poco a nome del Santo Padre Giovanni Paolo II.

La seduta Accademica odierna ha una sua originalità, in quanto vi saranno presentati, come cornice di questo evento, più contributi che testimoniano la ricchezza e la vitalità di un Sodalizio di artisti antichissimo (nacque a Roma nel 1542) e, me lo si consenta, fra i più gloriosi.

Le testimonianze d’arte e studio che oggi questa Accademia offre sono: musiche, un film, un saggio storico artistico, poesie.

Si conclude così un ciclo che, apertosi nel novembre 1996 con la presentazione in questa stessa sede di un programma approvato dal Santo Padre, mirava a rivitalizzare il rapporto fra Chiesa ed artisti, nella prospettiva, in tempi di agnosticismo e relativismo dilaganti, di recuperare uno spazio eminente per l’arte, che è sintesi sublimata della realtà.

Ebbene, gli Accademici Virtuosi del Pantheon, fedeli alla propria tradizione plurisecolare in cui sempre centrale è stata la carità verso il prossimo e con la generosità e l’entusiasmo che caratterizzano solo i grandi artisti, hanno lavorato per cinque anni a questo ideale comune ed hanno contribuito con prestazioni ai sommi livelli alla rinascita di un umanesimo che potrà essere tale solo se sarà fondato nuovamente sul legame stretto fra la categoria dell’estetica e quella dell’etica.

In questo cammino quinquennale soprattutto due sono stati i riferimenti teorici che hanno confortato l’impegno dei Virtuosi al Pantheon: la Lettera del Papa Giovanni Paolo II agli Artisti in occasione della Pasqua 1999, e il testo Per una pastorale della cultura prodotto dal Pontificio Consiglio della Cultura nella solennità di Pentecoste 1999.

Del primo documento, presentato dal Cardinale Poupard, abbiamo ritenuto fondamentale proprio il passo d’apertura, laddove il Papa ricorda ed esorta: “Nessuno meglio di voi artisti, geniali costruttori di bellezza, può intuire qualcosa del pathos con cui Dio, all’alba della creazione, guardò all’opera delle sue mani¼ [a voi] ai quali mi sento legato da esperienze che risalgono molto indietro nel tempo ed hanno segnato indelebilmente la mia vita”.

Nell’altro documento, abbiamo trovato, altresì, un riscontro fondamentale ai nostri convincimenti. E citerò, di questo complesso testo, due passi; il primo così recita: “Chiamare gli artisti a partecipare alla vita della Chiesa equivale ad invitarli a rinnovare l’arte cristiana. Un rapporto di fiducia con gli artisti, fatto di ascolto e di cooperazione, permette di valorizzare tutto ciò che educa l’uomo e lo eleva ad un superiore livello di umanità, mediante una partecipazione più intensa al mistero di Dio, somma bellezza e suprema bontà” (p.71). E ancora: “La loro creatività [scil. degli artisti] dovrebbe consentire lo sviluppo di iconografie e di composizioni musicali accessibili ai più, per rivelare la trascendenza dell’amore di Dio e introdurre alla preghiera” (p.72).

In realtà, entrambi questi documenti del 1999 riprendono quanto sintetizzato nella Gaudium et Spes, laddove si postulava un impegno preciso affinché gli artisti, e cito quel testo, “si sentano riconosciuti dalla Chiesa nella loro attività” [Gaudium et Spes, 62, 4].

Più in concreto, ancora, in momenti di gravi difficoltà per quegli artisti che non hanno accettato e non accettano di essere “normalizzati” negli schemi razionalistici delle logiche partitiche, ma, anche a costo di essere emarginati dai circuiti del potere, hanno continuato a guardare alla realtà non per fini di propaganda spicciola o di facili guadagni, proprio questi documenti possono far sperare che, dopo l’accettazione hegeliana della morte dell’arte, non si debba dare il benvenuto anche alla morte degli artisti. La strada sarebbe senza ritorno, perché con la morte degli artisti morrebbe il bello della vita e gran parte della stessa gioia di vivere, in vantaggio di un indistinto economicistico più o meno beninteso che, anestetizzando l’intelligenza e cancellando le identità culturali, annullerebbe l’essenza stessa dell’uomo.

Resta, pertanto, ancora oggi fondamentale per noi l’impegno di coltivare in ogni modo lo sviluppo dell’incontro di fede e cultura, nel cui centro antropologico credo che si debbano porre l’arte e la scienza, intese rispettivamente come creatività somma e ricerca, rispettosa, quest’ultima, dell’esistente ma anche del mistero, in quanto consapevole che il creato è regolato da leggi non fatte dall’uomo, anche se organizzate per il bene degli uomini.

Nei momenti di dolorosa crisi della nostra civiltà, in cui quotidianamente la dignità e la vita dell’uomo sono spettacolarmente mortificate se non cinicamente cancellate in nome degli ondivaganti ideali economicistici di questo o quel centro di potere, gli artisti potranno contribuire (hoc est in votis!), producendo cose belle, anche alla salvezza delle molteplici identità culturali che, proprio con le loro differenze, testimoniano della ricchezza e della meravigliosa complessità del creato e riaffermano proprio per questo e indiscutibilmente l’infinita sapienza del Creatore.

Del resto, la stessa creatività artistica, quando è tale e rifugge dalla tecnica di una comoda riproducibilità seriale cui sono legate le seducenti economie di scala, non trasforma forse il lavoro dell’uomo in opere distinte le une dalle altre?

Grazie, ancora, Signori Accademici, per quanto avete dato, con un’umiltà sconosciuta al nostro tempo, in questo lustro al Sodalizio dei Virtuosi al Pantheon, ma grazie anche a tutti i Presidenti delle altre Accademie Pontificie per la loro attenzione alla nostra attività.

E grazie, quindi, Signor Cardinale Poupard, dal profondo del cuore, per la sempre costante e non teorica presenza che Ella ha voluto riservare a tutte le manifestazioni dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon, a sigillo reale dei principi contenuti nella Lettera del nostro Papa agli Artisti e nelle proposizioni del testo Per una pastorale della cultura.

Grazie, infine, a voi tutti che, con la vostra presenza di oggi, ci incoraggiate a proseguire nella strada fin qui percorsa e testimoniate di una fiducia nell’uomo che, nonostante tutto, continua ad essere anche la nostra.

 


 

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RELAZIONI ACCADEMICHE

 

La Basilica di San Marco a Venezia, film di Vittorio Di Giacomo

La Basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme, relazione di Vitaliano Tiberia

Poesie di Mario Luzi

Poesie di Luciano Luisi

 


 

 

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LA BASILICA DI SAN MARCO A VENEZIA

 

Film di Vittorio DI GIACOMO
Accademico della Pontificia Insigne Accademia
di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon

 

 

 

I mosaici di San Marco

 

Un episodio dal film: « La Basilica di San Marco, I) dal mito alla storia », regia e testo di Vittorio Di Giacomo (durata 40'). Prodotto dalla Regione del Veneto. Realizzazione IMAGO. Edizione Video Editalia Film - Istituto Poligrafico dello Stato.

 

Sintesi del commento

 

In corrispondenza con le grandi sequenze che aprono il film, dedicate alla visualizzazione degli spazi e dei volumi architettonici nella Basilica, il testo del commento prende l'avvio dal tema generale delle origini basilicali, in equilibrio tra mito e storia: a partire dall'annuncio dell'angelo all'evangelista Marco in viaggio per la laguna, per giungere all'episodio centrale dell'intera vicenda marciana — d'intonazione storica — delle sante spoglie dell'evangelista trafugate dai discepoli ad Alessandria d'Egitto. Traslate al termine di un viaggio avventuroso nella primitiva cappella ducale veneziana adibita a mausoleo, esse furono in seguito, come il testo mette in evidenza, accolte nella cripta — nucleo strutturale generatore della terza ed attuale San Marco del doge Contarini (1063) — sino alla finale deposizione in luogo sicuro ed evidente ai piedi dell'altare maggiore.

Fatto rapido cenno delle analogie con gli edifici sacri di Bisanzio, in particolare con la Chiesa dei santi Apostoli, il commento torna ad approfondire l'argomento delle origini basilicali, sospese fra predizione e predestinazione, inquadrandolo sullo sfondo degli eventi che condussero ad assegnare alla chiesa lagunare, nelle contese di potere con la continentale Aquileia, il sigillo di una vera e propria investitura divina.

Dal mito alla storia il passo è d'obbligo. Restituite alla memoria presente le origini prodigiose della Basilica, il commento assume il deciso andamento che gli è proprio per funzione naturale, aprendosi, lungo tre distinte direttrici, alla lettura storico-critica dei singoli soggetti pittorici, al giudizio di valore delle forme, alla interpretazione dei referenti teologici. Su tali premesse il discorso si fa via via più concreto e circostanziato, ritenendosi opportuno — quando le circostanze lo consentano — un puntuale raffronto con il singolo capo d'opera: fra tutti gli esempi, il portale di Sant'Alipio, unico esemplare superstite dell'originale sequenza frontale del portico di San Marco, e il superbo mosaico del transetto destro, con la preghiera pubblica e i digiuni indetti dal doge Falier per il recupero della smarrita salma dell'evangelista, nel 1094.

I mosaici dell'abside maggiore, con le figure del San Pietro e di Ermagora; la Deesis, che figura sulla parete d'ingresso all'interno; l'evocazione di Marco, presente tra aurei bagliori nel catino del portale centrale che si schiude sull'atrio; la fronte basilicale che si affaccia sulla Piazzetta; infine, l'abside del vestibolo meridionale, con il mosaico di Maria e dei profeti vengono in tal modo a costituire, senza alcuna concessione al gusto del frammento o del particolare aneddotico, altrettanti espisodi nodali vari per soggetto, epoca, mano, facenti parte di una sorta di « preludio » figurativo e concettuale, indispensabile nell'economia del contesto audiovisivo, all'intendimento dei grandi cicli musivi basilicali, di respiro più vasto, di più aulica ispirazione. Il primo di questi è il ciclo dell'atrio, con le storie del Vecchio Testamento che gremiscono le cupolette, i sottarchi, i catini absidali di quel settore della Basilica, andando dalla Creazione del mondo, di cui il testo sottolinea le analogie con un codice del V secolo esemplato nella celebre Bibbia Cotton, alle Storie del Diluvio, della Ebbrezza di Noè alla Torre di Babele, dall'Abramo della cupola sospesa sulla Porta di San Pietro alle vicende di Giacobbe, Giuseppe e Mosè.

Ai cicli evangelici, ai figurati poemi teologali che ci attendono, all'interno, nel corpo vivo dell'edificio basilicale funge da tramite, in fondo al braccio laterale dell'atrio che fa gomito sulla sinistra, uno degli ingressi alla Basilica di maggiore significato: la porta che s'intitola a Giovanni e Maria. In particolare a costei che, come il commento chiarisce, ha in sé, metaforicamente porta di accesso, in senso fisico, allo spazio sacro, ma è tale anche per la mente del fedele, in quanto Sapienza. Quella sapienza di cui, accogliendo tra le braccia il fanciullo divino, Maria si fa sede regale, trono.

Varcata la soglia, se a prima vista è l'immagine a farsi lievito di una fede sostanziata di bellezza, è il testo parlato dl film a darcene, in sequenza serrata, il congegno dialettico e le membrature di stampo teologico e dottrinale. Con questa chiave interpretativa e in siffatta luce, la parola e l'immagine si trasfigurano e compenetrano a vicenda lungo un itinerario condiviso.

E' un itinerario di valore ascendente e progressivo, scandito nel tempo, inteso come infinita temporalità, e distribuito nello spazio da un arcone all'altro, da un pilastro al successivo, di cupola in cupola. e se l'inizio di un tale « pellegrinaggio », fisico e spirituale, prende le mosse da Giovanni cui fu affidata, ai piedi della croce, la Madre di Dio che è Madre di tutta la Chiesa, la sequenza finale e conclusiva si affida, nell'ordine, alla Cupola dei profeti e alle Storie di Cristo — dal tempo della Pasqua alla Passione e al dopo — per culminare nella Cupola dell'Ascensione e in quella della Pentecoste. La prima intesa ad esaltare la circolarità dell'Essere, calato nella storia e richiamato ai cieli in un vortice angelico, in attesa della Parusia: la presenza di Gesù alla fine dei tempi. La seconda, intesa ad esaltare il momento in cui le genti di lingue diverse, come è detto negli Atti degli Apostoli — ed è in San Marco, altrove, narrato — ebbero compreso, stupite, l'annuncio delle opere di Dio quasi fosse pronunciato nella lingua di ciascuno.

 


 

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LA BASILICA ROMANA

DI SANTA CROCE IN GERUSALEMME

 

Relazione del Prof. Vitaliano TIBERIA
Presidente della Pontificia Insigne Accademia
di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon

 

 

 

L’AFFRESCO STAUROLOGICO NELLA BASILICA ROMANA

DI SANTA CROCE IN GERUSALEMME

NELLA PROSPETTIVA DEL GIUBILEO DEL 1500.

RIFLESSIONI DOPO IL RESTAURO DEL 1998-99[1]

 

  1. L’affresco eleniano e le crociate. Il tramonto di un’antica convinzione.

  2. L’affresco eleniano e la sua committenza spagnola sotto il pontificato di Alessandro VI

  3. Una conclusione in prospettiva giubilare fra aspirazione all’unità politica, integrazioni e conversioni nella Spagna di fine Quattrocento

 

 

L’affresco eleniano e le crociate. Il tramonto di un’antica convinzione.

 

Una delle opere d’arte del Quattrocento romano più importanti per estensione e qualità pittorica, ma dalla vicenda cronologica e critica controversa e dal significato ancora non sufficientemente chiarito, è l’affresco nel catino absidale della basilica di Santa Croce in Gerusalemme.

Il suo recente restauro del 1998-99 ha consentito di accertare, attraverso la semplice lettura di un’iscrizione siglata ritrovata, sulla cintura dell’araldo a destra della croce al centro dell’affresco, il nome del suo autore, che è Antoniazzo Romano coadiuvato da “soci”. L’iscrizione è OAER>S; se sciolta, suonerebbe così: Opus Antonatii Equitis Romani. Sociorumque (Opera del Cavaliere Antoniazzo Romano. E dei Soci)

Questa pittura si articola secondo uno schema di origine medievale che ebbe molta fortuna anche nel XV secolo, secondo il quale la divinità è platonicamente raffigurata in modo da sovrastare fisicamente e simbolicamente le vicende degli uomini. La composizione è divisa in due parti distinte, corrispondenti concettualmente all’idea di storia e al pensiero trascendente dell’eternità. Il registro superiore, caratterizzato da un fondo blu trapunto di stelle dorate, del tipo di quello realizzato pochi anni prima da Piermatteo d’Amelia per la volta della Cappella Sistina, è dominato da una mandorla di cherubini che racchiude, assiso sul trono celeste di nuvole, il Redentore nell’atto della suprema benedizione e con la mano sinistra che tiene aperto il libro con su scritto il noto passo del Vangelo di Giovanni (14,6) EGO SUM VIA VERITAS VITA. Nel registro inferiore, diviso idealmente, al centro, dalla croce, si snoda, senza i tradizionali riquadri scanditi da partizioni architettoniche ma in soluzione di totale continuità storico – ambientale, la narrazione del ritrovamento e del trionfo della vera croce per opera di Sant’Elena e del ritorno del sacro legno in Gerusalemme riportatovi dall’imperatore Eraclio.

Procedendo dalla parte sinistra dell’affresco, dominata da una collina con una città, si vede Elena, madre di Costantino, che, giunta a Gerusalemme nel 326, vuol sapere da un ebreo, di nome Giuda, qui raffigurato intenzionalmente come un nobile vegliardo contraddistinto da una veneranda e fluente canizie, dove fu interrata la croce di Cristo. L’uomo rivela ad Elena il luogo della sepoltura del sacro legno, che da solerti scavatori è subito riportato alla luce, insieme alle altre due croci dei ladroni, di cui narrano i Vangeli, ma senza distinzione da queste. La narrazione prosegue con l’episodio del riconoscimento della croce di Cristo che avviene grazie alla guarigione di uno storpio posto a contatto con questa, mentre l’ebreo Giuda, vinto dal miracoloso evento, si converte. La croce, sostenuta da Sant’Elena, si erge quindi al centro, adorata dal cardinale titolare della basilica di Santa Croce in Gerusalemme e committente dell’affresco, Pedro González de Mendoza.

Nella parte destra, sono invece narrate le vicende relative al trafugamento, operato dal re persiano Cosroe, della croce di Cristo da Gerusalemme e l’episodio dell’imperatore Eraclio che affronta quindi Cosroe in duello su un ponte sul Danubio con il patto che la croce e l’impero spetteranno al vincitore.

Eraclio vince e desidera rientrare in Gerusalemme a cavallo e con la croce in spalla. Ma, le porte della città Santa si chiudono miracolosamente davanti all’imperatore ed al suo regale corteo, di cui fanno parte anche il convertito Giuda e personaggi con copricapi di foggia orientale, nonché un giovane moro che, con la spada in spalla, fa da battistrada alla croce. Un angelo, apparso sopra la città fa sapere ad Eraclio che potrà entrare in Gerusalemme solo se, in piena umiltà, come Gesù, procederà a piedi e con la croce in spalla. L’imperatore ubbidisce ed entra finalmente in Gerusalemme.

Ispirata alla Legenda Aurea del beato domenicano Jacopo da Voragine, o Varagine o Varazze, vissuto nel XIII secolo, questa pittura raffigura fra storia e leggenda il ritrovamento e l’esaltazione della vera croce di Cristo; tuttavia, rispetto al testo medievale, essa si presenta in una versione narrativamente sintetica, non comprendendo volutamente gli episodi della decollazione di Cosroe e del tormento dell’ebreo Giuda, che, invece, occupa un posto centrale nella narrazione medievale. La differenza, come vedremo, non è di poco conto; al contrario, rivela un’intenzionalità precisa della committenza. Essa, infatti, è la spia evidente dei vasti e significativi mutamenti degli indirizzi politici e religiosi sul problema delle crociate e, più in particolare, delle conversioni, intervenuti negli orientamenti della Chiesa di Roma fra Medioevo e Rinascimento, o, per meglio dire, trattando del caso di Santa Croce in Gerusalemme, nell’ultimo decennio del XV secolo rispetto ai decenni immediatamente precedenti.

A chiarire meglio la questione contribuisce un celeberrimo antecedente dell’affresco eleniano, e cioè il ciclo d’affreschi, anch’esso raffigurante le storie della vera croce, che Piero della Francesca dipinse fra il sesto decennio e la metà del decennio successivo nella chiesa di San Francesco, ad Arezzo. In entrambe queste pitture, infatti, si ritrova l’episodio del tormento dell’ebreo Giuda descritto nella Legenda di Jacopo da Voragine e, a differenza di quanto illustrato nell’affresco romano, ma in consonanza con l’antica fonte letteraria, anche l’episodio della decollazione del re persiano Cosroe. In realtà, tutto il ciclo aretino riprende, sia pure con qualche differenza, come, per esempio, la raffigurazione fisionomica dell’ebreo Giuda, che non ha certo i connotati solennemente dignitosi del sapiente descritto da Jacopo da Voragine e dipinto da Antoniazzo nell’abside eleniana, la narrazione della Legenda medievale, così da apparire concettualmente vicino piuttosto a questo testo precedente di due secoli che all’affresco romano di eguale soggetto e posteriore invece di poco più di trent’anni.

Si può, in sostanza, dire che i due cicli riflettono altrettante mentalità di committenti nettamente diversi, che fecero parte di differenti schieramenti politici.

           Pensato probabilmente in ambiente francescano, dove nelle crociate si vedeva un veicolo di missione evangelizzatrice, e maturato in un clima di forte contrapposizione religiosa, quello nella chiesa francescana di Arezzo, a cui bisogna associare, per capire l’unitarietà dell’orientamento politico – religioso del papato in materia di crociate nel settimo decennio del XV secolo, pure il ciclo di affreschi, anch’esso di ambito francescano, fatto fare dal cardinale greco Bessarione nella basilica romana dei santi Apostoli, con il quale si vagheggiava probabilmente la guida delle Crociate da parte del re di Francia, Luigi XI; frutto, invece, l’affresco romano di Santa Croce in Gerusalemme, di una rinnovata volontà diplomatica incline, almeno in linea di principio, alla tolleranza e all’integrazione religiosa pacifica, fino al punto di omettere, rispetto all’antica fonte letteraria di riferimento, due episodi che avrebbero dichiaratamente evocato azioni violente e pertanto in contraddizione con eventuali aspirazioni ireniche, come il tormento dell’ebreo Giuda e la decollazione di Cosroe.

Alla crociata pensarono tutti i papi del XV secolo, e con convinzione soprattutto Pio II, almeno fino al 1464, mentre i principi e i re europei non produssero mai un serio sforzo perché da avventura essa divenisse un’impresa seria che riunisse tutte le forze cattoliche. In effetti, già la caduta di Costantinopoli (1453) era stata vista come la fine inevitabile di tutta un’epoca; quasi un fatidico e drammatico segno del moderno discrimine imposto dal pensiero del Rinascimento, per cui, con la riduzione della presenza del trascendente nella vita dell’uomo, si confermava l’occupazione della realtà in termini di assolutismo antropocentrico. In realtà, l’idea di crociata verso Est, dopo il fallimento del 1464, non ebbe più i connotati di un grande progetto politico-religioso; al contrario, fatta eccezione per lo scacchiere iberico, dove, fin dal 1455, la monarchia castigliana aveva ripreso con vigore e fortuna la “reconquista” contro i Mori, evidentemente anche per consolidare nazionalisticamente i propri nuovi confini meridionali fino al mare, essa si limitò ad animare sporadiche e talvolta contraddittorie iniziative, indispensabili, per altro, strategicamente a contenere la pressione turca che, sulla terraferma, dalla caduta di Atene nel 1456, fino al nono decennio del XV secolo, era divenuta soffocante, grazie anche alla conquista ottomana di vasti territori fin sulla sponda est dell’Adriatico.

 

 

II L’affresco eleniano e la sua committenza spagnola sotto il pontificato di Alessandro VI

 

Esaminando questo ciclo pittorico, vediamo innanzitutto che la critica solo di recente ne ha chiarito la committenza e ne ha ipotizzato con sufficiente attendibilità la cronologia. L’ideazione dell’affresco eleniano spetterebbe, per una serie di circostanze, che lo videro protagonista o fra i protagonisti nella committenza di questa impresa pittorica, al cardinale Pedro González de Mendoza.

Il Mendoza, importante e colto prelato, fu arcivescovo di Toledo, Primate di Spagna dal 1485, e consigliere della coppia reale Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. Dei due giovani sovrani sembra che avesse anche incoraggiato il matrimonio e insieme a loro (circostanza nient’affatto secondaria) pare che fosse il 2 gennaio 1492, quando Boabdil, il re moro di Granada, capitale dell’ultimo regno musulmano nella penisola iberica, si arrese ai loro eserciti, dietro assicurazione del mantenimento del possesso delle armi e dei beni per gli abitanti di fede islamica, nonché della possibilità per i medesimi di continuare ad osservare le leggi e la religione tradizionali. Patti, questi, che furono, per altro, garantiti, nei primi tempi, soprattutto dalla tolleranza del primo arcivescovo di Granada, l’intelligente ed esperto conoscitore della cultura araba, nonché confessore della regina, Hernando de Talavera, mentre Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia agevolarono con diplomazia e in ogni modo il ritorno degli aristocratici mori verso l’Africa settentrionale, così che lo stesso re, Boabdil, con seimila Mori, lasciò pacificamente Granada nell’autunno del 1493.

Dotato di intuito straordinario, secondo una tendenza intellettualistica, del resto, che, in ogni tempo, appare un tratto distintivo di alcune figure eminenti della gerarchia ecclesiastica, il Mendoza affiancò la sua sincera vocazione religiosa, spinta fino al misticismo tipico di certo clero spagnolo, allo studio dei classici, all’azione politica e, soprattutto, all’attività di fine diplomatico, di cui dette ben presto prova presso Giovanni II di Castiglia. Le sue tendenze mistiche trovarono sintesi ideale nella venerazione particolare della croce di Cristo, tanto è vero che, in modo del tutto coerente, si adoperò per essere nominato, una volta ottenuta la berretta cardinalizia dal papa Sisto IV nel 1473, titolare di Santa Croce in Gerusalemme; vale a dire della basilica staurologica per antonomasia, in quanto voluta a Roma da Elena, la madre dell’imperatore Costantino, alla quale Mendoza avrebbe dedicato tante cure fino a dotarne il luogo alto, il catino absidale, verso il 1493-95/96, di un grandioso affresco celebrativo del trionfo della croce. Una pittura, quella, che al di là dell’intrinseco valore estetico, divenne per il Mendoza, essendo egli morto nel 1495, il sigillo simbolico nel segno della croce della sua stessa esistenza, iniziatasi, per una coincidenza che ha dell’incredibile, il 3 maggio 1428 e cioè proprio nel giorno in cui la Chiesa ricorda il ritrovamento della croce di Cristo!

Anche se per gli impegni connessi al suo rango di consigliere dei re di Spagna il Mendoza non riuscì ad essere presente in questa chiesa, ne curò tuttavia attentamente i restauri fin dal 1488, restituendole il decoro e il prestigio che le competevano, tanto è vero che, già alla fine del XV secolo, Santa Croce era considerata la settima chiesa dell’Urbe e l’unica, fra i sacri edifici patriarcali, a detenere un titolo cardinalizio. Una posizione primaria ed una notorietà rafforzate, del resto, ancor più, e non certo casualmente, dalla bolla Admirabile sanctum emessa il 29 luglio 1496 dal papa spagnolo Alessandro VI. Con questa bolla, infatti, si concedeva l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli “in grazia di Dio” che avessero visitato Santa Croce nel giorno del ritrovamento della reliquia della croce di Cristo, avvenuta, per una singolare coincidenza, nella basilica stessa durante i restauri finanziati dal Mendoza e proprio nel giorno della riconquista di Granada, da parte dei re di Spagna.

Nello stesso tempo, questa bolla costituì, per così dire, l’originale conclusione, prammatica e logica ad un tempo, di un orientamento ecclesiale che trovava riscontro concreto anche nelle cose della politica. Con l’episodio di Santa Croce si volle, infatti, quasi sicuramente propagandare in positivo e in modo, se così si può dire, anticonformistico, non tanto l’idea della guerra santa quanto il tema delle conversioni, sintetizzandolo pedagogicamente e spettacolarmente in un affresco pensato ed eseguito in prospettiva di una importante scadenza temporale, il giubileo del 1500, strettamente correlata a questo tema e, pertanto, altamente simbolica anche per il suo cadere a conclusione di un ciclo temporale di valore doppiamente ideale: tricinquecentenario dalla nascita di Cristo e bicentenario dall’istituzione del giubileo cattolico.

In altre parole, di questo evento, che, si badi bene, Alessandro VI, da esperto canonista qual era, considerò importantissimo, tanto da stabilirne personalmente (cosa che non era stata fatta dai suoi predecessori ) il cerimoniale, il nuovo affresco nell’abside di Santa Croce in Gerusalemme e la bolla pontificia dello stesso Alessandro VI del 1496 sulla relativa indulgenza plenaria che celebrò probabilmente la fine dei lavori nel tempio eleniano, furono rispettivamente il manifesto estetico e il riscontro giuridico – spirituale ben chiari. Nello stesso tempo, questi due fatti rappresentarono la testimonianza del sostegno dato ad una politica, quella spagnola, che, oltre a controbilanciare l’aggressivo espansionismo francese di Carlo VIII, sempre più si sarebbe dovuta misurare, anche per via delle nuove scoperte oltreoceano partite dal 1492 proprio dalla Spagna di Ferdinando d’Aragona, Isabella di Castiglia e, per così dire, del cardinale Mendoza, con la questione dei non credenti; una questione già incombente in tutta la sua drammaticità per quanto riguardava Turchi, Ebrei e Mori, che si aveva il dovere evangelico di convertire, e di farlo, almeno dal punto di vista dell’entourage borgiano, possibilmente senza violenza. Tutti i visitatori della rinnovata basilica di Santa Croce in Gerusalemme, guardando il nuovo affresco, avrebbero così avuto la conferma dell’indiscutibilità e dell’assolutezza spirituale del magistero evangelico della Chiesa di Roma.

Il merito di tutto ciò fu certo del cardinale Mendoza, ma bisogna riconoscere che il sostegno decisivo all’iniziativa, non poté non venire dallo stesso papa Alessandro VI, anche perché sembra che il Mendoza non sia mai stato a Roma.

 

III Una conclusione in prospettiva giubilare fra aspirazione all’unità politica, integrazioni e conversioni nella Spagna di fine Quattrocento

 

Come se una misteriosa volontà, trascendente anche l’astuzia della storia, avesse preordinato un incredibile quanto cruciale intreccio di vicende per farle consumare nel breve volgere di un anno, si può dire che tutto sembrò improvvisamente concludersi ed iniziare con il 1492, in coincidenza con la realizzazione di imprese epocali di cui fu protagonista la monarchia spagnola nata dalla riunione delle corone di Aragona e di Castiglia. L’impresa di Cristoforo Colombo, la morte di Lorenzo de' Medici, la Reconquista di Granada.

In quello stesso 1492, a conclusione di dure persecuzioni, sono espulsi gli Ebrei dalla Spagna. E ancora in quell’anno dapprima viene casualmente ritrovato nella basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme uno dei frammenti della croce di Cristo che Elena, di ritorno da Gerusalemme, aveva portato a Roma; quindi, nell’agosto, il cardinale Rodrigo de Borja y Doms diventa papa Alessandro VI, segnando così la sconfitta temporanea nella Curia romana dell’ala francofila capeggiata dal cardinale Giuliano Della Rovere, che, nel 1494, infatti, ripara presso il re di Francia, incoraggiandolo ad intraprendere la campagna d’Italia e a convocare un concilio che deponesse, per simonia, il Borgia.

Per quanto strano possa apparire, credo che il nuovo gruppo dirigente spagnolo a Roma, evidentemente in accordo con il cardinale Pedro Mendoza, Primate di Spagna, abbia voluto dare grande rilevanza esterna a questi fatti proprio con l’affresco staurologico nell’abside della basilica eleniana la quale, ancora nel 1492, era in corso di restauro per cura e non casualmente dello stesso Mendoza.

E mi sembra altrettanto logico pensare che, nel generale clima di ottimistiche aspettative determinatosi con l’elezione di Alessandro VI nella folta colonia spagnola ben organizzata a Roma fin dal tempo del papa Callisto III, questa pittura sia stata pensata non tanto per propagandare tout court l’idea di crociata ad Est, tradizionalmente fondata, anche in conseguenza della durezza dell’espansionismo turco, su una concezione aggressiva del Cristianesimo, bensì per puntualizzarne più in generale e almeno in linea di principio il significato eminentemente evangelico, soprattutto in rapporto ai gravi problemi di ordine etico sollevati da questo tipo di spedizioni militari “benintese”. Un significato evangelico che, pertanto, avrebbe dovuto trovare riscontro nell’aperto riconoscimento del valore assoluto delle conversioni al Cristianesimo. Queste, infatti, costituivano il tradizionale culmine di ogni vera azione evangelizzatrice, ispirata per antonomasia alla figura della croce, delle quali la rilevanza simbolica e spettacolare avrebbe preso ovviamente ed indiscutibilmente maggior vigore nella prospettiva, lo si sottolinea, dell’incombente Giubileo bicentenario del 1500; al volgere, dunque, del terzo cinquecentenario dalla nascita di Cristo, che era, già di per sé, periodo temporale evidentemente carico di simboli cristologici, per i suoi riferimenti trinitari. Con un’immediatezza semantica pari all’importanza del fine pedagogico da conseguire, in questo affresco la narrazione si distingue per equilibrio e misura davvero di ascendente pierfrancescano, così che gli episodi, sospesi atemporalmente fra storia e leggenda, scorrono in rapida successione, popolandosi di personaggi simbolicamente connotati da apodittica solennità gestuale.

Se si eccettua il piccolo e un po’ caricaturale episodio del duello fra Eraclio e Cosroe sul ponte sul Danubio, ridotto, qui, a modesto ruscello, in questa pittura il dato che più colpisce è la cura con cui sono state evitate le tinte forti: e tutto in un’atmosfera, in cui odi e passioni appaiono come sospesi in un’istantanea, tanto che perfino le soldatesche sono inconsuetamente colloquiali o addirittura contemplative, e l’azione sembra procedere, come in un’antica accademia greca, per confronti dialogici, al fine di persuadere che c’è continuità fra Antico e Nuovo Testamento e che sarebbe stato inevitabile il ritorno in comunione irenica a Gerusalemme delle tre religioni monoteistiche.

Sulla sinistra dell’affresco, infatti, come non vedere un’allusione all’Antico e al Nuovo Testamento rappresentati rispettivamente dall’ebreo Giuda e da Sant’Elena mentre dialogano quasi a contatto di gomito sull’ubicazione della croce di Cristo?

Il primo, a sottolineare la più antica origine della religione ebraica, è così raffigurato di spalle con le sembianze di un vecchio e venerando patriarca, nobilitato ancor più da una fluente canizie; secondo un’immagine, dunque, priva delle forzature propagandistiche negative anche di ordine fisionomico tipiche della tradizione antiebraica, ma in consonanza direi filologica con il testo della Legenda Aurea di Jacopo da Voragine, laddove si sottolineano l’autorevolezza e la sapienza dell’ebreo Giuda.

La seconda, invece, a rappresentare la recenziorietà ed attualità del messaggio di Cristo e della sua Chiesa, appare nell’aspetto di giovanissima regina (come non pensare a Isabella di Castiglia nota per fede intensa e zelo mistico?); quindi, nella scena centrale, avvenuta ormai la conversione dell’ebreo Giuda, raffigurato ancora in una posizione di solenne compostezza retorica, sempre Elena sostiene la croce trionfante ai cui piedi si inginocchia il cardinale Mendoza, il quale (è bene sottolinearlo), il 6 gennaio 1492, insieme ai suoi re, Ferdinando ed Isabella, entrò in Granada, sulla cui torre più alta fu emblematicamente innalzato, oltre al vessillo reale, proprio il gonfalone con il grande crocefisso d’argento, che, donato da Sisto IV, aveva preceduto l’esercito cattolico, durante tutta la sua spedizione.

L’ultima scena sulla destra dell’affresco eleniano ne conferma il significato di valore eminentemente spirituale ed ecumenico fondato sul tema delle conversioni di Ebrei e Mori. Vi appare, infatti, l’ebreo Giuda, ormai convertito, mentre commenta con un sapiente dal copricapo orientale in mezzo ad una turba di personaggi anch’essi con copricapi orientali secondo la moda all’ottomana diffusasi in Roma con la presenza del principe – ostaggio turco Jem, l’apparizione dell’angelo su Gerusalemme. Particolare non secondario, anzi evidentemente simbolico, è che Giuda appare qui raffigurato proprio accanto all’imperatore Eraclio in procinto di entrare a cavallo nella Città Sacra, preceduto, a sua volta, da uno scudiero moro giovinetto, con il quale, per la pacifica presenza e la modesta statura che lo caratterizzano, si volle alludere probabilmente ai retroscena di intrighi e congiure e agli accordi diplomatici che portarono alla resa di Granada, ma soprattutto al fatto che l’Islamismo era la più “giovane” delle tre religioni monoteistiche .

A riprova definitiva del significato di apologia delle conversioni e di resoconto positivo di una particolare situazione politica di cui l’affresco di Santa Croce in Gerusalemme è specchio, va quindi sottolineato un ultimo particolare non trascurabile, ancora una volta legato alla figura stessa dell’ebreo Giuda della Legenda Aurea, che è un po’ l’uovo di Colombo di tutta la questione.

Secondo l’agiografia, Giuda, dopo essersi convertito a seguito del risanamento dello storpio venuto a contatto con la vera croce fatta dissotterrare da Sant’Elena, si fece battezzare; cambiatosi, quindi, il nome in Ciriaco, divenne vescovo di Gerusalemme, e poi santo, per aver affrontato il martirio sotto il regno di Giuliano l’Apostata. Si legge, infatti, nella Legenda Aurea: “Dopodiché si fece battezzare e prese il nome di Ciriaco: fu fatto vescovo quando venne a morte il vescovo di Gerusalemme” e ancora: “Dopo poco Giuliano l’Apostata uccise il santo vescovo Ciriaco perché aveva ritrovato il legno della croce”.

Sembra consequenziale, pertanto, ritenere che nella pittura eleniana, con evidente ed allusivo ricorso onomastico a posteriori alla figura del traditore del Cristo, si volesse associare, in positiva corrispondenza binaria e in quello che potrebbe definirsi il contrappasso storico del riscatto, la figura dell’ebreo Giuda – Ciriaco alla croce del Golgota. In altre parole, se Gesù, tradito da Giuda Iscariota, era morto in Gerusalemme, tre secoli dopo un altro Giuda, convertitosi però e battezzato, riscattava, per così dire, il nome e l’evento più drammatici della storia dell’uomo, offrendosi catarticamente al martirio che, inevitabilmente, avveniva ancora una volta in Gerusalemme.

Erano così sintetizzate, con un messaggio pedagogico di grande suggestione e di forte contenuto dottrinario nella figura di Giuda – Ciriaco, le varie fasi del percorso spirituale esemplare per un cristiano: la conversione, il battesimo, la militanza pastorale nell’episcopato e la testimonianza suprema della fede che avviene attraverso il martirio.

In sostanza, con l’esaltazione della figura di Giuda – Ciriaco nell’affresco eleniano, si volle riconoscere esplicitamente l’efficacia della politica di Ferdinando e Isabella nei confronti della questione ebraica, ma si volle anche rendere nello stesso tempo omaggio ai numerosi Ebrei convertiti, che nel Regno di Spagna avevano, per di più, acquisito posizioni socio-economiche di tutto rispetto, nonché dignità di rango elevato nella corte e nella stessa gerarchia ecclesiastica, grazie anche ad accorte unioni matrimoniali con famiglie dell’antica nobiltà castigliana.

Da un punto di vista più propriamente dottrinario, invece, si può a mio avviso considerare l’affresco di Santa Croce in Gerusalemme, eseguito in un tempo in cui il mondo cattolico era costantemente e contraddittoriamente attraversato da intense luci e ombre profonde, il primo grande documento figurativo di valore ecumenico dell’età moderna; con questo una parte importante della Chiesa del Rinascimento dette prova di una rinnovata e sincera attenzione al tema delle conversioni, viste, almeno negli intenti, non solo in termini di confronto di posizioni politiche rigide, ma in una chiave di lettura più strettamente evangelica e nella palingenetica prospettiva giubilare che l’incombente e simbolica come non mai scadenza tricinquecentenaria del 1500 veniva ad imporre.

Del resto, lo stesso svolgimento della narrazione da sinistra a destra di questo affresco offriva, in una visione diacronica della storia, più che un messaggio una profezia: se tutto era iniziato a Gerusalemme con tre croci, realizzatosi il Trionfo della vera Croce, posta intenzionalmente al centro della narrazione e quindi della storia dell'uomo, tutto si sarebbe definitivamente concluso con il rientro del Sacro Legno a Gerusalemme.


 

    [1] Questa comunicazione è stata estratta da un mio più ampio saggio, in corso di stampa a cura della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Roma, che sarà disponibile dal gennaio 2001. In quella sede il lettore interessato potrà trovare una più articolata trattazione dell’argomento, ma anche, di questo, i riferimenti bibliografici, la documentazione grafica e fotografica, la discussione dei risultati tecnico-scientifici acquisiti con indagini fisico-chimiche eseguite in occasione del restauro dell’affresco eleniano da me progettato e diretto nel biennio 1998-99.

 


 

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POESIE

 

di Mario Luzi

Accademico ad Honorem della Pontificia Insigne Accademia

di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon

 

 

                                         Alla Madre

 

                                               Forse, intanto il mistero, nel chiarore,

                                               del mio ricordo un'ombra apparirai,

                                               un nonnulla vestito dolore.

                                               Tu, non diversa, tu come non mai:

 

                                               solo il paesaggio muterà colore.

                                               In un nembo di cenere e di sole

                                               identica, ma prossima al candore

                                               del cielo passerai senza parole.

 

                                               Io ti vedrò sussistere nel vago

                                               degli sguardi serali, nel ritardo

                                               dei fuochi che si spengono in un ago

                                               di luce rossa a cui trema lo sguardo.

 

                                               (Mario Luzi, da Un brindisi, 1942)

 

 

 

                                   Durissimo silenzio

 

                                               Durissimo silenzio

                                               tra noi uomini e il cielo,

                                                                                  arido

                                               per aridità di mente

                                               o scomparsa degli angeli

                                               rientrati nel Verbo, muti,

                                               alla sorgente,

                                                                       afasia, anche,

                                               o morte dei profeti,

                                                                       ma colmato

                                               da nuvole, da pietre,

                                               da alberi, animali,

                                                                       da quel loro

                                               ininterrotto afflato,

                                                                       tutto, creaturalmente.

 

                                               O anima del mondo,

                                               da tutto ferita,

                                               da tutto risarcita,

                                               non piangere, non piangere mai —

                                                                                              dice nel sonno

                                               la sua amorosa lungimiranza.

 

                                               (Mario Luzi, da Viaggio terrestre e celeste

                                               di Simone Martini, 1994)

 

 

 

                                          E', l'essere

 

                                               E', l'essere. E'.

                                               Intero,

                                               inconsumato,

                                               pari a sé.

                                                                       Come è

                                               diviene.

                                                                       Senza fine,

                                               infinitamente è

                                               e diviene,

                                                                       diviene

                                               se stesso

                                               altro da sé.

                                                                       come è

                                               appare.

                                                                       Niente

                                               di ciò che è nascosto

                                               lo nasconde.

                                                                       Nessuna cattività di simbolo

                                               lo tiene

                                                                       o altra guaina lo presidia.

                                                                                              O vampa!

                                               Tutto senza ombra flagra:

                                               E' essenza, avvento, apparenza,

                                               tutto trasparentissima sostanza.

                                               E' forse il paradiso

                                               questo? oppure, luminosa insidia,

                                               un nostro oscuro

                                               ab origine, mai vinto sorriso?

 

                                               (Mario Luzi, da Viaggio terrestre e celeste

                                               di Simone Martini, 1994)

 


 

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POESIE

 

di Luciano Luisi

Accademico della Pontificia Insigne Accademia

di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon

 

 

 

                                         Al tramonto

 

                                               Non andar via tu che ancora sai darmi

                                               questo parvente calore, l'illusione

                                               che la vita non passi, e disegni

                                               più struggente il contorno delle cose

                                               come se fosse il mio

                                               l'ultimo sguardo a lasciarle;

 

                                               Non andartene tu che mi tendi

                                               rasserenanti le mani

                                               e penetri nel sangue a farvi gora,

                                               e prati e mare e spazio si dilatano

                                               in te, come se fosse il mio sul mondo

                                               il primo sguardo attonito a scoprirlo;

 

                                               resta così sopra di me ad avvolgermi

                                               sospesa,

                                               come tutto che amiamo è sempre in bilico,

 

                                               non andartene

                                               luce del giorno in fuga dietro gli alberi.

 

                                               (Luciano Luisi, da La vita che non muta, 1978-1980)

 

 

 

                                       Bevetene tutti

 

E poi, preso un calice rese grazie e lo porse loro dicendo: « Bevetene tutti, perché questo è il sangue mio... »

Matteo 26-28

 

                                               E dopo disse: « Bevetene tutti,

                                               questo è il mio sangue ». E cosa mai pensarono

                                               loro, storditi, pure avvezzi ai flutti

                                               di quell'oceano d'anima? Guardarono

 

                                               Lui che levava il calice, e dell'uno

                                               gli occhi andarono all'altro. E: sarà vero?

                                               si chiedevano. E il pane che ad ognuno

                                               aveva dato? Un macigno il mistero

 

                                               di quelle oscure parole! La mente

                                               come perduta dentro un labirinto.

                                               Ma, ecco, in quel silenzio, la lucente

 

                                               voce: « Andate, rifate il mio cammino.

                                               Lo spettro della morte sarà vinto,

                                               voi muterete nel mio sangue il vino ».

 

                                               (Luciano Luisi, poesia inedita)

 

 

 

                                            L'ombra

 

Vegna ver noi la pace del tuo regno, ché noi ad essa non potem da noi s'ella non vien, con tutto nostro ingegno.

Dante, Purgatorio, XI, 7-10.

 

                                               Dirada l'ombra, Tu che puoi, diradala

                                               per Tua misericordia, non perché

                                               l'abbiamo meritato, non c'è strada

                                               senza il Tuo aiuto per giungere a Te.

 

                                               E dunque rompi il silenzio, conforta

                                               chi ostinato ti cerca dove le

                                               tue impronte sembrano perse. La porta

                                               appare sempre più stretta anche se

 

                                               tentano le preghiere di violarla.

                                               E chi ci salva se resti lontano?

                                               L'anima attende un Tuo gesto a mondarla

 

                                               con quell'acqua che sgorga da Te solo.

                                               come potrà se non tendi la mano

                                               staccarsi dalla terra nel suo volo?

 

                                               (Luciano Luisi, poesia inedita)

 

 

 

                                  Preghiera al Padre

 

                                               Padre nostro che sei nei cieli e in terra

                                               qui, fra noi, invisibile e muto,

                                               e vedi il male che facciamo

                                               con il corpo e la mente, orgogliosi

                                               di questa nostra libertà di scegliere,

                                               Tu che ti sei umiliato

                                               nella carne dell'uomo

                                               accettando che il Figlio, l'incolpevole,

                                               che ha fatto sue, per amore,

                                               tutte le colpe del mondo,

                                               si piegasse all'oltraggio della morte

                                               — per noi che non vediamo

                                               che è soltanto una duna che il vento

                                               spazza e cancella, la strada

                                               su cui camminiamo —

                                                                                  fa' che sia

                                               la nostra volontà solo il riflesso

                                               del Tuo paterno disegno incomprensibile,

                                               che nel Tuo nome regni

                                               la concordia del pane fra le genti,

                                               e fa' che non la terra,

                                               con i suoi incanti, con i suoi legami,

                                               sia l'ultimo pensiero, ma la luce

                                               che Tu prometti, Tu che sei la via,

                                               e ci raccolga nel suo infinito abbraccio

                                               la Tua misericordia.

                                                                                  E così sia.

 

                                               (Luciano Luisi, poesia inedita)

              


 

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A NOME DEL SANTO PADRE

IL CARDINALE POUPARD CONSEGNA

IL PREMIO DELLE PONTIFICIE ACCADEMIE

 

 

Nel corso della V Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie, tenutasi nell'Aula del Sinodo dei Vescovi, il Santo Padre Giovanni Paolo II, tramite l'Em.mo Cardinale Paul Poupard, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie, ha consegnato per la quarta volta il Premio delle Pontificie Accademie.

 Presentata dal Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie, l'Associazione Amici della Musica « F. Fenaroli » di Lanciano è stata premiata per il suo trentennale impegno in favore di giovani musicisti provenienti da vari Paesi per partecipare a sessioni di formazione musicale, sovvenzionate dalle Autorità nazionali, regionali e locali.

 L'Associazione Amici della Musica « F. Fenaroli » di Lanciano corrisponde perfettamente agli scopi definiti dal Santo Padre nell'istituire il Premio delle Pontificie Accademie, in quanto essa è una istituzione, la cui finalità e attività « contribuisce in modo rilevante allo sviluppo dell'umanesimo cristiano e delle sue espressioni artistiche » presso la gioventù.

 Quindi, il Cardinale Poupard, a nome del Santo Padre, ha consegnato alla Signora Filomena Di Renzo, Presidente dell'Associazione Amici della Musica « F. Fenaroli » di Lanciano, un assegno di Lit. 60.000.000 e una pergamena con la seguente scritta in latino:

 

summus pontifex ioannes paulus ii

proponente consilio pro academiarum pontificiarum coordinatione

bene meritae consociationi

« amici della musica fedele fenaroli »

e dioecesi lancianensi-ortonensi

praemium academiarum pontificiarum

benevole tribuit.

Ex aedibus Vaticanis, die VII mensis Novembris A.D. MM.

 


 

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