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PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA

INTERVENTO DEL CARDINALE ENNIO ANTONELLI,
PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA,
IN OCCASIONE DEL X ANNIVERSARIO
DI ORDINAZIONE EPISCOPALE DI MONS. DINO
DE ANTONI,
ARCIVESCOVO DI GORIZIA

«IL VESCOVO A SERVIZIO DELLA COMUNIONE ECCLESIALE
2009»

Cattedrale di Gorizia
Venerdì, 18 settembre 2009

 

1) Vivere la Chiesa mistero di comunione

La Chiesa è mistero di comunione verticale con Dio Padre Figlio e Spirito Santo e orizzontale tra i discepoli di Gesù. Ecco a riguardo tre testimonianze.

- «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo» (1Gv 1,1-3).

- «La Chiesa universale si presenta come un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (LG 4).

- «[Il Figlio di Dio] comunicando il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, che raccoglie da tutte le genti […] Ci ha resi partecipi del suo Spirito, il quale, unico e identico nel capo e nelle membra, dà a tutto il corpo vita, unità e moto» (LG 7).

Animati dallo Spirito Santo i discepoli di Gesù partecipano alla vita filiale e alla missione salvifica di Cristo come fratelli di lui e come figli di Dio Padre e costituiscono la Chiesa famiglia di Dio.

La comunione è iniziativa e dono delle persone divine; viene principalmente dall’alto come autocomunicazione di Dio. Secondariamente però è anche opera dei credenti in quanto e nella misura in cui accolgono la grazia divina e cooperano con essa.

La Chiesa, essendo mistero di comunione frutto dell’iniziativa divina accolta nella cooperazione umana, «è agli occhi della fede indefettibilmente santa» (LG 39) e, propriamente parlando, non è mai peccatrice, «perché non ha altra vita che quella della grazia» (Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 1968). Tuttavia essa è sempre «bisognosa di purificazione» (LG 8), perché comprende in sé gli uomini peccatori (e in qualche modo tutti sono peccatori) che la danneggiano e la offuscano con i loro peccati. I peccati non sono azioni ecclesiali, ma antiecclesiali; non sono della Chiesa, ma sono nella Chiesa. La Chiesa di per sé è santa e santificatrice e per i peccatori prega, fa penitenza, domanda perdono a Dio e agli uomini. Non è la comunità dei perfetti, ma è «la santa Chiesa dei peccatori», consapevoli delle proprie colpe e perciò misericordiosi verso gli altri, pronti a perdonare e intercedere presso Dio.

Dio si comunica nella storia e mediante la storia. Perciò la comunione ecclesiale è «una sola complessa realtà» di tipo sacramentale, cioè spirituale e sociale, trascendente e storica, celeste e terrestre, invisibile e visibile (cf. LG 8). Secondo il Nuovo Testamento la presenza dinamica e unificante di Cristo Salvatore si estende a tutto l’universo, ma solo la Chiesa è il suo corpo (cf. Col 1,15-20), cioè la sua espressione esplicita e riconoscibile, il sacramento della comunione con Dio e tra gli uomini in Cristo, la visibilità dell’invisibile.

Ciò che si vede, la comunità delle persone, con la professione della stessa fede, con la stessa Sacra Scrittura, con gli stessi sacramenti, con il concorde magistero del Papa e dei Vescovi, con la fraternità ordinata secondo la disciplina canonica, con le relazioni e le attività umane coerenti con il Vangelo, con la santità spesso anche eroica di molti credenti, costituisce il segno pubblico e la mediazione storica della grazia e dell’unità in Cristo, quasi la sua trasparenza.

La Chiesa nella misura in cui è una (nello spazio e nel tempo) e santa accoglie e manifesta la presenza dinamica e salvifica di Cristo. Di tale presenza l’Eucaristia è l’attuazione e l’espressione più grande, ma anche la più nascosta e difficile da credere; invece l’amore reciproco e l’unità vissuta tra i credenti sono la manifestazione più riconoscibile e credibile, insieme all’eroismo dei santi e alla potenza misericordiosa dei miracoli.

A riguardo ecco tre citazioni dagli scritti di Giovanni, l’evangelista della comunione. «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35). E’ come se Gesù dicesse: “Sarò io ad amare attraverso di voi e tutti vedranno la mia presenza tra voi”.

«Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,20-21). Vivere l’unità nell’amore reciproco è partecipare e manifestare nel mondo in modo credibile la vita della Trinità divina.

«Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l’amore di lui è perfetto in noi. Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito» (1Gv 4,11-13). L’amore reciproco crea unità nel rispetto degli alterità e costituisce un riflesso sulla terra della Trinità divina. In questo senso è più perfetto e più bello anche dell’amore di beneficenza verso i poveri, i sofferenti e i nemici, che pure è necessario e importantissimo secondo il Vangelo. Del resto anche il celebre testo del giudizio universale si riferisce in primo luogo all’amore verso i discepoli di Gesù in situazione di bisogno e solo estensivamente si può riferire (in quanto Cristo è il capo di tutto il genere umano) a tutti gli uomini bisognosi di aiuto. «In verità vi dico: Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). I “piccoli” nel Vangelo di Matteo sono sempre i discepoli di Gesù (cf. Mt 5,19; 10,42; 11,11; 18,6.10.14); tanto più qui dove sono chiamati anche fratelli (cf. Mt 12,50; 23,8; 28,10).

L’unità nell’amore reciproco è il dono e il comandamento nuovo di Gesù, il segno distintivo dei discepoli di Gesù e della comunità ecclesiale. Si tratta di amare “come io vi ho amato”, cioè dando la vita per gli altri (cf. Gv 15,12-13). Desiderare e fare il bene gli uni degli altri anche con sacrificio, morendo a se stessi, al proprio interesse, piacere e utile immediato. Uscire da se stessi per dedicarsi agli altri e servirli con prontezza e con gioia; fare il vuoto dentro di sé per ascoltarli, accoglierli e valorizzarli; essere liberi nei confronti delle proprie abitudini, tradizioni culturali (cf. 1Cor 9,19-23), aspirazioni, idee, progetti, per costruire comunione secondo la verità del Vangelo. Non si pretende l’unanimità. Nelle cose di questo mondo sono inevitabili, anzi normali, le diversità di vedute, le divergenze, i malintesi, gli sbagli, le incoerenze. Ma la preghiera e la carità devono mantenere sempre aperto il dialogo e dirigere le stesse crisi al rafforzamento della comunione.

L’amore reciproco è partecipazione alla vita trinitaria, porta a vivere gli uni negli altri realisticamente, a immagine e per grazia della Trinità divina. E’ ascesi e mistica di comunione. E’ spiritualità, cioè vita secondo lo Spirito, che la anima e la sostiene.

In sintesi: la Chiesa è comunione con le persone divine da vivere e manifestare dentro la comunione tra persone umane nella concretezza della storia, mettendo in circolazione beni spirituali, culturali, materiali, sia nella continuità dell’atteggiamento filiale verso Dio e fraterno verso Cristo e gli altri sia nei tempi dedicati esplicitamente alla preghiera.

La spiritualità della comunione è particolarmente attuale nella società di oggi: disgregata, competitiva, conflittuale, povera di relazioni autenticamente umane, intristita dall’anonimato di massa e da tante solitudini individuali.

 

2) Vivere la Chiesa come fraternità ordinata

La Chiesa non è una monarchia, né una oligarchia, né una democrazia; è una fraternità ordinata.

I cristiani hanno pari dignità, in quanto tutti sono animati dallo Spirito Santo e sono resi fratelli di Gesù e figli di Dio Padre, tutti sono chiamati alla santità (LG 40), tutti sono consacrati per la missione profetica, regale e sacerdotale e perciò corresponsabili per la vita della Chiesa e per l’evangelizzazione del mondo.

Hanno però carismi e compiti diversi. Due carismi, quello dei pastori e quello dei coniugi, che sono particolarmente necessari per la vita della Chiesa, vengono conferiti con due sacramenti, quello dell’ordine e quello del matrimonio. Ma, considerando la dimensione sacramentale globale, generale della Chiesa al di là della sua figura sociologica, dobbiamo riconoscere che i carismi autentici, piccoli o grandi che siano, ordinari o straordinari, vengono tutti dall’alto, dallo Spirito Santo (cf. LG 4) e, una volta compiuto il doveroso discernimento, devono essere accolti e valorizzati per arricchire la comunione ecclesiale. I fedeli devono lasciarsi guidare dal Vescovo; ma anche il Vescovo deve ascoltarli e consultarli nella misura occorrente per discernere la volontà del Signore e valorizzare i doni di Dio.

Il carisma del Vescovo è essenziale e istituzionale; ma è pur sempre uno tra gli altri. Il Vescovo infatti è simultaneamente dentro la Chiesa e di fronte alla Chiesa, figlio e padre di essa, secondo la celebra formula di Sant’Agostino «Per voi sono Vescovo, con voi sono cristiano» (Sermo 340,1) commentata autorevolmente da Giovanni Paolo II (PG 10). Anzi non bisogna dimenticare che a volte altri carismi, come quelli dei grandi santi, uomini e donne, risultano assai più fruttuosi e segnano più profondamente la storia della Chiesa. Non per niente Giovanni Paolo II a Parigi nel giugno del 1980 ebbe a dire: «Le donne guidano la Chiesa in senso carismatico e forse ancor più degli uomini». Il profilo mariano della Chiesa è coessenziale e complementare con quello gerarchico. Maria è la prima e più perfetta attuazione della Chiesa «nell’ordine della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo» (LG 63)

Rivivere Maria, la sua fede, umiltà e obbedienza. Il Vescovo deve ascoltare con gli altri la Parola per poterla poi predicare con autorità; deve ricevere il perdono frequentando regolarmente il Sacramento della Penitenza per poter concedere agli altri il perdono del Signore; deve alimentarsi quotidianamente all’Eucaristia per poter santificare gli altri; deve obbedire per primo per poter governare; deve come Maria accogliere e generare in se stesso la presenza del Signore Gesù mediante la fede (cf. Lc 8,21) per poterla portare e manifestare agli altri come Maria nella Visitazione ad Elisabetta.

Il Vescovo è chiamato a esercitare con stile mariano il suo stesso ministero: raccoglimento, semplicità, concretezza, gratuità, prontezza a condividere le gioie e le sofferenze degli altri. Sarà padre, ma rimanendo fratello, come Maria è Madre e Sorella. Promuoverà la valorizzazione dei vari carismi, anche quelli delle donne, coordinandoli in vista della comunione. Starà in mezzo agli altri come servo dei servi del Signore, evitando ogni forma di autoritarismo, protagonismo, personalismo, autoaffermazione, morendo piuttosto a se stesso per risorgere nell’unità della Chiesa.

Nel suo ministero terrà presente che lo Spirito Santo è autore dell’unità e della distinzione e liberamente concede doni diversi «per l’utilità comune» (1Cor 12,7). «Dio ha composto il corpo [ecclesiale]» in modo che «le varie membra avessero cura le une delle altre» (1Cor 12,24-25). Nessun membro deve ritenersi autosufficiente: «Non può l’occhio dire alla mano: Non ho bisogno di te; né la testa ai piedi: Non ho bisogno di voi. Anzi quelle membra del corpo che sembrano più deboli sono più necessarie» (1Cor 12,21-22). I carismi autentici sono tutti preziosi e vanno integrati e valorizzati in una pastorale di comunione. Il Vescovo ha il compito di discernere la loro autenticità e di regolarne l’esercizio, ma non può disporne a piacimento né tantomeno soffocarli (cf. 1Ts 5,19). L’atteggiamento di obbedienza allo Spirito lo porterà ad accoglierli «con gratitudine e consolazione» (LG 12).

Il discorso oggi si applica in particolare alle nuove comunità e ai movimenti ecclesiali. I papi li hanno riconosciuti e presentati ripetutamente a tutta la Chiesa come preziosi doni di Dio per il nostro tempo, correnti autentiche ed esigenti di vita cristiana, energie feconde di evangelizzazione e di crescita umana. Eppure spesso trovano difficoltà ad inserirsi nelle diocesi e nelle parrocchie, un po’ forse per una loro rigidità e, a volte, tendenziale autosufficienza, ma più ancora per una insufficiente accoglienza. Non basta che siano tollerati e tenuti ai margini; devono essere valorizzati pienamente perché possano portare i loro frutti. Le comunità territoriali finirebbero per averne grande vantaggi.

 

3) Servire con Cristo la Chiesa mistero di comunione

La Chiesa non è una democrazia e il Vescovo non è un delegato della comunità. La Chiesa è mistero di comunione per iniziativa delle persone divine e anche il Vescovo riceve la sua missione dall’alto, dal Padre per mezzo di Cristo nello Spirito (cf. PG 7). «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 27,19-20). «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi […] Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi» (Gv 20,21.23).

Con il Sacramento dell’Ordinazione il Vescovo è unito e configurato a Cristo pastore e sposo della Chiesa; è costituito immagine viva di lui, non per sostituire la sua assenza, ma per manifestare la sua presenza e facilitare l’incontro diretto con lui: «Chi accoglie colui che io manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13,20).

Il Signore Gesù gli conferisce il triplice ministero di insegnare, santificare e governare: tre funzioni complementari e immanenti una nell’altra (cf. PG 9). Anzi è Cristo stesso che per mezzo del Vescovo insegna, santifica e governa, continuando a svolgere in modo visibile la sua missione di maestro, sacerdote e pastore (cf. PG 6. Visione sacramentale della Chiesa).

Poiché Cristo svolge la sua missione come servizio e dono totale di sé, anche i pastori che lo rappresentano devono svolgerla come servizio e dono totale di sé (cf. Mc 10,42-45; Gv 13,1-17; Col 1,24-26), in modo che Cristo stesso possa continuare a manifestarsi come servo attraverso di loro.

Nei molti pastori c’è un solo Pastore. Anche la Chiesa è una in molte chiese. La Chiesa universale non è la somma o la federazione delle chiese particolari e queste non sono sue parti. L’unico mistero presente in ogni tempo e luogo e nell’eternità, l’unico soggetto storico e metastorico si incarna, si attua e si esprime in molti contesti culturali e sociali prendendo figura concreta in singole comunità cristiane, un po’ come l’unico Cristo con l’unico sacrificio pasquale si fa presente nelle molte celebrazioni eucaristiche e l’unico Vangelo rivela progressivamente le sue virtualità man mano che è pensato e vissuto secondo le categorie e le forme delle varie tradizioni culturali. Questa visione sacramentale esalta la dignità e l’importanza della Chiesa diocesana, in quanto espressione concreta di tutto il mistero della Chiesa. Esalta il valore della spiritualità diocesana nelle sue dimensioni di incarnazione, visibilità empirica e storicità.

Di tipo sacramentale è il rapporto dell’unica Chiesa universale con le molte chiese particolari. Parimenti di tipo sacramentale è il rapporto tra l’unico Pastore e i molti pastori. «Cristo è lui solo che pasce il gregge, ma lo fa impersonandosi nei singoli pastori» e «tutti i pastori si identificano con la persona di uno solo, sono una cosa sola» (Sant’Agostino, Discorsi 46,29-30).

L’episcopato è uno, indiviso e universale come la Chiesa (cf. San Cipriano, Lettere 66,8,3; PG 8) e agisce nelle forme della collegialità affettiva ed effettiva. L’autorità del Collegio dei Vescovi non risulta dalla somma dei poteri dei singoli Vescovi diocesani, ma è una realtà previa e originaria e vi partecipano anche i Vescovi senza diocesi (cf. PG 8). Non c’è collegio episcopale se non con il Papa, il quale, anche da solo, possiede e può esercitare l’autorità su tutta la Chiesa in nome di Cristo. Episcopato e primato petrino sono inscindibili e si sostengono reciprocamente in una dinamica di comunione.

Ogni Vescovo, in comunione con il Papa, deve da parte sua vivere intensamente la sollecitudine per la Chiesa universale e per tutte le chiese particolari ed esprimerla concretamente in vari modi secondo le sue possibilità (cf. PG 8), condividendo la passione ardente dell’apostolo Paolo: «Il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le chiese» (2 Cor 11,28). Deve coltivare la sua Chiesa particolare non come un’isola, ma come espressione vitale della Chiesa universale, in modo da accogliere e donare i beni spirituali in una continua circolazione di carità e contribuire a manifestare l’unità dinamica tra tutte le Chiese particolari.

L’essere costituito immagine viva di Cristo pastore e sposo della Chiesa mediante l’ordinazione comporta per il Vescovo una motivazione ulteriore rispetto alla consacrazione battesimale per tendere alla santità, una nuova chiamata specifica.

Il Vescovo è chiamato a farsi uno con Cristo nella carità pastorale e sponsale (cf. San Tommaso d’Aquino, In Ev. Jo. X,3), in modo da poter dire con San Paolo «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). Praticando i consigli evangelici e le beatitudini deve uscire fuori da se stesso, non chiudersi in nulla di proprio, esclusivo, circoscritto, aprirsi a un amore più grande e in quello unificare tutti i suoi pensieri e affetti, desideri e attività, gioie e sofferenze (cf. PG 18-21). Così potrà accogliere in sé la “carità pastorale” universale di Cristo e potrà lasciarla passare attraverso di sé in modo riconoscibile (cf. PG 13). Allora l’unico Pastore potrà realisticamente amare con il cuore del Vescovo, guardare con i suoi occhi, parlare con la sua bocca, operare con le sue mani. Allora l’unità sacramentale con Cristo diventerà esistenziale e trasparente; acquisterà maggiore credibilità, fecondità ed efficacia per far crescere la Chiesa comunione, verticale e orizzontale, con Dio e tra gli uomini.

Perché il Vescovo possa farsi uno con Cristo nella carità pastorale, è necessario che egli sia innamorato di lui e si eserciti a vivere insieme a lui come amico e confidente. Gesù scelse gli apostoli perché «stessero con lui e anche per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Stare con Gesù comporta tutto uno stile di vita. Non deve limitarsi ad alcuni momenti di preghiera esplicita, ma deve estendersi a tutte le relazioni e attività del vissuto quotidiano e del ministero pastorale. San Paolo direbbe: agire con lui, patire con lui, essere crocifisso con lui, risuscitare con lui. E’ importante ricordarsi spesso della presenza del Signore qui e ora e concentrarsi sull’attimo presente per valorizzarlo nel miglior modo possibile. La spiritualità dell’attimo presente, adatta a tutti i cristiani, viene delineata in modo suggestivo da Teilhard de Chardin con queste parole: «Dio non è lontano da noi, fuori della sfera tangibile; ma ci aspetta ad ogni istante nell’azione, nell’opera del momento. In qualche maniera, è sulla punta della mia penna, del mio piccone, del mio pennello, del mio ago – del mio cuore, del mio pensiero. E’ portando sino all’ultima perfezione il tratto, il colpo, [il tocco], il punto al quale mi sto dedicando, che coglierò la Meta ultima cui tende il mio volere profondo» (P. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino). In sintesi si potrebbe dire “Vedere Dio in tutto e tutto in Dio”. Ciò è indicato specialmente per il servizio pastorale. Bisogna non fare l’abitudine agli atti di ministero, ma sentirli con stupore e gratitudine come eventi di grazia sempre nuovi attraverso la nostra povera mediazione umana.

4) Una pastorale di comunione (cf. NMI 43-47; PG 22)

La comunione con le persone divine e tra di noi sarà perfetta solo nell’eternità, quando Dio sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28). Il Vescovo sarà sempre impegnato nella sua conversione personale, anche con la frequenza regolare del Sacramento della penitenza (cf. PG 13), e nello stesso tempo guiderà la comunità cristiana in un cammino di riforma incessante, con realismo umile e con speranza audace, perché fondata sulla grazia.

Per far crescere la comunione, occorre dare maggiore importanza alla qualità delle relazioni che alle attività e all’organizzazione; occorre unire la mitezza alla fedeltà e alla fermezza, privilegiare la proposta positiva della verità e del bene alla condanna dell’errore e del male, saper stare tra gli altri carismi del popolo di Dio non come un padrone, ma come un servitore, disponibile ad ascoltare e a lasciarsi arricchire senza rinunciare al necessario discernimento e all’insegnamento autorevole, curare la comunicazione e la circolazione delle esperienze ecclesiali di maggior rilievo.

Una speciale responsabilità ha il Vescovo per l’unità del presbiterio diocesano, che è a lui affidato (cf. PG 47). Sta a lui non solo promuovere le riunioni programmate e istituzionali, ma anche incoraggiare quelle spontanee. Sta a lui favorire la fraternità e la collaborazione tra i sacerdoti in varie forme, ricordando che il Signore ha mandato i primi discepoli due a due (cf. Mc 6,7; Lc 10,1) e che gli apostoli preferivano andare insieme ad evangelizzare (cf. At 8,14; 13,2; 15,22), per l’amore e l’aiuto reciproco e per una maggior credibilità (cf. Qo 4,9-10; Dt 19,15).

Il Vescovo avrà cura che ogni parrocchia cresca come vera comunità, come «l’espressione più immediata e visibile» della comunione ecclesiale (Giovanni Paolo II, CfL 26), e non venga percepita come una stazione di servizi religiosi e caritativi o come un decentramento burocratico della istituzione ecclesiastica. Occorre stimolare lo sviluppo di una rete di comunicazione tra le famiglie con opportune iniziative di amicizia e convivialità, formazione e spiritualità, solidarietà e aiuto reciproco. Si può pensare, per esempio, alla preparazione dei fidanzati al matrimonio in piccoli gruppi guidati da una coppia di sposi, al coinvolgimento sistematico dei genitori nell’itinerario di iniziazione cristiana e di catechesi dei figli, a giornate per le famiglie, volontariato familiare, incontri di vicinato, piccole comunità di vicinato, gruppi e associazioni. Tale rete di rapporti può diventare un sostegno prezioso contro l’anonimato, l’estraneità e la solitudine derivanti da una società di massa competitiva e conflittuale; può valorizzare le famiglie cristiane come soggetti di comunione e di evangelizzazione; può edificare la parrocchia come «comunità di comunità» secondo l’auspicio di Giovanni Paolo II (Ecclesia in America 41).

Il Vescovo infine è chiamato a insegnare che il mistero di comunione è dinamico ed essenzialmente missionario. Come il corpo eucaristico del Signore viene offerto per tutto il mondo, così il suo corpo ecclesiale deve offrirsi come dono, intercessione, segno pubblico e strumento di salvezza per tutto il mondo. Il Vescovo deve impegnarsi costantemente per promuovere la conversione dei sacerdoti, delle comunità e dei fedeli alla missione permanente, alla sollecitudine per tutti gli uomini e per tutto l’umano, scuotendo ogni timidezza e ogni pigrizia del cuore, non stancandosi di ricordare che fare comunione con Cristo, morto e risorto per tutti, significa condividere il suo appassionato amore salvifico universale - «L’amore di Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti» (2Cor 5,14).

L’evangelizzazione avviene per il fascino e l’attrazione della comunione (cf. Gv 17,21) uniti all’annuncio (cf. Rm 10,14-17). Sono importanti le «minoranze creative», perché la qualità conta più dei numeri. Ci troviamo in una società secolarizzata, in una eclissi epocale di Dio; ma non bisogna aver paura della notte, finché in mezzo all’oscurità ardono dei fuochi che illuminano e riscaldano. Ricordare sempre che il mondo si salva per la via della croce e perciò il Signore non ha promesso alla Chiesa facili successi, ma persecuzioni.

Per altro il rapporto con il mondo deve includere anche l’attenzione a tutto ciò che c’è di vero, di buono e di bello per valorizzarlo (cf. Fil 4,8), scrutando con simpatia i segni dei tempi, senza ovviamente diventare subalterni alla mentalità e alla cultura secolarizzata (cf. Rm 12,2).

Occorre anche saper vedere le sofferenze e le ingiustizie del mondo e prendersi cura con amore preferenziale dei malati, degli oppressi, dei poveri, sull’esempio di Gesù (cf. Lc 4,18). Il Vescovo deve farsi difensore dei deboli e dei poveri, cercando di mobilitare le energie e le risorse della Chiesa e della società (cf. PG 20); deve educare al rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e della dignità di ogni persona. Comunione, evangelizzazione, solidarietà e promozione umana sono altrettanti aspetti della carità e si compenetrano reciprocamente.

Infine il Vescovo deve stimolare nella sua diocesi la cooperazione missionaria tra le Chiese. Ogni chiesa particolare deve testimoniare concretamente la sua responsabilità per il mondo intero e contribuire a far sì che la Chiesa universale non venga percepita solo come istituzione e organizzazione, ma come una sola grande famiglia dei figli di Dio e fratelli di Gesù, radicata in molti popoli e culture e diffusa su tutta la terra.

 

+ Ennio Card. Antonelli

Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia

 

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