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NONA SEDUTA PUBBLICA DELLE PONTIFICIE ACCADEMIE

Contributo delle Pontificie Accademie all'umanesimo cristiano

 

La «via pulchritudinis»,

cammino di evangelizzazione e di formazione umana

9 novembre 2004

 

Martedì, 9 novembre 2004. alle ore 10.00, si terrà, in Vaticano nell'Aula nuova del Sinodo (ingresso Aula Paolo VI), la IX Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie. Il Sommo Pontefice consegnerà il Premio delle Pontificie Accademie "attribuito periodicamente a una persona — giovane universitario o artista — o a una istituzione, la cui ricerca, opera o attività contribuisca in modo rilevante allo sviluppo delle scienze religiose, dell'umanesimo cristiano e delle sue espressioni artistiche".

PROGRAMMA

10.00

Coro: Ludovico da Viadana: Exsultate justi

Apertura dei lavori: Sua Em. il Cardinale Paul Poupard, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie

10.20

La «Via pulchiritudinis»: libertà dell'estetica e dignità della persona umana

Relazione del Prof. Vitaliano Tiberia, Presidente della Pontificia Insigne Accademia dei Virtuosi al Pantheon

10.40

Coro: Tommaso Ludovico da Vittoria: Ave Maria

10.45

La bellezza come cammino di evangelizzazione e di formazione umana

Relazione del Prof. Mario Luzi, Membro della Pontificia Insigne Accademia dei Virtuosi al Pantheon

11.05

Coro: Giovanni Pierluigi da Palestrina: Super flumina Babilonis

11.10

Il Tintoretto nella Scuola Grande di San Rocco

Documentario del Regista Prof. Vittorio Di Giacomo, Segretario della Pontificia Insigne Accademia dei Virtuosi al Pantheon

11.55

Coro: Luca Marenzio: Estote fortes in bello

12.00

Indirizzo di saluto del Cardinale Paul Poupard

Discorso del Santo Padre

Consegna del Premio delle Pontificie Accademie

Ringraziamento dei Premiati

Coro: Lorenzo Perosi: Tu es Petrus

 


 

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APERTURA DEI LAVORI

DEL CARDINALE PAUL POUPARD

 

Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura

e del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie

 

 

Eminenze ed Eccellenze Reverendissime,

Signori Ambasciatori,

Illustri Accademici,

Signore e Signori,

 

sono veramente lieto, e profondamente onorato, di accogliervi oggi in quest'Aula del Sinodo, per celebrare insieme la IX Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie, riunite nel Consiglio di Coordinamento tra Accademie Pontificie, creato da Giovanni Paolo II per favorire lo scambio culturale e la collaborazione tra le Istituzioni accademiche che ne fanno parte e promuovere, col concorso e l'impegno di tutti, un nuovo umanesimo cristiano per il terzo millennio, cioè un progetto di vita ed una cultura profondamente radicati in Cristo, immagine del Dio invisibile e manifestazione della gloria di Dio.

 

1. La IX Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie, come afferma chiaramente il titolo La Via pulchritudinis, cammino di evangelizzazione e di formazione umana, verte sulla via della bellezza quale percorso privilegiato di annuncio del Vangelo, di trasmissione della fede e di formazione delle persone.

La via della bellezza si esprime da sempre attraverso vari percorsi espressivi, ma ha nelle arti la sua corsia preferenziale, la sua espressione più eloquente ed attraente.

Proprio per questo la Seduta è stata organizzata dalla Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, che raccoglie gli Accademici provenienti dal variegato mondo delle arti e delle lettere.

Saluto molto cordialmente i Signori Cardinali, Arcivescovi e Vescovi presenti, come pure i Signori Ambasciatori che ci onorano con la loro presenza, i Presidenti e gli Accademici delle Pontificie Accademie. Rivolgo un particolare e riconoscente saluto al Presidente della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, il Dott. Vitaliano Tiberia, che con grande generosità anima le attività dell'Accademia, e quindi a tutti gli amici che partecipano a questo solenne appuntamento annuale.

Un sentito grazie va, infine, agli illustri Relatori che, a nome dell'Accademia organizzatrice, ci offriranno le loro riflessioni, certamente interessanti, o ci mostreranno come è possibile percorre la via pulchritudinis.

 

2. Come già per la Seduta Pubblica del 2000, sempre organizzata dalla stessa Pontificia Accademia, punto di riferimento ineludibile per il tema oggetto di questo nostro incontro è la Lettera agli Artisti di Giovanni Paolo II, che ho avuto la grande gioia e l'onore di presentare in Sala Stampa Vaticana il 23 aprile del 1999.

La Lettera è divenuta un caposaldo nella riflessione sulla bellezza ed un vero e proprio manifesto del rinnovato dialogo della Chiesa con gli artisti e con tutti coloro “che con appassionata dedizione cercano nuove «epifanie» della bellezza”.

A loro, ma in fondo anche a tutti noi, il Santo Padre ricorda che siamo chiamati a servire la bellezza. Nel N. 3 della Lettera Egli ricorda che il tema della bellezza è antico quanto il mondo, giacché Dio, creando, fece le cose non solo buone ma anche belle, come è scritto nel Libro della Genesi, traducendo correttamente il termine ebraico tōb.

Il Papa, partendo dalla rivelazione biblica, così afferma: “La bellezza è in un certo senso l'espressione visibile del bene, come il bene è la condizione metafisica della bellezza”.

Per approfondire, allora, la tematica specifica di questa Seduta Pubblica, in cui vogliamo cogliere soprattutto la valenza evangelizzatrice e formativa della via pulchritudinis, vorrei partire dalla consapevolezza, particolarmente illuminante, manifestata dal Santo Padre sulla lontananza, a volte addirittura una opposizione, tra il mondo dell'arte e quello della fede.

Ciò nonostante, prosegue Giovanni Paolo II, “l'arte, anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, quando è autentica, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l'arte continua a costituire una sorte di ponte gettato verso l'esperienza religiosa. In quanto ricerca del bello, frutto di un'immaginazione che va al di là del quotidiano, essa è, per sua natura, una sorta di appello al Mistero” (N. 10).

 

3. Proprio l'immagine del ponte, dell'arte e della bellezza come ponte tra cultura e fede, è emersa durante l'ultima, recente Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, suggerendoci un’interessante pista di riflessione per approfondire il ricco tema della Via pulchritudinis, una via che vogliamo percorrere con entusiasmo e creatività, per costruire nuovi ponti, nuove occasioni di dialogo con quanti sono alla ricerca della bellezza autentica, come della verità e della bontà.

Vorrei concludere ricordando una bella e significativa immagine usata dal grande scrittore russo Aleksandr I. Solženicyn, il quale, nel discorso per il ricevimento del Premio Nobel, ben consapevole dei grandi cambiamenti che interessano soprattutto la cultura occidentale, afferma: “Questa antica triunità della Verità, del Bene e della Bellezza non è semplicemente una caduca formula da parata, come ci era sembrato ai tempi della nostra presuntuosa giovinezza materialistica. Se, come dicevano i sapienti, le cime di questi tre alberi si riuniscono, mentre i germogli della Verità e del Bene, troppo precoci ed indifesi, vengono schiacciati, strappati e non giungono a maturazione, forse strani, imprevisti, inattesi saranno i germogli della Bellezza a spuntare e crescere nello stesso posto e saranno loro in tal modo a compiere il lavoro per tutti e tre” (Lezione per il Premio Nobel, in Opere, t. IX, YMCA Press, Vermont-Paris 1981, p. 9).

           Se questo è vero per il mondo moderno, è altrettanto vero per la vita e la missione della Chiesa, che deve saper sapientemente cogliere questa opportunità, percorrere intelligentemente questa via, per testimoniare efficacemente e comunicare il Vangelo, come pure i suoi tesori di umanità e di cultura, per promuovere un nuovo umanesimo cristiano per il terzo millennio, finalità essenziale anche di questa Seduta Pubblica e del Premio delle Pontificie Accademie, che oggi verrà nuovamente assegnato.

 

 


 

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LA «VIA PULCHRITUDINIS»:

LIBERTA' DELL'ESTETICA E DIGNITA' DELLA PERSONA

 

Relazione del Prof. Vitaliano TIBERIA

Presidente della Pontificia Insigne Accademia

di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon

 

 

La convinzione di stabilire attraverso la categoria dell’estetica un dialogo con tutti gli uomini indipendentemente dal loro status ideologico, fa considerare preliminarmente la persona, secondo la bella definizione di Luigi Pareyson “[…], forma […], opera conclusa e definita col suo carattere singolare e inconfondibile […], unica, né parte di un tutto, cioè particolare ma intera”. [1] Un riconoscimento, questo, che, nel suo transitivo ampliamento, implica l’attribuzione di un valore non troppo immanentistico al processo creativo di un’opera d’arte, a cui, pertanto, si deve riconoscere una speciale dimensione ontologico-giuridica, nel modo analogo per cui, domandandoci perché c’è l’essere e non il nulla, si considera il fondamento del diritto un problema metafisico essenziale; anche l’opera d’arte, dunque, nel suo essere astrazione somma di un dato reale, viene a godere di una sua unicità esemplare e tradizionale che la pone al riparo dalle esegesi immanentistiche dichiaratamente funzionali sia al mercato sia a collaterali e insoddisfacenti significati socioantropologici.

L’unicità della persona, dunque, che, anche nel suo essere forma, è straordinario riconoscimento giuridico, si rispecchia nel momento del suo più suggestivo operare: il fare artistico. In questo, la sublime “finzione”, su cui si fondano genesi e realizzazione di un’opera d’arte, dà spesso un risultato, che, esulando dalla categoria dell’etica “stricto sensu”, anche se il suo contenuto rimane sia pure ambiguamente a questa collegato, appare essere di universale “condivisione” e pronto a rendere la via pulchritudinis la più frequentata del mondo! Ma i suoi viandanti non saranno folle turistico-culturali spinte da televisivi o internettiani persuasori spettacolarmente proteiformi, interessati solo ai vantaggi materiali; saranno, uomini educati a credere che l’estetica, in quanto filosofia, non offre quietisticamente una novella dimensione arcadica, perché anche nella regione d’Arcadia si cela la morte, e  tanto meno può legittimare  lo sfruttamento mercificatorio della bellezza; convincimento comune sarà l’idea che, attraverso l’estetica, si riconoscono la  forma e la dignità irripetibili tanto della persona quanto dell’opera d’arte. Fondamentale s’imporrà il ritorno ad una pedagogia del giudizio estetico che, accordando natura e libertà, altro non reclami, per dirla con Kant, che il piacere del bello, ben visibile, per altro, anche nell’accezione tomistica di sigillo impresso da Dio  sulla creazione. Essendo, infatti, il gusto l’organo di giudizio degli oggetti del sentimento soggettivo e di potenziale condivisione universale, proprio il ritorno all’educazione al gusto del bello è la chiave d’accesso alla via pulchritudinis. Un gusto del bello derivato dall’eredità delle grandi sintesi medievali e  dalla compatibilità pressochè genetica dell’uomo con una realtà storicoartistica unica per ricchezza qualitativa e tipologica come quella occidentale, che ha concretizzato, anche inconsapevolmente il legame di estetica ed etica particolarmente nell’anima popolare.

Non casualmente, fino a poco  tempo fa, per correggere o per lodare l’azione di un bambino, la madre non ne rilevava eticamente l’aspetto buono o cattivo, ma  sottolineava esteticamente il bello o il brutto che era stato compiuto in quell’azione. Ma l’educazione alla forma esige una forma dell’educazione libera da relativismi ed agnosticismi di comodo e soprattutto libera dall’idea che l’estetica e più in generale la cultura siano funzionali alla ricchezza; questa non garantisce lo sviluppo armonicamente umanistico dell’economia, mentre, soprattutto per i giovani, può diventare un idolo a cui vendere anche la dignità della persona.

Dice Pareyson:”Forme sono le persone se fissate in un istante del loro sviluppo, e forme sono le opere riuscite delle singole persone: […] se una filosofia dell’uomo è sempre una filosofia della persona né può esserci filosofia che come indagine personale sulla persona, bisogna concludere che non c’è filosofia della persona che non sia insieme una filosofia delle forme. La mobilità indefinita e la storica sviluppabilità dell’uomo non sono che plasticità, che tende a plasmarsi in forme e a plasmare forme: mobilità ch’è sforzo di formazione, impeto di plasmazione, slancio di figurazione”.[2]

 L’estetica dunque si dispone sul crinale sottile che divide la riflessione filosofica dall’esperienza, così che non c’è coscienza artistica senza conoscenza certa di qualche cosa, senza la volontà affettiva di trascendere se stessi e l’oggetto. Una volontà produttrice di un atto morale che, dal punto di vista estetico, tuttavia, deve offrire risultati emozionalmente belli, anche se l’opera d’arte non è sfogo pietistico o cerebrale elucubrazione del proprio soggettivismo, ma catarsi del dato reale oggettivizzato e quindi sublimato nella dimensione artistica. Ora, è proprio questa particolare condizione, che, scaturendo da un atto di volontà libero da costrizioni e disinteressato della vicenda esistenziale dell’oggetto, determina l’azione  creatrice dell’opera d’arte che si universalizza inspiegabile proprio grazie alla sua debolezza potente di non avere più legami materiali con la realtà, anche se da questa è derivata. In verità, latamente unificante sul piano estetico è l’interpretazione simbolica e, in misura minore, il ricorso all’analogia. La prima, constatando la possibilità di rappresentare l’Assoluto in forme sensibili, o ,parafrasando Filone d’Alessandria, di migrare verso l’eterno permette, dopo la lacerazione, di riconoscersi, indipendentemente dalle divisioni dello spazio e dal trascorrere del tempo,  all’interno di una stessa cultura; la seconda accompagna il riconoscimento iniziale di un oggetto destinato, come dice Cesare Brandi, alla “realtà senza esistenza dell’opera d’arte”. [3] Infatti, precisa Brandi, “con l’arte la coscienza riduce l’obbiettivo dell’esistenza al soggettivo della coscienza, creando una realtà non esistenziale: con l’atto morale il soggettivo della propria esistenza è sacrificato all’obbiettività suprema della legge […] con l’atto creativo si pone la realtà fuori del flusso dell’esistenza, con l’atto morale si fa coincidere l’esistenza con la configurazione razionale dell’essere. Ambedue gli atti rispecchiano allora la necessità fondamentale della coscienza di trascendere i limiti dell’esistenza e di attingere all’assoluto: ma poiché la coscienza ha due modi di conoscenza, per intuizione l’assoluto si porrà come realtà pura, per l’intelletto come configurazione razionale dell’essere, quale, attraverso la sua stessa storica esistenzialità, si rivela alla coscienza nella legge morale”.[4] E’ questo il dualismo ineludibile di arte e moralità, da cui discende l’irriducibilità dell’arte a mero strumento funzionale all’economia e alla politica, pena il suo stravolgimento in radice e la conseguente sua riduzione a mezzo promozionale della finanza o di propaganda del potere. Un potere che, contrariamente al totalitarismo materialistico del Novecento antagonista dell’arte vista come sovrastruttura borghese, oggi si rivolge con attenzione alla categoria dell’estetica per dare sembianze persuasive al proprio nichilismo globalistico. E’ questa una forma di neohegelismo deteriorato, che, disperdendo ancora una volta l’estetica e quindi il bello nell’indistinto di una rinnovellata, apparente, teoria generale dello spirito e del suo divenire storico non importa se solo verso fini virtuali, la riduce ancora una volta materialisticamente, dopo averla usata, ad uno dei tanti episodi destinati ad essere superati dalla dialettica imposta dalla storia che oggi sceglie come tesi dominante l’apologia del globalismo della finanza. Per altro verso, una sorta di alternativa neopositivistica ritiene ancora l’arte funzionale alle varie circoscrizioni antropologiche, psicologiche e sociologiche; ma anche queste non possono spiegare di un’opera d’arte la libertà alla sola luce delle dinamiche collettivistiche, mentre ne fraintendono sia il suo essere momento di piacere ed esperienza disinteressata di verità, anche se mezzo pedagogico eletto, sia il suo essere infinito di un artista che, creando un’opera, è persona in rapporto solo con se stesso e con l’Assoluto. Un processo di consapevolezza dell’esistente è il fare artistico, dunque,  e di indipendenza da condizionamenti che induce l’artista a ricercare liberamente il bello come perfezione sensibile nel trascendimento razionale delle vicende umane. L’azione artistica non è frutto di indistinto individualismo plutofiliaco ma è slancio vitale, distinto, come pensava San Tommaso, della persona e nello stesso tempo relazione con la realtà, in cui si annida il bello. Così l’atto di fare un’opera d’arte, unica e irripetibile nella sua bellezza assoluta, si rispecchia nel riconoscimento della libera dignità della persona che la crea e che l’apprezza anche alla luce di un’husserliana  epochè fenomenologica, perchè anche questa postula la contemplazione disinteressata, il libero riconoscimento della realtà assoluta del bello come sintesi sublimata di esperienze materiali e di convincimenti spirituali. In questo senso, torna attuale il pensiero tomistico di un bello che si distingue dal bene concettualmente ma non in re. Nel naufragio di tante certezze logiche moderne o contemporanee, l’antico paradosso callistico per cui ciò che è bello è buono, può tornare ad offrirsi come viatico universale per percorrere la via pulchritudinis. Questa sarà illuminata dallo splendore interiore della forma, realtà pura e senza contingenze empiriche, pensiero dominante che rivendica, perenne se non eterno come lo sono le virtù, l’unitarietà della bellezza ad un tempo visibile e spirituale.

L’edonismo non epicureo ma dimessamente globalizzante del nostro tempo apparirà allora come uno dei vari momenti storici di accidentale sospensione della vitalità dell’essere al cospetto dell’ideale che, scavalcando i millenni, ci ha consegnato la certezza che il bello, proprio perché oggetto di contemplazione disinteressata, può congiungersi con il bene producendo come unica ricchezza la crescita della persona, lo sviluppo della civiltà,  l’accostamento dell’uomo alla verità. Diversamente dal bene, che non sempre coincide con il giuridicamente corretto, Pulchrum, Verum, Bonum in simbiosi non appartengono alla sfera delle nostalgie intellettuali, ma convergono in un unico pensiero.  Oggi più che mai debbono divenire un riferimento essenziale ad un’ identità di fede e cultura che è stata sempre presente soprattutto nella coscienza di chi ha anteposto l’immaginazione all’intelletto ed ha creduto nella religione dell’interiorità anziché in quella della cultura, la quale, se, priva di fede, non ha impedito il progredire dell’alienazione né la crisi dell’idea dell’esistenza del bello, dopo aver decretato la morte stessa dell’arte e di Dio.

Mercificando l’arte, soprattutto quella di soggetto religioso, come sta avvenendo oggi, si impoverisce ulteriormente il sistema dei simboli che, contrariamente alla “tardo-borghese religione della cultura” di cui parla Gadamer[5], ha sistematizzato per più di due millenni “l’evocazione magica di un possibile ordine sacro, dovunque esso sia” nella prospettiva di una piena esperienza del bello ed in particolare del bello, nell’arte, in cui il simbolo è la “illogica” chiave di lettura. Del resto, l’assenza di simboli si rispecchia nell’impersonalità dell’uomo contemporaneo che, perduta  la capacità di capire la paradossale proiezione dell’infinito nel sensibile e di far corrispondere  il pensiero al linguaggio e rifiutandosi di dare significato reale alla vita, non riesce più a conoscere il mondo che abita e si autocondanna all’esilio dalla stessa comprensione estetica della realtà, che non si può  raggiungere con un semplice “click” informatico! Il simbolo non è più compreso, perché, come sottolinea Galimberti, non enuncia né esplicita , né è ciò che si pensa ma è ciò in cui si pensa.[6]  Non sfugge quindi la centralità del richiamo, contenuto nell’enciclica Fides et Ratio, sul sacrificio moderno della filosofia che comprende anche l’estetica, in vantaggio di altre “forme di razionalità […] orientate come ragione strumentale  al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere”.[7] Necessaria sarà, pertanto, lo si sottolinea, una pedagogia rinnovata che, nel pieno riconoscimento della libertà dell’estetica dalle urgenze materialistiche, alimentate dall’attuale fabbrica delle tante verità di comodo, restituisca alla persona la dignità che naturalmente le compete. In questo senso, diverrà fondamentale, come hanno teorizzato Gadamer e Pareyson, un’educazione alla conoscenza come ermeneutica, al fine di evitare i fraintendimenti della realtà virata verso il soggettivismo, e comprendere la formatività di un’opera d’arte, il suo divenire filologico alla luce delle istanze storica ed estetica che strettamente le competono.

“L’ermeneutica”, osserva Gadamer, “colma la distanza che v’è tra spirito e spirito, e rende accessibile l’estraneità dello spirito estraneo”, in modo “da percepire ciò che è sempre un qualcosa di più di un senso che possa essere indicato ed appreso.”[8] E non si collega ciò a quell’ordinatio rationis ad bonum commune che assegna all’opera d’arte, in quanto prodotto storico di un libero atto di volontà della persona, unicità ed universalità non sacrificabili sull’altare pagano del soggettivismo plutolatrico? Se è vero che la moralità non deve condizionare il processo creativo artistico, è tuttavia indubitabile che il prodotto di tale dinamismo formale deve essere compreso in una circoscrizione etica che abbia come fine principale non l’azione o la ragione strumentale ma la bellezza del  bene comune, il rispetto della dignità della persona e, in definitiva, il progredire della civiltà. Il carattere dinamico della forma, allora, come ha sottolineato Umberto Galimberti commentando l’estetica di Pareyson, sarà utile per non sopprimere la parola “verità” in vantaggio di quell’agire strumentale, che ha esaltato, a scapito della filosofia, le scienze umane e, innalzando un orizzonte esistenziale ad orizzonte della storia, ha impedito e impedisce un’autentica ermeneutica della bellezza;[9] ha fatto sì che l’uomo vedesse in Dio, come ha osservato Buber, la proiezione di sé stesso, decretandone, se non la morte, l’eclissi con il diaframma del proprio “onnipotente” ego.

Non si postula, dunque per l’estetica una moralità preconcetta, che è volontà soggettiva e individualisticamente chiusa a difesa di privilegi non ammessi dall’etica umanistica, ma un nuovo modello di eticità che segni il compimento del bene comune nella libertà della conoscenza da parte della persona del bello, coltivato, in quanto tale dalla famiglia e dalla scuola e pienamente e disinteressatamente condiviso e valorizzato dallo Stato non come un fondamento ideologico ma come garanzia della dignità intangibile e inalienabile della persona che si fa bene comune. Se lo stesso Hegel affermava che l’eticità “è il concetto di libertà divenuto mondo esistente e natura dell’autocoscienza”[10],  si può pensare per analogia che l’opera d’arte, dandoci un’emozione o comunicandoci una conoscenza storica o mitologica, ci induce al confronto con noi stessi e ad interrogarci sulla necessità di accostarci alla verità che è anche  oggettivizzazione del reale. A ben guardare, infatti, l’estetica e quindi l’ermeneutica del bello  disinteressato possono configurarsi per l’uomo contemporaneo, sempre più prigioniero dell’ideologia della ricchezza per tutti ed incurante, di conseguenza, del significato della propria vita, come riferimenti concreti (lo ha teorizzato Von Balthasar e l’ha trattato ancora recentemente Bruno Forte) per il recupero del vero e del bene.[11] La bellezza manifestata soprattutto dalle opere d’arte può divenire allora “l’evento di una donazione, dove il tutto si offre sul frammento, l’Infinito si abbrevia in ciò che è minimo”,[12] dando forma e significato alla vita. In realtà, il bello artistico non è il solo ad avere la prerogativa di offrire edonismo o soddisfazione; come dice Nelson Goodman non paradossalmente, anche una certa ricerca scientifica può procurare soddisfazione, così che anche una dimostrazione matematica può dar piacere – come la vista di un quadro o la lettura di una poesia.[13] Allo stesso modo per cui procurano piacere non solo una pittura di Raffaello o di Caravaggio, ma anche un quadro o una scultura astratti che rispecchiano il percorso dell’anima del loro creatore che raggiunge l’assolutezza del bello attraverso la pura datità ottica dei segni o dei volumi.

La bellezza di un’opera d’arte, una volta apparsa, non vive una vita circoscritta, isolata, come una semplice proiezione, sia pure reale, di un frammento di esistenza, di cui si può anche fare a meno perché non riguarda il bene comune e che si può prendere o acquistare come qualsiasi merce. In verità, nell’opera d’arte, come nella filosofia, convergono sia l’esperienza conoscitiva sia quella estetica, e il trascendente si rende accessibile nella rappresentazione del creato anche dove sembra assente la fede, come dimostra il sistema dei simboli in cui si dispongono un dipinto o una scultura che vivono nella sublime finzione dell’estetica, e nello stesso tempo comunicano messaggi storicamente reali. Perché una creazione artistica ha una sua ontologia paradossalmente ambigua che declina contemporaneamente l’essere e il nulla.

All’arte ci si accosta percorrendo due vie: una ne investiga, attraverso la struttura, la vera essenza; l’altra vi trova i messaggi collegati alla storia che giungono alla coscienza. Simbiosi di realtà pura e di esistenza, le opere d’arte sono la carta d’indentità, secondo un noto aforisma  di Protagora, evocato da Brandi, delle “cose che non sono quello che non sono”, proprio perché, pur reali, postulano il proprio riconoscimento in una realtà che non è quella delle urgenze utilitaristiche della propaganda e tanto meno dell’economia propalata prima dal consumismo massificatorio ed ora dal globalismo nichilistico, proteso ad incentivare la spinta ad avere, vanificando, di conseguenza,  progressivamente sia la fede che la cultura. Un politico italiano ha pubblicamente affermato parlando di economia che chi è ricco è stato più bravo! Come si legge in un documento della CEI, su etica e finanza, l’avidità è “volontà illimitata a un possesso illimitato, ad avere di più in quanto eccedente il necessario e talora il conveniente […]”. Ne deriva che “lo spirituale viene non solo espunto come estraneo, ma anche corrotto perché ridotto a materiale”.[14]

Ebbene, solo nel riacquisto di un’autentica filosofia dell’essere, che ridia vita alla relazione uomo-natura attraverso l’estetica, che è il sale del mondo, si potrà probabilmente tornare a capire la distinzione fra creazione e recezione, fra esemplarità del bello e alienazione del quotidiano ridotto ad un eterno presente più o meno virtuale, incurante del passato e decisamente agnostico davanti alla perdita del futuro. Una perdita che ha ridotto l’essere all’esistere, ed ha scelto come ha sottolineato Brandi, tanti miti laici da promuovere  a feticci:[15] lo sport come spettacolo e non azione ed ora, aggiungo io, affare da borsa valori con risvolti anche giudiziari, l’hobby domenicale, la palestra, le vacanze, gli oggetti superflui ed attualmente l’assalto alla cultura figurativa, soprattutto quella di soggetto religioso,  fraintesa a mezzo di produzione di ricchezza e ridotta a promozione spettacolare. Tutte espressioni più o meno dichiarate del New Age![16]  Ma la riduzione all’esiguità del presente storico non può cancellare il futuro né abolire la morte, così come l’incremento della ricerca scientifica non sempre funzionale allo sviluppo della civiltà, non può soppiantare l’umanesimo cristiano, che invita l’uomo a guardare all’orizzonte che si apre oltre quello del proprio presente, per non ripiegarsi su se stesso, ma per creare. Perché, proprio grazie a questo umanesimo, la libertà estetica e la dignità della persona, pur vivendo nel tempo, si sono rispecchiate, in antitesi al nihil,  nella perennità dell’essere, senza consumarsi nel sistema effimero delle mode o delle pianificazioni materialistiche che hanno portato a determinismi teorici, alla feticizzazione dell’opera d’arte, all’alienazione dell’uomo.

In conclusione, gli sforzi di nascondere la grave crisi della logica e quindi dell’etica e il fallimento di modelli di  sviluppo antiumanistici, servendosi dell’arte come apodittico passepartout di verità relative e quindi come messaggio o comunicazione globalizzante o come fonte di ricchezza sono stati e sono insoddisfacenti. Fruttuoso, viceversa, può ancora rivelarsi il riconoscimento dell’ingresso dell’opera artistica come puro veicolo di bellezza e di accostamento alla verità nella coscienza individuale, purché questa ne accolga disinteressatamente la vitalità non esistenziale e vi riconosca quindi l’assolutezza ontologica che è testimonianza incontaminata del suo essere nel tempo. Un essere che fa comprendere, come hanno rilevato i neotomisti, in che modo “la sostanza – anima possa accogliere in sé l’essenza delle cose, astraendola dalle cose stesse, senza identificarle a sé né identificarsi con esse”. [17] Di questo dato di fatto, l’arte occidentale, soprattutto quella di soggetto religioso, è ancora oggi, nonostante tutto, la testimonianza storica esemplare. Da questa testimonianza somma di civiltà viene l’invito fermo a ricordare che, alzando gli occhi dalla terra, senza rinnegarla, l’uomo troverà anche nei momenti più bui, non il nulla, ma il cielo che, dopo gli squarci della burrasca, torna (ed è un dono) ad accogliere la luce delle stelle.



[1] L. Pareyson, Estetica. Teoria della  formatività, Milano 2002, p. 184.

[2] Ibidem, p. 185.

[3] C. Brandi, Carmine della pittura, Torino 1962, p.100.

[4] Ibidem, p. 189.

[5] H. G. Gadamer, L’attualità del bello, Genova 1986 p.35.

[6] U. Galimberti, Il gioco delle opinioni, Milano 2004, p. 60.

[7] Fides et Ratio. Lettera enciclica del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II ai vescovi della Chiesa cattolica circa i rapporti tra fede e ragione,I, Roma 1998, p.65.

[8] H. G. Gadamer, op. cit., p. 76.

[9] U. Galimberti, Idee: il catalogo è questo, Milano 2003, p.70.

[10] G.F. Hegel, Filosofia del diritto, paragr. 142.

[11] H.U.von Balthasar, Gloria. 1. La percezione della forma, Milano 1975.

[12] B. Forte, La via pulchritudinis: la bellezza e l’annuncio della fede, in AA.VV., Culture, incroyance et Foi. Nouveau dialogue. Etudes réunies par Bernard Ardura et Jean-Dominique Durand en hommage au Cardinal Paul Poupard, Roma 2004, p.524

[13] N. Goodman, I linguaggi dell’arte,Milano 1976, p. 204.

[14] Ufficio Nazionale della CEI per i problemi sociale e il lavoro, Etica e finanza. Contributo alla riflessione, Bologna 2004, pp. 13-14.

[15] C. Brandi, Le due vie, Bari 1970, p. 121.

[16] Per una riflessione sul New Age si veda ora: Pontificio Consiglio della Cultura, Pontificio Consiglio per il dialogo   interreligioso, Gesù Cristo portatore dell’acqua viva, Città del Vaticano 2003

[17] N. Abbagnano, Storia della filosofia, Torino 1999, vol. III p. 699.

 


 

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LA BELLEZZA COME CAMMINO

DI EVANGELIZZAZIONE E DI FORMAZIONE UMANA

 

Relazione del Prof. Mario Luzi

Accademico della Pontificia Insigne Accademia

di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon

 

Fede e bellezza oltre a essere un endiadi di memorabile significato programmatico nell’opera letteraria di Niccolò Tommaseo costituisce un’associazione concettuale più o meno assuefatta e assimilata per tradizioni inconsce. La bellezza che noi cerchiamo e desideriamo è nella nostra atavica cultura occidentale difficilmente separabile dalla pietà e dalle sue immagini. Abbiamo, la più gran parte di noi, ricevuto insieme l’aspetto, del bello, del sacro, e del santo e coltivato di conserva quella acritica, certo, ma possente identità.

Riesce enormemente difficile, a questo punto, distinguere come essa si è formata, quali sono i processi che hanno collegato così strettamente l’idea di bellezza e quella di esemplarità venerabile e culturale: una connessione non solo nostra, presente forse in molte se non in tutte le civiltà, che la nostra ha tuttavia esaltato a tal punto che l’educazione ce l’ha inculcata come sottinteso paradigmatico. Il platonismo lavorò sul seminato, è da credere; e statuì un criterio, chissà quanto remoto riguardo all’origine che nel mondo mediterraneo trovò la proposta e la risposta del senso e dell’immaginazione.

Rimane in ogni caso da domandarsi da dove ci viene l’idea di bellezza che inconsapevolmente coltiviamo come nostra anche prima che noi vi folgoriamo qualsiasi intento sublimatorio. Possiamo risalire, scalare a ritroso una deduzione culturale e antropologica, non mi pare possiamo attingere un primum, una scaturigine definibili. Questo rimane un enigma perduto nell’inesplicabile del creato o per dirla più correttamente negato alla nostra intelligenza. Le immagini plastiche o grafiche di certe popolazioni lontane che a noi appaiono mostruose devono pur aver significato un ideale intrinseco alla loro condizione. La bellezza non può essere che relativa e tuttavia propone e rappresenta una polarità dell’umano comune a tutte le genti del pianeta.

La bellezza ha espresso sempre virtù estetica ed etica simultaneamente: non è pensabile un grande uomo che sia d’aspetto sgradevole, né dall’altra parte è concepibile una figura sublimata nella forma che sia perfida o corrotta. Il tipo di dignità formale che assumono l’esemplare, il venerabile, è relativo, appunto, alla cultura, alla civiltà e all’antropologia.

E’ innegabile, per quanto sarebbe assurdo stabilire gerarchie in questo campo, che le civiltà in cui l’esigenza dell’armonia si manifesta come primaria- e specialmente l’esigenza della proporzione e del rapporto d’insieme- producono un tipo di fisionomia in cui si riconoscono più cordialmente o beatamente o estaticamente. Di fatto la civiltà greca ha addirittura fondato un canone e quella romana un canone differente. Noi etnicamente, nella nostra naturale facoltà ideativa, ci adeguiamo a quel canone e alle sue possibili variazioni. Perfino il volto del Padre glorifica nella sua divina somiglianza l’uomo visto nella bellezza e proporzione canonica.

Via pulchritudinis. Pulchritudo non è una metafora. L’enorme lavoro della filosofia e della patristica ha tolto ogni  convenzionale astrazione e esteriorità oggettiva al vocabolo senza privarlo della profonda connessione con il senso, con il corporeo. Gli stilemi bizantini traducevano un’idea di potenza e di maestà nella quale è leggibile anche la glorificazione estetica del soggetto. Tuttavia, non è, lo sentiamo, l’accordo di cui abbiamo bisogno.

Non so nascondere nè tenere a bada l’emozione di fronte alla pittura di Giotto che introduce nel discorso cristiano la carità dei corpi, il pathos dei sentimenti, l’ardore della fede, scritti in quel linguaggio corporeo, significati in quel limpido eloquio della condizione della creatura umana.

Lo spirito pervade la materia e avviene una suprema congiunzione. “Dacci oggi il nostro pane quotidiano” si spiega in tutta la sua giustezza dopo l’estremo “Venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà”, c’è anche il limite della carne, il quale però è testimonianza aperta e chiara di devozione.

Ma a questo apice dell’armonia come si è arrivati? Un’esposizione che si è tenuta recentemente dei reperti sotterranei del Duomo di Siena ci fa assistere a un momento cruciale della vita religiosa artistica della nostra terra italiana e della terra universa.

Sono al lavoro simultaneamente in quegli ipogei, che allora non erano tali, Cimabue, Cavallini, Duccio, Giotto. E’ l’officina della grande civiltà pittorica che nasce e si sviluppa in Italia ed esprime nelle sue forme il momento di altrettanto grande armonia dell’anima e della vita. Quelle che l’accostamento delle opere incluse le vetrate smontate per il restauro e la ripulitura  elargivano di conserva, pur nella singolarità dello stile di ciascuno di quei maestri, è una pienezza di umiltà, nel senso di persuasa presenza nel mondo in accordo con il divino, con il soprannaturale.

Può essere sbocciata e fiorita nell’epoca splendida di cui abbiamo appena parlato l’idea, incubata fino dalle origini della spiritualità cristiana, della bellezza come desiderio e termine di perfezione, come cammino alla salvezza, alternativo, ma non solo a quello della vita. E’ proprio nella sapienza di San Bonaventura o Anselmo d’Aosta che pensarono tra i primi alla validità di questo bene cercato come tale, come bene in sé, dall’anima che afferma le sue basi una cultura nascente e operante. E forse non è da trascurare il fatto che quella inclinazione spirituale si pronuncia specialmente in uomini di religione studiosi e devoti di Maria – e anche oggi la via pulchritudinis sembra concernere soprattutto la mariologia. In Maria sembra attuarsi sommamente la connessione verità-bellezza, cessare anzi di essere un binomio per divenire unità inscindibile. La perfezione della creatura umana gratificata da splendore e armonia come gradus al divino. Su questo interiore convincimento procede un illimitato e copiosissimo dialogo tra il sacro e il profano, potremmo dire senza esagerare tutto il grande episodio medievale e rinascimentale della fede e delle sue immagini. Tutto ciò che è autenticamente cristiano vive da allora la doppia forma della conoscenza: quella teologica e nazionale e quella contemplativa, la quale s’incontra inevitabilmente  con la bellezza.

La via pulchritudinis è dunque inerente alla spiritualità cristiana indipendentemente dal suo riconoscimento ad opera di San Bonaventuara o dei grandi mistici come Santa Teresa e San Giovanni della Croce.

Si dà un valore emblematico al fatto che i Servi di Maria riscattarono dalla prigionia, dopo la rotta di Montaperti, Coppo di Marcovaldo, pittore fiorentino, il quale ricambiò questo beneficio con il dono di un suo dipinto della Madonna in maestà. Il tragico della storia riscattato dalla bellezza, di fatto.

La via pulcritudinis non è certo estetismo nella mente dei Padri, ma è un’appropriazione della sintesi di bello e vero a cui non è estranea una commozione del senso, una richiesta naturale e umana di perfezione nell’oggetto del proprio amore. Il cammino che permette di fare la via pulchritudinis nella penetrazione dei misteri cristiani è enorme: e l’esperienza dello spirito che la percorre è proficua in tutti i modi e in tutti i campi di conoscenza ed elargisce un affinamento dell’anima e dell’intelligenza non secondario per nulla a nessun altro.

Mi viene in mente – e può essere significativo nella sua alta invenzione poetica – che Giovanni Paolo II nell’ultima opera pubblicata chiama la bellezza gloriosa della pittura di Michelangelo nella Sistina ad attestare il miracolo della Creazione che si guarda e si vede. Non c’è compiacimento dell’arte ma cooperazione celeste e umana in quella tesi, un sommo coinvolgimento della bellezza nella rivelazione del creato al suo stesso Fattore.

Va dunque a fondo la via pulchritudinis e non è periferica ma intrinseca. Seguirla, essere attratti dalle sue meraviglie, incuriositi dalle sue sorprese, arricchisce lo spirito e tesaurizza ogni risorsa che la fede ha trovato per arrivare a noi e proiettarsi nel futuro che aspettiamo divenga presente, attuale, intemporale.

 


 

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IL TINTORETTO NELLA SCUOLA

GRANDE DI SAN ROCCO

 

Relazione del Dott. Vittorio Di Giacomo

Segretario della Pontificia Insigne Accademia

di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon

 

Questo testo è, nelle sue grandi linee, il découpage del documentario “Il Tintoretto nella Scuola Grande di San Rocco”, con il testo parlato dovuto allo stesso regista del film, Vittorio Di Giacomo

 

 

I tetti di Venezia sullo sfondo della laguna. Si scopre il Campo San Rocco con la chiesa e la Scuola Grande

Il 25 giugno del 1575 scoppia a Venezia, ancora una volta, la pe­ste. Al panorama della città mancano due monumenti di portata simbolica e valore urbanistico eccezionali, che oggi ammiriamo: le chiese del Redentore e della Salute. Nasceranno con la peste e con­tro la peste.

Sette giorni dopo l’insorgere del morbo, il pittore Jacopo Robu­sti, detto il Tintoretto, si offre di eseguire entro un anno per la Scuo­la Grande di San Rocco -  che sorge in angolo con l’omonima chie­sa, nel sestiere di San Polo -  il dipinto centrale della sala superiore: il Serpente di bronzo, che si rivelerà capolavoro in bilico tra catastro­fe e speranza.

Dagli inizi del secolo, la confraternita devota a Rocco da Montpel­lier, il Santo degli appestati, si era venuta costruendo - sesta fra le ric­che e potenti Scuole Grandi di Venezia (così erano denominati quei so­dalizi animati dalla pietà religiosa) - un nobile palazzo, opera in suc­cessione degli architetti Bartolomeo Bon, Sante Lombardo e Antonio Abbondi, detto lo Scarpagnino.

 

All’interno della Scuola, la sala inferiore e lo scalone

Prima di insediarsi qui, i confratelli di San Rocco si riunivano a San Giuliano o in altre sedi minori. Ma impossessatisi delle spoglie del Santo, crebbero in fama e in ricchezza. Sino al fasto della monumentale dimora, cui mancherà solo il ciclo del Tintoretto per gareggiare con i massimi templi della pittura in Italia: dagli Scrovegni di Giotto alla mi­chelangiolesca Cappella Sistina.

 

La Sala dell’Albergo con il San Rocco in gloria e gli altri dipinti del soffitto

Con astuzia e tempismo, candore e furore di artista, Jacopo si era garantito fin dal 1564 - con questo San Rocco in gloria nella Sa­la dell’Albergo - quel rapporto privilegiato con la Scuola, che gli avrebbe consentito - nell’arco di ventitré anni - di riempire con il suo poema religioso le sale del palazzo.

Con l’effigie monumentale del Santo, proteso in muto colloquio di sguardi con l’Eterno, il Tintoretto aveva compiuto opera insieme ispirata e abile, per aver saputo comporre in armonia la visione per­sonale - concentrata nello scorcio di Rocco - con l’eco michelan­giolesca della figura del Padre; e con la grazia idealizzata dei volti angelici: un riflesso di Paolo Veronese, quasi a dire ai rivali e agli ostili: «Sono bravo anch’io, nella maniera degli altri».

Era accaduto in soli ventidue giorni, a partire da quel 31 maggio del ‘64: l’invito ad alcuni tra i maggiori pittori di Venezia, per un boz­zetto; il Tintoretto che sorprende tutti compiendo il dipinto e collo­candolo in sito; la donazione alla Scuola per impedirne il rifiuto.

La donazione fu subito estesa alla decorazione del soffitto: putti entro tondi, simboleggianti le quattro stagioni, uno per ciascun an­golo; figure maschili e femminili giacenti, o colte nel volo, per allu­dere alle Scuole Grandi di Venezia o alle virtù cardinali. Alla fine dell’anno, il cielo della Sala dell’Albergo rifletterà un complesso mondo allegorico, che va dal naturale al cosmico, al religioso. Il tut­to eseguito alla maniera svelta del pittore: scorci arditi, calore di om­bre o di rilievi luminosi, moto sorpreso nell’istante. E tuttavia si sen­te che l’artista non è ancora al sommo dell’avventura intellettuale che realizzerà nella Scuola di San Rocco, ma affina gli strumenti espressivi, sperimenta se stesso.

 

Le tele della Passione di Cristo sulla parete d’ingresso della Sala

La parete d’ingresso della Sala dell’Albergo è il luogo della Pas­sione di Cristo. Con moto inverso al consueto si va, per seguire lo svolgimento narrativo dell’azione, da destra verso sinistra: partendo cioè dal Gesù davanti a Pilato, si tocca il colmo della pietà religiosa ed umana nel Cristo coronato di spine, per giungere al corteo della Salita al Calvario. Moto inverso dettato - si dice - dall’intento di Jacopo di dare i dipinti della Passione come se fossero visti da quello - dei due profeti -  che è sulla destra della Sala.

Gesù è fiamma di luce - presenza sovrannaturale, prigioniera di uomini indifferenti o vili - asse di fermezza pur nell’umiltà del capo appena reclino. Ciò è detto senza caricare gli sguardi o forzare i gesti, per virtù di sola pittura. L’arma del Tintoretto è un linguag­gio severo ed essenziale, che fa della luce il lievito dell’espressione.

Sullo sfondo, la diagonale delle architetture ha smesso di dise­gnare geometrie di spazi, al modo dei fiorentini, per partecipare con il suo peso d’ombra alla varia misura degli effetti del colore nell’at­mosfera.

Il corteo della Salita al Calvario è cadenza di morte? O è lenta ascesa trionfale? Sono interpretazioni lecite entrambe, possibili stan­do a ciò che il pittore ci mostra nella scena. In basso, l’ombra in sub­buglio per la presenza di corpi, che chiazze di colore e vampe di luce macerano o addensano. In alto, una luce di mattino. Le figure con­tro cielo, il forte profilarsi della croce, dei tronchi, la esaltano. E’, nel preludio della gloria, luce di speranza. Ma è, anch’essa, intimamente contraddetta: con quei vessilli che il vento agita, quelle foglie scosse, quelle vesti tormentate. Se l’azione si arresta, se gli attori si immobilizzano, al dramma subentra la tragedia. All’incedere cadenzato, affranto, del Calvario si oppone - nella sintesi di forma e di significa­to - l’immota agonia della carne di Cristo, coronato di spine. L’es­senza della tragedia (ma anche del suo superamento) è qui nella con­templazione. Diceva Aristotele: pietà e terrore, che si purificano nell’imitazione del vero. Nelle immagini in cui la rappresentazione è più cruda, i gesti non hanno un seguito: il guerriero di sinistra, Pila­to a destra, gli sgherri sul fondo - pietrificati nella loro teatrale eloquenza.

E il sangue non si versa, ma è versato. E’ la sostanza stessa del­l’orrore che si ostenta e si contempla.

 

La Crocifissione sulla parete di fondo

La parete di fondo è occupata dalla Crocifissione. «Materialmente e spiritualmente immensa», fu scritto a lode del Tintoretto. il suo nome figura nell’autografo latino, con la data del ‘65.

Soggioga, nel quadro, la complessità della visione: quegli uomini e quelle donne, gli animali e le cose, che gremiscono lo spazio con­centrico alla croce e lo suddividono sino alla specificazione dell’epi­sodio, del vissuto personale, dell’aneddoto. Visti nel particolare, sin­goli e gruppi sembrano vivere in sé, sorpresi da un occhio che, come l’occhio di Dio, tutto percepisce, nulla esalta. E carnefici e vittime - cavalieri, soldati, becchini, giocatori di dadi, donne pietose - mostrano di isolarsi, ciascuno nella sua affaccendata singolarità. Ma è vero anche il contrario. Nessuno è separato, tutto si lega.

Protagonisti e figuranti sono nel dramma, ne costituiscono il co­ro. Vi stanno - considerando le cose in termini di puro vedere - grazie al dono di uno stile fluido, unitario, sempre basato sul dina­mismo della luce. La quale amalgama e fonde - nell’atto in cui l’ar­tista dissemina e gradua i colori e le forme - ciò che, come osserva­tore attento della scena del mondo, aveva prima individuato e distin­to. Di più: le figure rientrano nel grande coro per effetto della com­posizione del dipinto. Quella folla varia ed una, che gravita e al tem­po stesso si dilata ai margini del cerchio di luce su cui svetta la croce - disponendosi lungo i raggi che si dipartono dal centro - è come una sola, gigantesca ruota: la sua sostanza è magmatica.

Un anno era occorso al Tintoretto per compiere la Crocifissione. Nessuno saprà come le ragioni del cuore e le ragioni dell’occhio convivessero in lui nell’ardore del gesto creativo. Ma raro fu dato tanto equilibrio.

 

L’effigie dei Santi Sebastiano e Rocca nella sala grande superiore

Il valore attribuito alla presenza di santi taumaturghi nei luoghi del culto induce il Tintoretto a raffigurare, ad un capo della sala grande superiore, Sebastiano con Rocco, Santi eletti contro la peste.

Sebastiano, l’antico, esprime la metafora della giovinezza trafitta ma incorrotta. Il nuovo, Rocco, per avere sperimentato peste e gua­rigione, meglio allude alla corruttibilità della carne; ma anche alla salvezza possibile.

 

Una veduta d’insieme della sala

Nell’accingerci a ripercorrere i tredici soggetti maggiori raffigu­rati da Jacopo nella sala, tra il ‘75 e l’81, occorre atteggiarsi nell’ani­mo a chi -  persuaso dell’unità fondamentale di questo universo di­pinto - sia disposto a vivere fino in fondo un’esperienza che è di natura poetica e religiosa.

 

Adamo ed Eva nel giardino dell’Eden

L’Adamo ed Eva, con quel bagliore della carne anche per poco innocente, che emerge ed invita dal groviglio della selva, è un buon prologo per orientarsi nel poema allegorico della sala. Lo è per noi, però, non per il Tintoretto. Altri germi, altre espansioni ebbe in lui il processo ideativo: con altra e creativa libertà, avendo soltanto un limite ed uno stimolo: di analogie, di coerenze.

 

Gesù tentato da Satana

Ecco allora, seguendo l’asse trasversale che occupa la prima fa­scia della sala, il peccato originale «chiamare», sulla parete a fianco, la Tentazione di Cristo: «specchio sublimato» - fu scritto - di quell’altra tentazione. Di cui condivide la seducente ambiguità, con il Satana androgino, iconograficamente ardito e nuovo rispetto alle apparenze orride e grottesche del Satana medievale.

 

L’Adorazione dei pastori

Risponde alla Tentazione, la visione liberatoria della Natività. Il realismo di Jacopo (che è realismo di cose viste ed apprese, non di stile che interpreta) ne dà - con quel fienile diviso in due - una versione veneta, tra verità e simbolo. Presente, questo, nelle immagi­ni dei piccoli animali.

L’accento è affettuoso e lirico, con quel tralucere del lume divi­no tra le assi sconnesse, che è un’intuizione di poeta.

 

Giona e il mostro marino

L’attigua fascia del soffitto si svolge nel segno dell’acqua: acqua di vita, fonte e veicolo di purificazione. Il mostro acquatico rigenera Giona alla vita dello spirito. Ma la magia della scena viene dallo stile: chiudere in così esiguo spazio - per virtù di compendi, di scorci, di luce - la bestia immane ed il mare, l’uomo eroizzato, Dio !

 

Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia

Ma il Tintoretto volle rappresentare gli effetti prodigiosi dell’ac­qua (subito dopo avere concepito Il Serpente di bronzo) con il Mosè che fa scaturire l’acqua dalla roccia. Non altrimenti la lancia farà sca­turire dal costato di Cristo acqua e sangue.

«Levata la mano, Mosè percosse due volte con la verga la pietra. Ne uscirono acque copiosissime. Ne bevvero il popolo e gli anima­li», dice la Bibbia.

E non dice, Sant’Attanasio, che «il Padre è la sorgente» e che «il Figlio è chiamato fiume»? E, dell’umanità assetata, che essa «beve lo Spirito»?

Forse è solo un indizio, ma è un fatto che al cospetto della visione del Tintoretto ci soccorrano per prime parole bibliche e testi di profe­zia o di rivelazione: in un senso o nell’altro, ispirati.

 

Mosè e l’Eterno

Nell’ovale, Dio appare a Mosè e gli annuncia la Terra promessa. Una terra ricca di acque. In un contesto di colore ora spento ora ac­ceso a sciabolate di luce, lo scatto delle figure aderisce al testo bibli­co: «E Mosè si coprì la faccia, perché non ardiva volgere lo sguardo a Dio».

 

Il Battesimo di Cristo

Si è attratti nel Battesimo di Cristo, momento centrale della ma­gia sacra dell’acqua, come in un vortice lento. Dove l’ombra è un vuoto di luce - denso e qua e là fosforescente - e la luce palpita e si ravviva, a contrasto, in un crescendo di intensità variato musical­mente, per accendersi sulla spalla del Cristo o riflettersi dalla riva del fiume, dove diafane figure attendono. E tutto è riverbero da un’uni­ca fonte in cielo, oltre le nubi. Mai, fino ad allora, il Tintoretto aveva dato tale trasparenza spirituale ad uomini e cose, grazie al vario at­teggiarsi di un solo, mobile elemento: la luce.

 

La colonna di fuoco

Mosè con il popolo eletto marcia verso il Mar Rosso. «E il Si­gnore li precedeva di notte… con una colonna di fuoco». Mosè è im­magine visionaria e non visiva. Il suo corpo è avvolto in un manto; ed il manto agitato senza ragione apparente - che non sia quella di un vento divino - è la forma simbolica, che il pittore inventa per comunicare la sua emozione.

 

 

La Piscina Probatica

Nella Piscina Probatica i motivi dell’acqua e della peste si salda­no con il richiamo tradizionale al sacramento della Confessione. I teorici antipeste lo giudicavano rimedio sovrano.

Rifacimenti di scuola appannano la tela, grandiosa per senso spaziale e architettonico; oltreché per abbondanza di episodi narrati­vi. Poi ci si avvede che la terza dimensione è più apparente che reale; e che il colore, reso in atmosfera grazie a morbide varianti d’inten­sità, stempera i volumi, rendendo indistinto il racconto.

 

Il Serpente di bronzo

Ma è tempo d’inquadrare Il Serpente di bronzo. Per salvare il po­polo castigato da serpenti infuocati, la Bibbia narra che il Signore concedesse a Mosè di opporre loro un serpente di bronzo e di met­terlo come segnale: «Guardandolo, i colpiti dalla piaga saranno sa­ni». Il Serpente di bronzo è la matrice prima dell’intero poema tinto­rettesco della sala. Idea-nucleo, sul motivo della concordia fra l’Anti­co e il Nuovo Testamento, che il pittore svolge in libertà, via via che l’opera si compie, non già in esecuzione di un piano: avendo semmai l’occhio alle movenze della Bibbia dei poveri e la mente alle opere caritative della Scuola Grande di San Rocco.

Oscuro il senso del testo biblico. Ma, a spiegare i sacri arcani, soccorre il Vangelo di Giovanni: «Come Mosè – dice -  ha innalza­to il serpente nel deserto, così è necessario che il Figlio dell’uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vi­ta eterna».

 

La visione di Ezechiele

Più tardi, Jacopo integrò il tema proposto nel Serpente - pecca­to, pena e redenzione - con l’episodio di Ezechiele. Dove l’attesa di un riscatto, alla fine dei tempi, assume la visionaria evidenza della resurrezione dei morti.

 

Cristo risorge

La Resurrezione di Cristo è materia di fede visualizzata: esito trionfale, coronamento. Ma il nesso con il Serpente, da cui trae l’ori­gine, per culminare esplicitamente nell’idea di una vittoria sulla mor­te, è anche formale, materiato dal linguaggio della luce. Questa, eb­be a scrivere uno storico dell’arte, il Coletti, è nel Serpente «irresisti­bile forza cosmica». Soggiungendo che, nella Resurrezione, essa tra­volge e trasfigura ogni residuo di verisimiglianza ambientale. Viene in mente che sia essa, la luce, a schiantare dal di dentro il coperchio del sepolcro, da cui Cristo si invola.

 

La scala di Giacobbe

«E vide in sogno una scala...». La visione di Giacobbe è un’asce­sa spirituale: un modo di vincere la morte.

 

L’Ascensione di Cristo

Alla scala di Giacobbe in sogno corrisponde sulla parete l’Ascensione di Cristo. Che è vertice nella conoscenza di Dio in senso religioso ed estatico, come fu detto da chi, nella tela, scorse lo sforzo del pittore di coinvolgere totalmente chi guarda: macerando le for­me degli apostoli in primo piano e assottigliando quelle medie e lon­tane, rese diafane a contrasto; forzando gli effetti chiaroscurali nel turbine degli angeli.

 

Abramo sacrifica Isacco

Il Sacrificio di Isacco inaugura il tema della ubbidienza a Dio. Con Abramo già avventato sul figlio - ma basta un tocco d’angelo a fermarlo - la poetica del moto interrotto, dell’istante fulminato e sublimato raggiunge uno dei punti più alti.

 

Cristo in preghiera nell’orto

L’amaro calice: l’atto di obbedienza che si consuma nella Pre­ghiera nell’orto è dell’uomo-Dio al suo stesso principio. Lo sguardo visionario del Tintoretto si fa allucinato: tre momenti in uno, diversi per clima, spazio, tecnica di pittura. Tre scene che si illuminano di luce propria, emergendo dal comune fondo di buio. Una intuizione di grande teatro.

 

Lazzaro è resuscitato

I barlumi e le ombre sovrapposti ai colori - avendo sensibile l’occhio al ritmo di simmetrie opposte e bilanciate - danno la sinte­si visiva della Resurrezione di Lazzaro, l’appestato. Il motivo, in sé, riporta ai resuscitati dell’Ezechiele, al risveglio del Cristo. Ma, qui collocato, implica un nesso anche con la Preghiera nell’orto e con il Sacrificio di Isacco: Lazzaro obbedisce ad un ordine; Lazzaro vince la morte.

 

La manna cade dal cielo

La Caduta della manna è il terzo fra i temi biblici maggiori, po­sti in asse lungo il soffitto - come aperte finestre sulle visioni di lassù - che agirono nel Tintoretto con la forza di un mito genera­tore. Nella Manna, egli «vede» la prefigurazione della Eucarestia. E coerentemente vi sviluppa, così come nei dipinti satelliti – fino all’Ultima cena, con cui il minor ciclo si concluderà – il tema di un cibo che non sia solo nutrimento al corpo, ma simbolo sacro e realtà sacramentale.

Pittoricamente, il Tintoretto crea il clima soprannaturale della invocazione e della elargizione del soccorso divino, opponendo al moto della manna che si irradia a pioggia sulla terra, il contrario tendere degli uomini verso un gorgo di luce, reso abbagliante da quella tenda in primo piano, che s’incurva e incombe: colpo di genio di un maestro della pittura.

 

Eliseo moltiplica i pani

Dalla Manna si passa ad Eliseo che moltiplica i pani, simile alla Colonna di fuoco per l’interagire della forma-colore con la luce.

 

L’angelo nutre Elia

Ed ecco la scena di Elia nutrito dall’angelo. Torna, in questi episodi, la furia creativa da cui Tintoretto ebbe fama, non sempre benevola. Tornano i sottinsù, le forme oblique lanciate nello spazio, sfiammate dalla luce. L’immagine tramandata dai contemporanei, di Jacopo giovane che al chiuso sperimenta artifizi luminosi con modellini di cera, acquista il senso di una indicazione per penetrarne il linguaggio.

 

La Pasqua degli Ebrei

Ne è conferma questa Pasqua ebraica, solo apparentemente ferma in una estatica fissità. In realtà, l’immobile tensione si vivacizza, riverberata nel versatile gioco di specchi di luce.

 

Il miracolo dei pani e dei pesci

Nella Moltiplicazione dei pani e dei pesci, il tema del cibo sfocia nella sua notissima versione evangelica. L’impostazione scenica del dipinto è una variante della partizione già adottata nella Salita al Calvario. Un orizzonte chiuso in penombra e animato, nella metà inferiore. Un orizzonte illimitato, a fare da sfondo ai controluce, nella metà superiore. Quel che muta è il senso, in accordo con il mutare del tono, che è qui morbido, quanto là era crudo. E con il mutare dei profili, tanto più ampi e ondulati in questo miracolo (il cui fondo psicologico è disteso, fiducioso) che non in quel funebre corteo.

 

L’Ultima cena

Sin qui il prologo; nell’Ultima cena, l’esito. Ma la verisimiglianza della scena riduce il potere visionario del pittore. Al Tintoretto resta, sola libertà, il linguaggio. Ed egli adotta la soluzione della mensa vista di scorcio, che è un modo di dilatare lo spazio; raddoppia le fonti di luce: naturale sul calmo proscenio, come misteriosamente dilatata era di là dalla mensa. Mai banchetto fu più spoglio, mai commensali più drammaticamente sospesi. Tutto in forza di luci alterne battenti, di solchi scavati nel colore, di profili tormentati, di linee-forza sconvolte.

 

Una veduta della sala inferiore

La trama allegorica scompare nella sala terrena, che il Tintoretto cominciò a decorare in età di sessantacinque anni, dedicando le tele a Maria e all’infante Gesù; e alle sante eremite, Maria Maddalena e Maria Egiziaca.

 

L’annuncio a Maria

Si può osservare nell’Annunciazione (ed anche un poco sconcer­ta) il coesistere di due diversi motivi psicologici. Né pare che l’artista faccia molto per fonderli pittoricamente, se non con il consueto, elettrizzante uso della luce. Tanto da far supporre l’apporto di due mani diverse.

Il primo motivo, tutto risolto nell’azione scenica, si lega agli an­geli. La corolla alata è già una fantasia barocca, e non è facile dire quanto si intoni con l’ambiente scarno.

Il secondo motivo si veste di realtà: una realtà della specie più umile. Ma nella cura del particolare povero - cui fa da contrappun­to il lusso simbolico dell’alcova, allusivo a Maria stirpe di David - più che una scelta pittorica si sente la conformità a Sant’Ignazio, quando questi invita ripetutamente a visualizzare gli episodi della storia sacra. E quindi, in tema di Annunciazione, quando invita a «vedere nel particolare, la casa e le stanze di Nostra Signora». A condividerne, cioè, nella contemplazione, l’assoluta povertà. Un te­ma caro ai predicatori del tempo.

 

L’Adorazione dei Magi

«Un gran concerto» è definizione seicentesca - autore il Bo­schini, storico del Tintoretto - per designare l’Adorazione dei Magi. A noi richiama una sacra rappresentazione per il suo ordine scenico; per gli attori sopra, sotto ed intorno al palco; per gli effetti di luce calcolati.

Non manca, nel grande, il piccolo concerto degli angeli. Né quel tanto di fiabesco comune alle sacre rappresentazioni, evocate dagli spettrali cavalieri che già abbiamo visto marciare sul fondo.

 

Maria e Giuseppe fuggono in Egitto

«Ti porrai in viaggio con Maria e Giuseppe, contemplando diligentissimamente il modo dell’andar loro». Come eco lontana ma non perduta, queste parole del predicatore Mattia Bellintani, cap­puccino, già caro al cardinal Borromeo, giungono a noi, filtrate at­traverso le immagini di questa Fuga in Egitto. Parole a cui Jacopo acconsente, nel farsi trepido soggetto di quel cammino, in sintonia di cuore e di sensi con gli umili personaggi che il suo pennello ricrea. E nel far proprio il viaggio, nel riviverne l’inquietudine e la segretezza, si trova senza volere a creare il primo paesaggio romantico, uno dei rari della pittura italiana.

 

Gesù è circonciso

Fronte alla Fuga in Egitto è la Circoncisione. La indicano come ultima ad essere collocata nella sala. Per i travisamenti operati dalla bottega di Jacopo nulla aggiunge né toglie all’immagine della sua pit­tura.

 

La Strage degli innocenti

Altra attenzione impone la Strage degli innocenti. La capacità di dramma del Tintoretto - dramma terreno e dramma cosmico in­trecciati - che, pur senza esaurirne le possibilità espressive, costi­tuisce la base della sua psicologia di artista, tocca nella Strage degli innocenti uno dei picchi più strazianti e convulsi e, non di meno, più poeticamente compiuti. Merito di una visione pittorica che - emula del raffaellesco Incendio di Borgo, del michelangiolesco Giudizio - è in grado di contemplare l’intero campo della tragedia con la sovra­na impassibilità dell’arte.

 

Maria è assunta in cielo

Impeto creativo nell’inventare, teatralità eloquente non fanno difetto alla concezione originaria da cui prende le mosse questa As­sunzione della Vergine. Il tempo le ha recato offesa. Il restauro re­cente non l’ha del tutto rimossa.

 

Le sante eremite Maria Maddalena e Maria Egiziaca nel bosco notturno

La silenziosa vena cristallina, che dal Battesimo di Gesù, attra­verso il paesaggio della Fuga in Egitto, sfocia nelle due tele delle san­te eremite Maria Maddalena e Maria Egiziaca, è una sorta di cammi­no segreto, fortemente interiorizzato, nel panorama di una pittura potentemente estroversa. Eppure i due notturni, al confine tra il visi­bile e l’invisibile, hanno qualcosa in comune con i momenti più esa­gitati della fantasia tintorettesca. Questo qualcosa è la luce. Che al­trove subordina a sé l’irrequieta realtà delle forme e dei colori. Ma qui diviene, in purezza e in essenza, il mezzo e il fine. Poiché, nel momento in cui sembra che il pittore renda, con l’infinita vibrazione delle molecole luminose, l’estasi notturna di un certo paesaggio, ci si accorge che quel paesaggio non esiste, se non per la luce di cui è tessuta la sua struttura intima. La luce non è qui ornamento alla notte, ma principio di ordine spirituale che si dà una forma.

            Alla notte oscura, al raggio di tenebra che accieca la vista del mistico spagnolo, suo contemporaneo, Giovanni della Croce - alla sua «teologia negativa» - Jacopo Tintoretto oppone la teologia po­sitiva della sua esperienza poetica di pittore della notte. Lo fa da maestro. E noi con lui.

 


 

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INDIRIZZO DI SALUTO

DEL CARDINALE PAUL POUPARD

 

 

Eccellenza Reverendissima,

 

sono veramente lieto ed onorato di presentarLe, quest'oggi, i Partecipanti alla Nona Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie, riunite nel Consiglio di Coordinamento tra Accademie Pontificie, istituito da Sua Santità Giovanni Paolo Il per attuare una loro maggiore collaborazione ed un proficuo scambio culturale, al fine di promuovere un nuovo umanesimo cristiano nel terzo millennio.

La Seduta odierna, organizzata dalla Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, ha come tema “La Via Pulchritudinis, cammino di evangelizzazione e di formazione umana”, intende, così, approfondire la suggestiva tematica proposta dal Sommo Pontefice non solo agli Artisti, ma a tutta la Chiesa, con la Lettera agli Artisti, punto di riferimento ineludibile per la Pastorale della Cultura, ambito di azione del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Pontificie Accademie.

Nel nostro quotidiano impegno, volto all'inculturazione del Vangelo e all'evangelizzazione delle culture, ci stiamo rendendo conto che assume sempre più rilevanza questo particolare e attraente percorso, il quale si propone davvero come un ponte, cioè come un luogo privilegiato di incontro con i nostri contemporanei, anche con coloro che non sono credenti o si mostrano indifferenti all'esperienza della fede, che consente di superare quel fossato, quella distanza che ancora esiste tra la fede e la cultura, tra il Vangelo e la sensibilità dei nostri contemporanei.

La Via pulchritudinis può certamente diventare un efficace ed effettivo cammino di evangelizzazione per tutti, credenti e non, come pure un prezioso ed attraente progetto di formazione umana, in cui suscitare nell'animo delle nuove generazioni la passione per le cose belle, da cui risalire, per un itinerario antico e sempre nuovo, alla Bellezza divina.

Gli Artisti vogliono sentirsi in prima linea in questo affascinante percorso di crescita umana e cristiana, ed in questa Seduta Pubblica, che culminerà nella consegna del Premio delle Pontificie Accademie, ancora una volta ribadiscono il loro impegno nel suscitare e promuovere un nuovo, autentico umanesimo per il terzo millennio, che auspichiamo tutti sia illuminato dalla bellezza e dalla luce di Cristo, splendore del Padre.

Vengo ora a chiederLe, Cara Eccellenza, di volerci rivolgere le Sue illuminanti parole e di comunicarci il Messaggio che il Santo Padre ha voluto benignamente inviarci tramite Lei.

 


 

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DISCORSO DI SUA SANTITA'

GIOVANNI PAOLO II

AI PARTECIPANTI ALLA NONA SEDUTA PUBBLICA

DELLE PONTIFICIE ACCADEMIE

 

 

Signori Cardinali,

Venerati Fratelli nell'Episcopato e nel Sacerdozio,

Illustri Ambasciatori,

Carissimi Fratelli e Sorelle!

 

1. Sono lieto di farvi pervenire uno speciale saluto in occasione della nona Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie, momento culminante delle molteplici attività promosse nel corso di quest'anno.

Saluto, in particolare, il Cardinale Paul Poupard, Presidente del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie, e lo ringrazio per la dedizione con cui attende a questo compito. Estendo il mio saluto al Signori Cardinali, ai Vescovi, agli Ambasciatori, ai sacerdoti e ai rappresentanti delle Pontificie Accademie qui presenti, come pure a coloro che non hanno voluto mancare a questo incontro.

 

2. L'odierna Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie tocca un tema quanto mai significativo: la Via pulchritudinis come itinerario privilegiato per l'incontro tra la fede cristiana e le culture del nostro tempo, e come strumento prezioso per la formazione delle giovani generazioni.

In duemila anni di storia, la Chiesa ha percorso in tanti modi la via della bellezza attraverso opere d'arte sacra, che hanno accompagnato la preghiera, la liturgia, la vita delle famiglie e delle comunità cristiane. Splendidi capolavori architettonici, dipinti, sculture e miniature, opere musicali. letterarie e teatrali, insieme ad altre opere d'arte a torto considerate 'minori', costituiscono autentici tesori, che ci fanno comprendere, attraverso il linguaggio della bellezza e dei simboli,, la profonda sintonia che esiste tra fede e arte, tra creatività umana e opera di Dio, autore di ogni autentica bellezza.

 

3. Potrebbe l'umanità di oggi godere di un così vasto patrimonio artistico se la comunità cristiana non avesse incoraggiato e sorretto la creatività di numerosi artisti proponendo loro, come modello e fonte di ispirazione, la bellezza di Cristo, splendore del Padre?

Perché tuttavia la bellezza rifulga nel suo pieno splendore, deve essere unita alla bontà e alla santità di vita; occorre cioè far risplendere nel mondo, attraverso la santità dei suoi figli, il volto luminoso di Dio buono, mirabile e giusto.

E' quanto chiede Gesù ai suoi discepoli nel Discorso della Montagna. "Cosi risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che e nei cieli" (Mt 5,16). La testimonianza dei cristiani, se vuole incidere anche nell'odierna società non può non nutrirsi di bellezza per diventare eloquente trasparenza della bellezza dell'amore di Dio.

 

4. Mi rivolgo particolarmente a voi, cari Accademici ed Artisti! E' proprio questo il vostro compito: alimentare l'amore per tutto ciò che e autentica espressione del genio umano, nonché riflesso della bellezza divina.

Nella Lettera agli Artisti ho avuto modo di sottolineare che dalla vostra collaborazione "la Chiesa si augura una rinnovata «epifania» di bellezza per il nostro tempo e adeguate risposte alle esigenze proprie della comunità cristiana" (n. 10). Siate sempre consapevoli di questa vostra missione e il Signore vi aiuti a portarla a compimento in modo efficace.

A tutti gli Accademici, e specialmente ai Membri della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon, esprimo il grato apprezzamento Per l'attività svolta ed auspico che, con l'apporto di tutti, venga promosso un nuovo umanesimo cristiano, capace di percorrere la via dell'autentica bellezza, ed additarla a tutti come itinerario di dialogo e di pace tra i popoli.

 

5. Sono ora lieto, su proposta del Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie, di attribuire il Premio annuale delle Pontificie Accademie all'Abbazia Benedettina di Keur Moussa, in Senegal, dove i Benedettini provenienti dall'Abbazia madre di Solesmes si sono messi in ascolto delle tradizioni dell'Africa, conservando fedelmente, allo stesso tempo, il patrimonio liturgico ricevuto dalla tradizione della Chiesa.

Desidero, inoltre, offrire una Medaglia del Pontificato alla Scuola di Cinematografia "Ipotesi Cinema", fondata e diretta dal Maestro Ermanno Olmi, per la sua pedagogia fondata sull'autentico umanesimo, come pure al Coro Interuniversitario di Roma, diretto dal Maestro Don Massimo Palombella, per il servizio reso al culto divino e alla cultura musicale.

Affido ciascuno di voi e le varie Istituzioni a cui appartenete alla materna protezione della Vergine Maria, che invochiamo come Tota Pulchra, la Tutta Bella". Vi assicuro un ricordo nella preghiera e di cuore imparto a tutti la Benedizione Apostolica.

 


 

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IL SANTO PADRE

GIOVANNI PAOLO II CONSEGNA

IL PREMIO DELLE PONTIFICIE ACCADEMIE

 

 

Nel corso della Nona Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie, tenutasi nell'Aula nuova del Sinodo, il Santo Padre Giovanni Paolo II ha assegnato per l'ottava volta il Premio delle Pontificie Accademie.

Presentata dal Consiglio di Coordinamento fra Accademie Pontificie, l’Abbazia Benedettina di Keur Moussa in Senegal è stata premiata dal Santo Padre per la sua opera d’inculturazione della musica liturgica.

 

Quindi, il Santo Padre ha fatto consegnare all’Abbazia di Keur Moussa, rappresentata dal suo Abate, il Rev.mo Padre Ange-Marie Niouky, un assegno di 20.000 euro e una pergamena con la seguente scritta in latino:

 

Summus Pontifex Ioannes Paulus II

proponente Consilio pro Academiarum Pontificiarum coordinatione

inclitae Abbatiae vulgo dictae Keur Moussa

ex Ordine Sancti Benedicti in Senegalia

Præmium Academiarum Pontificiarum

benevole tribuit.

Ex Ædibus Vaticanis, die IX mensis Novembris A.D. MMIV

 

Il Pontefice, inoltre, ha voluto offrire, quale segno di apprezzamento e di incoraggiamento, una medaglia del Pontificato alla Scuola di Cinema “Ipotesi Cinema”, istituita dal M° Olmi, per la sua pedagogia fondata sull'autentico umanesimo, nonché al Coro Interuniversitario di Roma, diretto dal M° Don Massimo Palombella, s.d.b., per il servizio reso al culto divino e alla cultura musicale, e quindi per il suo contributo alla promozione dell’umanesimo cristiano.

 


 

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In seguito l’Abate di Keur Moussa ha tenuto il seguente discorso:

 

Très Saint-Père,

 

            Vos fils d’Afrique vous remercient. Votre geste honore toute l’Afrique parce qu’elle est reconnue dans ses valeurs authentiques.

            L’Afrique est belle et noble dans son âme profonde, son âme musicale, car elle est ouverte à Dieu. Elle reconnaît l’œuvre du Créateur de tout bien ; l’Afrique profonde chante encore la gloire de Dieu et se laisse imprégner de sa beauté : beauté qui renouvelle sa jeunesse, comme dit le psaume, malgré ses blessures, ses souffrances qui crient justice.

            Il y a quelqu’un qui se réjouirait de ce grand jour pour l’Afrique, s’il avait été là, je veux parler du regretté Président sénégalais, Léopold-Sédar Senghor, l’Académicien, le poète et le politicien « per accidens ». Il avait écrit pour son pays, il y a plus de quarante ans, ces vers que nous chantons encore avec enthousiasme :

 

Pincez tous vos koras,

Frappez les balafons,

Le lion rouge a rugi,

Le dompteur de la brousse,

D’un bond s’est élancé

Dissipant les ténèbres ;

 

Soleil sur nos terreurs,

Soleil sur nos espoirs,

Debout, frères,

Voici l’Afrique rassemblée…

 

            Dans cet hymne national sénégalais plein d’espérance pour l’Afrique des débuts des indépendances, l’Afrique qui renaissait, le Président Senghor, le poète, conviait déjà l’Afrique-Mère au « banquet de la mondialisation » :

           

Debout, frères,

Voici l’Afrique rassemblée…

 

            Pendant que nous parlons de la globalisation, l’Afrique vient, elle aussi, avec sa note distinctive, se mêler au concert du banquet universel. Elle vient avec sa symphonie – koras, balafons, tam-tam et autres instruments de musique de son cru – s’unir à tous les peuples frères, afin que la fête soit plus belle et que la paix règne enfin dans les cœurs des hommes et des femmes qui se sentent fils et filles de la grande famille de l’humanité, cœurs trop longtemps meurtris hélas, lacérés et exsangues par des conflits stériles, fratricides. L’Afrique est au rendez-vous au seuil de ce troisième millénaire que nous souhaitons tous beau et radieux, porteur de germes de paix, de justice, de bonheur véritable et de salut éternel pour nos âmes appelées à contempler la gloire de Dieu.

            Merci, Très Saint-Père, pour ce geste plein d’humanité et de bonté paternelle ; par ce geste vous entendez encourager toute l’Afrique et tout particulièrement le Sénégal, qui se souvient avec gratitude de votre visite inoubliable en février 1992. Le Sénégal est un pays de dialogue et d’hospitalité : la « téranga » sénégalaise ! La douce mélodie de la kora traduit bien les sentiments profonds de ce peuple.

            La kora est devenue pour notre communauté monastique de Keur Moussa comme pour tant d’autres, un instrument de choix pour la prière liturgique. Sa vocation est universelle : elle rapproche les peuples multiples avec leurs diverses cultures.

            Aujourd’hui, arrivent à Keur Moussa, de partout, des hommes et des femmes de tous les continents. Ils se laissent bercer, interpeller par cette musique paisible qui invite à l’intériorité et conduit à la louange et à l’adoration. La musique, dans un cadre monastique, ne peut qu’aider favorablement à trouver Dieu.

            Dès leur arrivée au Sénégal en 1961, les Pères français venant de l’Abbaye Saint-Pierre de Solesmes, en France, se sont intéressés aux instruments de musique locaux dont ils ont pris soin de respecter l’identité spécifique tout en cherchant à les améliorer. La kora notamment a été transformée mais pas déformée. Ils ont collaboré avec des griots musulmans, bien connus alors au Sénégal. Ceux-ci venaient volontiers apprendre aux moines à jouer de la kora pour la louange de Dieu. « Le monachisme constitue une plate-forme naturelle pour la compréhension mutuelle », comme vous le rappeliez, Très-Saint Père, aux Pères Abbés bénédictins réunis en Congrès dernièrement (cf.Message du pape aux Pères abbés osb, Castelgandolfo, le 23 septembre 2004).

            Ainsi donc, progressivement, la kora a pris une place prépondérante dans la célébration quotidienne de la liturgie monastique à Keur Moussa ; une liturgie heureusement adaptée aux couleurs locales, avec l’apport du renouveau liturgique, au sortir du Concile Vatican II.

            Aujourd’hui, la kora qui a si bien répandu la louange divine partout, dépasse largement les frontières de l’Afrique ; elle devient, en quelque sorte, messagère de paix, parce qu’un peuple qui chante, paraphrasant saint Augustin, est un peuple qui vit.

            La kora qui, aujourd’hui, si je puis dire, fait son entrée officielle dans l’Académie des Arts et de la Musique Sacrée, contribue à l’inculturation et à l’évangélisation. L’Évangile de Jésus Christ s’est exprimé dans le génie d’un peuple, le peuple d’Israël, le peuple sémitique ; il continue à s’exprimer de même dans les génies de tous les peuples qui l’accueillent aujourd’hui.

            Très Saint-Père, ces peuples qui viennent des pays lointains accueillent avec joie et profonde gratitude votre geste magnifique qui réconforte et ennoblit. Toutes confessions confondues, l’Afrique vous en sait gré, le peuple sénégalais plus particulièrement.

            Je voudrais, humblement, traduire ici les sentiments de gratitude des autorités civiles et religieuses de mon pays : votre Représentant au Sénégal, Son Excellence Monseigneur Giuseppe Pinto, Nonce Apostolique à Dakar, la Conférence épiscopale du Sénégal, Mauritanie et Cap-Vert ; en particulier ceux de l’évêque du diocèse de Thiès dont l’Abbaye de Keur Moussa a toujours bénéficié du soutien indéfectible, sans oublier le cher Cardinal Hyacinthe Thiandoum qui a posé la première pierre du Monastère en 1962. De même, à travers mon humble personne, les évêques, les prêtres, les diacres, les religieux et religieuses et tout le peuple de Dieu du Sénégal, vous expriment leur sincère reconnaissance pour votre incessante attention paternelle.

            Priez pour nous et bénissez tous ceux qui, touchés par votre décision, se réjouissent avec nous, l’Abbaye de Keur Moussa singulièrement, mais aussi toutes les autres communautés religieuses et monastiques qui font monter chaque jour, vers le Très-Haut, la louange unanime des peuples, au son de la kora, du balafon, du tam-tam et des autres instruments africains de musique.

            Nous comptons sur Dieu et l’aide maternelle de la Très Sainte Vierge Marie, pour poursuivre fidèlement et patiemment le travail d’inculturation selon nos moyens, dans l’orientation typiquement monastique de la Congrégation de Solesmes dont nous sommes issus.

            Je me dois de rendre un hommage mérité, à Dom Jean Prou, le Père Abbé de Solesmes et fondateur du monastère du Cœur Immaculé de Marie de Keur Moussa, au Sénégal. Homme de foi, humblement soumis au Magistère de l’Église, il avait ces paroles admirables au moment où il fallait adopter le nouveau missel romain : « Telle est la position actuelle de l’Église, nous l’accueillons dans un esprit de foi filial, même s’il y a à regretter – au niveau de la piété – certains rites et usages anciens… » (citation libre des propos recueillis des lèvres de nos anciens de Keur Moussa).

            Quant à Dom Philippe Champetier de Ribes, Supérieur puis premier abbé de Keur Moussa, aidé de ses frères et fils, moines européens et africains, il a eu le mérite de mettre toute sa sagacité, pendant près de 40 ans, à vivre le défi de l’aggiornamento, suivant l’esprit du Concile Vatican II. Il a fallu à la fois se mettre à l’écoute attentive du Souffle nouveau qui anime l’Église post-conciliaire, s’ouvrir à l’Afrique mal connue et maintenir l’héritage reçu de Solesmes, l’Abbaye-Mère.

            Nous nous reconnaissons fils spirituels de saint Benoît, grand patriarche des moines d’Occident envers qui Dom Prosper Guéranger professait le plus profond attachement filial. Tout au long de son époque, Dom Prosper Guéranger, à l’exemple du grand patriarche saint Benoît, saura marqué la vie religieuse tant active que silencieuse avec sa fameuse Année Liturgique, exprimant par sa recherche de la beauté liturgique son attachement indéfectible au Souverain Pontife.

            Très Saint-Père, le Prix des Académies Pontificales que vous accordez cette année à l’Abbaye de Keur Moussa, sur présentation du Conseil de coordination des Académies Pontificales que préside Son Éminence le Cardinal Paul Poupard, en qualité de Président du Conseil Pontifical de la Culture, ratifie solennellement l’œuvre qui a été réalisée : une expérience d’inculturation émanant des cloîtres !

            De nos jours, semble-t-il, il y a une nouvelle découverte de la place centrale de la vie monastique dans l’Église, spécialement en Afrique. Les évêques en sont conscients et sollicitent de plus en plus notre étroite collaboration dans la pastorale d’évangélisation des peuples. Nous sommes heureux de participer à la vie active de l’Église, toutefois restent sauves notre spécificité, notre identité : la vie monastique et contemplative. C’est précisément dans cette perspective et avec le même esprit de service spontané et joyeux de l’Église, que s’engage notre communauté, dans sa nouvelle implantation monastique en Guinée Conakry, où quatre frères sont déjà installés depuis le 30 décembre 2003, confiants en la seule force de Dieu et en sa Providence.

            A cette occasion, j’ai convié la communauté à une course audacieuse, sous l’impulsion donnée à toute l’Église par votre solennelle invitation lancée au début de ce IIIe millénaire : « Duc in altum ». J’ai exhorté en ces termes, l’équipe fondatrice, au moment de son départ de Keur Moussa pour le nouveau monastère  « Saint-Joseph de Séguéya » : « Une page nouvelle se tourne pour ce Monastère de Keur Moussa, 40 ans, après son implantation au Sénégal. En ce moment décisif de l’histoire de notre communauté monastique, le Seigneur nous demande, dans un sursaut de foi surnaturelle, cet abandon absolu à Lui ; c’est un acte de foi, un acte d’espérance, un acte d’amour que nous posons comme croyants et comme enfants de l’Église-Mère, enfants de l’Église de Jésus Christ qui nous envoie. Nous sommes heureux et même fiers d’être choisis malgré notre misère pour cette belle et admirable oeuvre de l’Église ».

            Très Saint-Père, vos souhaits pour l’Année de l’Eucharistie qui commence, sont les nôtres : « Puisse l’Année de l’Eucharistie être pour tous une précieuse occasion pour devenir toujours plus conscients du trésor incomparable que le Christ a confié à son Église. Qu’elle soit un stimulant pour que la célébration de l’Eucharistie soit plus vivante et plus fervente, d’où naîtra une existence chrétienne transformée par l’amour (…) » (cf. Lettre Apostolique « Mane nobiscum Domine », n° 29).

            Nos communautés monastiques sont encouragées à vous suivre dans l’œuvre d’évangélisation et d’inculturation partout où le Seigneur nous appelle.

            Très Saint-Père, que Dieu continue de vous bénir et tout le peuple de Dieu avec vous !

 


 

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A nome della Scuola « Ipotesi Cinema » è stato letto quest’indirizzo di saluto del M° Ermanno Olmi:

 

Nella gioiosa occasione di questo prestigioso e significativo riconoscimento, i partecipanti ad IPOTESICINEMA, e io insieme a loro, rivolgiamo un saluto e un augurio con sentimenti di sincero affetto e devozione a Sua Santità Giovanni Paolo II e con lui a Sua Eminenza il Cardinale Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ai Presidenti delle Pontificie Accademie e a tutti coloro che tra i cristiani praticano, nell’eroicità del quotidiano, la carità e la giustizia sull’esempio dell’alto apostolato testimoniato dal Pontefice.

La responsabilità di ognuno è nel compito che ci è stato assegnato — o che ci siamo affidati — e la dignità della persona comincia dall’assolvimento di tale compito nella consapevolezza di ciascun dovere.

Noi, che pratichiamo le discipline della comunicazione, dobbiamo mantenerci sempre vigili nelle ragioni morali che presiedono al nostro operato affinché la nostra osservazione della realtà sia libera da ogni pregiudizio e da ogni opportunismo che possano tradire la buona fede nella verità.

Questi sono in principi che sono a fondamento di IPOTESICINEMA e le ragioni con le quali, tutti insieme, cerchiamo di rinnovare il nostro percorso di formazione.

Grazie.

 


 

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Don Massimo Palombella, direttore del Coro Interuniversitario, ha rivolto le seguenti parole di ringraziamento:

 

Ringrazio il Santo Padre per questa medaglia che corona in qualche modo un decennale lavoro prima di ogni altra cosa educativo. Il Coro Interuniversitario nasce infatti dalla preoccupazione pastorale di dare una casa e una famiglia agli studenti universitari a Roma “fuori sede”. Il tutto si è poi mosso guidato dalla convinzione che la cultura e la professionalità sono, all’interno del mondo universitario, veicolo di evangelizzazione e che quindi, all’università, l’azione “pastorale” deve essere conseguenza immediata di una seria attività accademica di studio e ricerca. Nel coro Interuniversitario la Musica è allora il vettore portante per una azione educativa che mira alla formazione globale della persona e in questo processo la qualità professionale diviene elemento determinante la stessa qualità educativa.

Non si può vivere per la musica che invece, con la sua bellezza e sana disciplina, può aiutare ognuno di noi a divenire sempre più umano. Ancora grazie.


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