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PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE

INTERVENTO DEL CARD. RENATO RAFFAELE MARTINO
AL MASTER IN DIREZIONE D'IMPRESA PROMOSSO DALLA
"FONDAZIONE ANTONIO GENOVESI - SDOA" DI SALERNO

Vietri sul Mare
Venerdì, 18 giugno 2004
   


L'impresa tra etica e profitto

 

Nell'Enciclica Centesimus annus Giovanni Paolo II parla in una prospettiva etico-culturale sia dell'impresa che del profitto. Di ambedue queste complesse realtà Egli coglie, tra l'altro, due aspetti di una semplicità disarmante e, contemporaneamente, di una ricchezza assai profonda. Dell'impresa dice che è prima di tutto e soprattutto una "comunità di uomini" (n. 35). Del profitto afferma che "è un indispensabile indicatore del buon andamento dell'azienda", ma non è l'unico (Idem).

Affermazioni di una grande semplicità e apparentemente povere di contenuto. Eppure ricche di rimandi in due precise direzioni:  a) nessuno dei due elementi - impresa e profitto - si qualifica veramente per quello che intimamente è per i suoi soli aspetti materiali (la comunità di uomini non è, infatti, qualcosa di materiale e il profitto è l'indice, non unico, di un "buon funzionamento", cioè di qualcosa di immateriale); b) impresa e profitto rimandano ad un contesto antropologico, che trascende entrambi e conferisce loro un senso preciso:  si tratta della centralità e totalità della persona, ovvero del primato del lavoro sul capitale. Il riferimento alla persona umana offre, non solo, si badi, un senso etico, ma anche - non ci si stupisca! - un senso economico. In altre parole il Santo Padre indica che l'impresa e il profitto, che sembrano essenzialmente e primariamente realtà economiche, non si spiegano con la sola economia nemmeno nei loro aspetti economici. Mi sembra un'interessante sfida sia all'etica che all'economia.

Non è mia intenzione ripercorrere l'evoluzione del pensiero della Chiesa su impresa e profitto e non mi impegnerò ad affrontare qui la vexata quaestio su cui tanto si è scritto: con il profitto la Chiesa ha accettato anche il capitalismo? Indicazioni per una risposta potranno emergere incidentalmente da quanto dirò. Sono invece interessato a pormi un'altra questione, che mi sembra più urgente e importante per il futuro. Quelle semplici affermazioni del Santo Padre, con il loro rimando al contesto antropologico, contrastano con la realtà odierna dell'impresa e con la dottrina sull'impresa? Si tratta di affermazioni moralistiche o moraleggianti, oppure sono riconoscimenti di una "realtà" attestata anche da molti fenomeni del mondo imprenditoriale di oggi e perfino dall'economica aziendale e da altre discipline che si occupano di questi problemi? Trovo che la domanda non solo sia pertinente, ma anche molto importante. Dal punto di vista teologico significa chiedersi se l'etica cristiana subentri dall'esterno a considerare e a valutare una realtà originariamente negativa, oppure sia un'ulteriore illuminazione di una "realtà", quella economica, che quando segue la propria razionalità non si pone pregiudizialmente fuori dall'etica cristiana.

Affermare - come fa la Centesimus annus - che l'impresa è prima di tutto una "comunità di uomini" e che scopo primario dell'impresa è garantire l'esistenza stessa di questa "comunità", significa affermare quanto la realtà dell'impresa moderna continuamente attesta, ossia che il valore dell'impresa è immateriale, relazionale, sociale.

Dimensione immateriale dell'impresa

L'immaterialità dell'impresa è sotto gli occhi di tutti e viene accentuata nel passaggio dalla seconda alla terza rivoluzione industriale. Valgono sempre di più le conoscenze e le risorse umane e sono sempre meno importanti le risorse materiali e fisiche. L'impresa è sempre più capacità di lavorare insieme, soddisfare bisogni, perseguire obiettivi, sviluppare potenzialità, produrre e vendere idee e simboli. L'irruzione dell'informatica nella vita dell'impresa, che va appunto nel senso di una smaterializzazione, è solo il fenomeno più evidente di un processo molto più profondo:  la presa progressiva di coscienza che a fare l'impresa non sono solo le macchine, le risorse materiali o le strutture, ma sono soprattutto gli uomini. Sono le qualità personali, le virtù morali come il coraggio, la fortezza, l'intraprendenza, l'affidabilità, la prudenza e, come dice il Santo Padre, "la capacità di iniziativa e di imprenditorialità" (CA 32).

Quanto appena detto è un aspetto della centralità del lavoro umano rispetto al capitale, che Giovanni Paolo II ha teorizzato approfonditamente nell'enciclica Laborem exercens. Centralità del lavoro significa centralità dell'uomo nel lavoro, ossia la convinzione che a rendere il lavoro tale è "chi lo fa" e non "cosa fa". Nell'impresa moderna, anche se in modo spesso contraddittorio, proprio a motivo della sua minore "pesantezza" e maggiore "immaterialità" questo può emergere con maggiore evidenza. Se abbiamo il coraggio di farlo emergere.

Dimensione relazionale dell'impresa

In secondo luogo il valore dell'impresa è "relazionale". Sempre lo è stata, ma lo è ancor di più ai nostri giorni e lo sarà sempre di più in futuro. La flessibilità e l'internazionalizzazione richiedono, infatti, di trasformare il mondo delle imprese in una "rete". Un tempo le imprese cercavano di accorpare al proprio interno tutte le operazioni e le competenze, perseguendo una specie di autosufficienza. Oggi tendono invece ad esternalizzare, concentrandosi sul loro core business. Si promuovono forme varie di condivisione di risorse e competenze ed anche nuove forme di partecipazione al rischio imprenditoriale. A nessuno sfuggono gli elementi, anche preoccupanti, di questi fenomeni, specialmente nelle fasi di transizione dal vecchio al nuovo che sempre comportano disfunzioni e sofferenze. I nuovi modi di lavorare incidono in profondità sulle forme di tutela e solidarietà sociale nonché sulla vita familiare. Ma perché non soffermarsi anche sugli aspetti positivi, cercando di guidarli al meglio a servizio dell'uomo? Perché non vedere che è in aumento la "relazionalità" e che questo presenta anche molti vantaggi? Si pensi per esempio a due fenomeni di grande interesse. Il primo è che le forme tradizionali di impresa non vengono distrutte ma, appunto, messe in rete.

L'impresa tradizionale a base familiare con la centralità della figura dell'imprenditore-proprietario che funge anche da manager continua a vivere accanto alla grande corporation quotata in borsa con la centralità assunta in essa dal manager nettamente distinto dalla proprietà. E tutt'e due convivono con le nuove forme di micro-impresa, dalla struttura piatta e dall'organizzazione leggera, particolarmente adatta al contesto della nuova economia.

Tutto ciò crea un'inedita possibilità di relazioni proficue, di scambio di know-how e di risorse umane. Anche a vantaggio delle imprese dei paesi meno fortunati. È questo, infatti, il secondo aspetto positivo. L'internazionalizzazione è ormai giunta alla portata non solo delle grandi corporations multinazionali, ma anche delle piccole imprese. La relazione di rete permette di suddividere il rischio e di attuare joint-ventures anche con imprese locali dei paesi svantaggiati. Se aumentassimo la creatività e la disponibilità a pensare in modo nuovo anche la solidarietà internazionale, si aprirebbero nuovi orizzonti di sviluppo anche per i paesi poveri. È questa una conseguenza di quanto affermato nella Centesimus annus che vale la pena approfondire.

Il Santo Padre non pensa che la soluzione del problema dello sviluppo consista nel protezionismo e nelle chiusure. La Centesimus annus non è una enciclica pauperistica. Essa dice piuttosto il contrario:  il sottosviluppo dipende "dall'isolamento dei paesi più poveri dal mercato mondiale" (n. 33) e proprio per questo bisogna aiutare gli uomini "ad acquisire conoscenze, a entrare nel circuito delle interconnessioni, a sviluppare le loro attitudini per valorizzare al meglio capacità e risorse" (n. 34). La possibilità di questo "accesso" è frenata da molti ostacoli. Tra di essi, secondo me, c'è anche la mentalità che considera il commercio "etico" come un circuito parallelo e residuale rispetto a quello del commercio tout-court e non integrato in esso; che limita lo smercio dei prodotti dei paesi poveri nel mercato occidentale ai soli circuiti del "mercato etnico"; che considera gli aiuti economici alle imprese dei paesi poveri solo sotto forma di prestiti o trasferimento di tecnologia da noi obsoleta e non anche come compartecipazione al rischio e quindi come esportazione di know-how imprenditoriale nel sud del mondo.

Dimensione sociale dell'impresa

In terzo luogo, il valore dell'impresa è sociale; anche questo è una implicazione diretta della definizione che Giovanni Paolo II ha dato di impresa e che trova ampia conferma nella realtà imprenditoriale stessa e nella dottrina specialistica. Mi riferisco non solo al fatto che l'impresa è di per sé un fatto sociale in quanto è una risposta non individuale al bisogno di beni economici; né solo al fatto che l'attività di impresa ha molteplici ed ovvie conseguenze sulla società. Mi riferisco, più in profondità, al fatto che l'intima realtà dell'impresa è proprio di natura sociale, che l'impresa si nutre di socialità, che rappresenta anche la sua ricchezza economica. Mi riferisco al fatto che la ricchezza sociale dell'impresa si nutre, in una osmosi fittissima, della ricchezza sociale dell'intero tessuto sociale di appartenenza. Tanti studiosi hanno fatto emergere l'importanza del cosiddetto "capitale sociale", inteso come qualcosa di diverso e di ulteriore dal capitale fisico e dal capitale umano. Non voglio pronunciarmi qui sulle varie scuole di pensiero sul capitale sociale, intendo solo sottolineare come esso sia una versione scientifica - che la scienza stessa deve confermare o meno - di quanto il Santo Padre afferma sull'impresa come "comunità di uomini". Il capitale sociale, si noti bene, ha carattere "immateriale" ed è sempre una ricchezza "pubblica", anche quando a produrlo sono imprese a carattere prettamente privato. Per questo l'impresa si nutre di capitale sociale, ma anche produce incessantemente capitale sociale, non solo al proprio interno ma anche, inevitabilmente, nella comunità sociale circostante. Contemporaneamente si deve riconoscere che il capitale sociale esistente nelle reti di fiducia e solidarietà sociale all'esterno dell'impresa costituisce una ricchezza anche interna all'impresa stessa, la quale si nutre non solo del capitale sociale che essa produce, ma anche di quello che è prodotto attorno ad essa.

Le virtù civiche, la tenuta dei vincoli familiari e quindi la capacità della famiglia di trasferire i legami tradizionali alle nuove generazioni e comportamenti sociali improntati a moralità e a civismo, i legami di reciprocità nella società civile, la buona amministrazione nelle istituzioni e i vincoli religiosi producono effetti anche economici di notevole entità dentro e fuori l'impresa. L'impresa non è mai l'unica protagonista dei propri successi, né l'unica colpevole dei propri insuccessi.

Giovanni Paolo II, nella Centesimus annus, non entra certamente in questi dettagli. Tuttavia pone con grande chiarezza il problema del rapporto tra l'economia - e quindi tra l'impresa - e il "complesso dell'attività umana". Quando l'economia è in crisi, Egli afferma, "la causa va ricercata non solo e non tanto nel sistema economico stesso, quanto nel fatto che l'intero sistema socio-culturale (...) si è indebolito e ormai si limita solo alla produzione di beni e servizi" (n. 39). Lo stesso dicasi di un'impresa:  essa è alla fine quando si limita a produrre beni e servizi. Giovanni Paolo II afferma questo a proposito delle economie capitalistiche. Lo stesso criterio aveva però animato anche la sua critica al comunismo, il quale non è caduto, afferma sempre il Santo Padre, per le sue disfunzioni economiche, ma per i suoi errori antropologici, che hanno poi prodotto anche la povertà e la miseria. Le code ai negozi e l'economia parallela sono state la causa strumentale, ma la causa finale del crollo era di altro genere da quella economica.

Conclusione

Con queste considerazioni ispirate dalla Centesimus annus ritorniamo a quanto avevamo affermato all'inizio di questa relazione e cioè alla constatazione che l'impresa e il profitto non sono sufficienti a dare ragione di se stessi, nemmeno dal punto di vista economico. Ad attestarlo sono le scienze economiche stesse. È impossibile spiegare l'economia con l'economia. Le dimensioni sociale, etica e perfino religiosa sono strettamente collegate con l'economia, con l'azienda e con il profitto. Questo grande messaggio della Dottrina sociale della Chiesa trova conferma nelle scienze sociali stesse che documentano come fattori immateriali, relazionali e sociali svolgano un ruolo anche economico di primaria importanza.

Non dico questo per affermare che tutto è economia. Al contrario:  lo dico per mettere l'economia al proprio posto, che è l'unico modo per fare andare bene l'economia stessa. Non esiste nella Dottrina sociale della Chiesa l'idea di una economia originariamente cattiva da imbrigliare, come una bestia feroce che va ammansita, con le redini dell'etica. L'economia è già originariamente data dentro un contesto immateriale, sociale, relazionale di tipo non economico con cui interagisce sistemicamente. I costi economici sono sempre anche costi umani. I costi umani hanno sempre anche una ricaduta economica. Più l'economia è virtuosa più il contesto si fa più umano. Più il contesto è promozionale della persona più l'economia trova vento per le proprie vele.

      

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