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OMELIA DI MONS. FRANCIS KOHN
RESPONSABILE DELLA SEZIONE GIOVANI

Centro Internazionale Giovanile San Lorenzo
Venerdì 14 marzo 2008

 

Domenica scorsa, abbiamo meditato sul brano della risurrezione di Lazzaro, che costituisce l’ultimo «segno» compiuto da Gesù prima di entrare nel mistero della sua passione e morte. È infatti l’ultimo suo viaggio in Giudea, la sua ultima salita verso Gerusalemme, che si concluderà sul Golgota. E tra pochi giorni, la celebrazione della Domenica delle Palme ci introdurrà nella Settimana Santa, durante la quale rivivremo la passione e la morte di Cristo fino alla notte della Resurrezione. Questa sera vorrei meditare con voi sul mistero della Croce, che è già presente nelle letture di quest’ultimo venerdì di Quaresima. Ma prima, vorrei affrontare due tematiche importanti della teologia giovannea, a partire dalla parole di Gesù nel Vangelo: Che significa compiere l’opera di Dio? Come può l’uomo diventare Dio?

Nella prima lettura che abbiamo ascoltato, il profeta Geremia esprimeva la sua angoscia di fronte alle prove, alle persecuzioni e alle minacce degli uomini: «Sentivo le insinuazioni di molti: “Terrore all’intorno! Tutti i miei amici spiavano la mia caduta”». Ma esprimeva anche la sua fiducia nel Signore che difende sempre il giusto: «Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso, per questo i miei persecutori cadranno e non potranno prevalere; (...) Cantate inni al Signore, lodate il Signore, poiché a te ho affidato la mia causa! perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori» (Ger 20, 10-13). Anche il salmista cantava la potenza di Dio, che ci protegge e ci libera dal male: «Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore; mio Dio, mia rupe, in cui trovo riparo; mio scudo e baluardo, mia potente salvezza. Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici » (Sal 17, 3).

Nel Vangelo, i Giudei vogliono lapidare Cristo con l’accusa di bestemmia, perché sostiene di essere Dio. Ed è proprio ciò che è! In sua difesa, egli cita la Legge, secondo la quale gli uomini sono dèi. Lui, Gesù, è vero uomo e vero Dio. E come “prova”, fa riferimento alle sue “opere”, come ha fatto anche in altri momenti del suo ministero pubblico: «Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non volete credere a me, credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre» (Gv 10, 38-39).

Ma che significa compiere l’opera di Dio? Le opere del Figlio attestano che egli è il Messia, il Figlio di Dio, ma sono tutte in relazione a quelle del Padre: «Le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato» (Gv 5, 36). Infatti Gesù non smette di ricordare ai suoi discepoli che il Figlio da sé non può fare nulla. Tutto ciò che ha, l’ha ricevuto dal Padre; e tutto ciò che fa, lo ha visto fare dal Padre. È nel Figlio che si esprime pienamente l’opera del Padre: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5, 17). La missione di Cristo è di glorificare il Padre portando a termine l’opera di Dio, cioè salvare tutti gli uomini e dare loro la vita in abbondanza.

Non bisogna confondersi sul senso dell’espressione “compiere l’opera di Dio”, che non appartiene alla categoria del “fare”, ma della “fede”. Infatti, quando chiedono a Gesù: «Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?», lui risponde: «Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato» (Gv 6, 28-29). Come il Figlio cerca sempre di compiere la Volontà del Padre, anche noi possiamo scoprire la volontà di Dio, manifestando la nostra fede in Gesù che compie le opere del Padre. La fede non è credere in qualcosa, ma in Qualcuno; non è astratta teoria, ma impegno concreto per Cristo. Certo, come affermerà san Paolo, non sono né la Legge, né le opere che ci “giustificano”, ma la croce, la grazia, accolte dalla fede. Eppure, se le opere non sono fonte di salvezza, restano l’espressione necessaria della fede (cf. Gc 2, 14-16; Ef 2, 10). La fede che vuole Cristo, è una fede “con le opere”, «che opera per mezzo della carità» (Gal 5, 6). La fede è scegliere la luce al posto delle tenebre, la vita piuttosto che la morte; è una fiducia totale in Dio capace di spostare le montagne (cf. Mt 21, 21-22), perché a Dio nulla è impossibile. Chi ci dà questa certezza? La potenza di Colui che ha vinto la morte rendendoci partecipi della sua vittoria.

In questo brano del Vangelo emerge un altro tema importante, che ricorre spesso nella teologia di San Giovanni e nelle lettere paoline: l’adozione filiale e la “divinizzazione” dell’uomo. Gesù si presenta come l’ “inviato” del Padre, colui che, mediante l’Incarnazione, è venuto in mezzo a noi per comunicare a tutti gli uomini la filiazione divina che egli ha ricevuto dal Padre. L’adozione filiale era uno dei privilegi di Israele enumerati da San Paolo (cf. Rm 9, 4), ma i cristiani sono figli e figlie di Dio in un senso particolare, cioè che, “rigenerati” dal battesimo, lo Spirito Santo dà loro il dono di partecipare alla vita divina per mezzo della fede in Gesù Cristo (cf. Gal 3, 26; Ef 1, 5). Mediante lo Spirito Santo che abbiamo ricevuto nel battesimo, siamo diventati “figli di Dio”, “figli adottivi” (cf. Gal 4, 5; Rm 8, 14-17), predestinati a essere conformi all’immagine dell’unico Figlio (cf. Rm 8, 29). Questa adozione filiale è già una realtà presente nella grazia, che sarà pienamente manifestata quando lo vedremo così come egli è (cf. 1 Gv 3, 2). Perciò, dire che siamo “figli adottivi” di Dio non è semplicemente un modo di dire, ma una realtà. La vocazione dell’uomo è proprio quella di diventare partecipi della vita divina, della natura di Colui che ci ha adottati mediante suo Figlio (cf. 2 Pt 1, 4).

La conseguenza di questa adozione filiale è che siamo chiamati a essere “divinizzati”, nel senso che diventiamo partecipi della vita stessa di Dio. Non dobbiamo mai dimenticare che Dio è il primo, che prende sempre l’iniziativa e agisce gratuitamente dentro di noi. Seguire questo cammino di santificazione fa sì che, mediante la fede, diventiamo “collaboratori” di Dio e cooperiamo alla sua opera di salvezza nel mondo. Per questo, prima dobbiamo riconoscere e accettare la nostra condizione di creature, il fatto che siamo totalmente dipendenti da lui, nostro Creatore. Dobbiamo riconoscere l’abisso incommensurabile che ci separa da lui, una differenza “essenziale”, che non è solo di grado, ma di natura. Poiché siamo soggetti alla tentazione e al peccato, dobbiamo far crescere in noi il desiderio e la determinazione di convertirci, di seguire Cristo, accogliendo nelle nostre vite la Misericordia di Dio.

Questa divinizzazione dell’uomo è l’opposto dell’atteggiamento orgoglioso con cui si vorrebbe “diventare come dèi” solo con l’ascesi e i nostri sforzi umani. La santità non può essere ridotta alla “perfezione morale”. A differenza di altre religioni o correnti spirituali di origine orientale, nel cristianesimo la santità non si ottiene “a forza di sacrifici”! Solo lo Spirito Santo può compiere in noi questa “opera” di santificazione e di “divinizzazione”, e prima di tutto sta a noi lasciarci “prendere” e guidare da lui. È una dimensione importante della vita cristiana, a lungo trascurata nella Chiesa latina, ma che le Chiese orientali hanno sempre valorizzato e sviluppato. Per questo è importante prendere seriamente l’affermazione di Cristo, secondo la quale la potenza di Dio si dispiega nella nostra debolezza: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza (...). Quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Cor, 12, 9-10). Prendere coscienza delle nostre debolezze è il modo migliore per non soccombere alla tentazione dell’orgoglio spirituale e «perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2 Cor 4, 7). Non invertiamo i ruoli e non dimentichiamo mai che Cristo è la vite, e noi i tralci, come ha detto Gesù ai suoi discepoli: «Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5).

Gesù ha scelto la strada dell’abbassamento, che lo ha portato ad assumere la nostra condizione umana - lui che era uguale al Padre per la sua natura divina - e ad umiliarsi fino a morire sulla Croce, per essere glorificato mediante la sua resurrezione e riconosciuto per quel che era veramente, il Figlio di Dio (cf. Fil 2, 5-10). Quando Gesù nasce nella stalla di Betlemme, il suo cuore è già tutto pieno di compassione per l’umanità intera che viene a salvare. Quel bimbo rivestito della gloria di Dio è già rivolto verso la Croce. Il Mistero dell’Incarnazione è intimamente legato a quello della Redenzione.

Il cammino di santificazione che siamo chiamati a seguire, presuppone che anche noi passiamo per una “porta stretta”, che accettiamo nella fede il mistero della Croce. Le contraddizioni, le umiliazioni, le prove, le persecuzioni sono certamente difficili da sopportare e superare, ma Dio le utilizza per purificarci interiormente, per fortificare la nostra fede e il nostro attaccamento a Cristo. La Croce è “scandalo” e “stoltezza” agli occhi degli uomini (cf. 1 Cor 1, 18; 24-25), ma è anche lo strumento della nostra redenzione, è ciò che ci fa “rialzare”.

Alla Messa di inaugurazione, 25 anni fa, Giovanni Paolo II ha messo il Centro San Lorenzo “sotto il segno della Croce” di Cristo, evocando il bel crocifisso di San Damiano – che è ancora nel coro di questa chiesa – davanti al quale Francesco si convertì e ricevette la sua vocazione. Per lui non si trattò solo di ricostruire la piccola chiesa di Assisi che era in rovine, ma di ricostruire la Chiesa di Cristo, sfigurata dalle divisioni e i peccati degli uomini.

Un anno dopo, il 22 aprile 1984, Giovanni Paolo II confermò la vocazione del Centro San Lorenzo, affidandogli la Croce dell’Anno Santo con la missione di portarla nel mondo «come segno dell’amore del Signore Gesù per l’umanità». Egli rivolse ai giovani queste parole: «Annunciate a tutti che solo in Cristo, morto e Risorto, c’è salvezza e redenzione». Divenuta il simbolo delle Giornate Mondiali della Gioventù, questa croce ha trovato in questa chiesa lo scrigno in cui da allora ha potuto essere venerata. Qui, come nei suoi incessanti pellegrinaggio nel mondo, la Croce delle GMG attira folle di giovani entusiasti e pieni di fervore, toccati dalla Misericordia di Dio. Sì, la Croce è nel cuore della vita cristiana. Segno di contraddizione, strumento di sofferenza e di morte, essa è anche segno di speranza!

Ieri, durante la celebrazione penitenziale alla Basilica di San Pietro, Papa Benedetto ha ricordato il Centro Internazionale Giovanile San Lorenzo, citando le parole di Giovanni Paolo II durante la messa per l’inaugurazione del Centro il 13 marzo 1983: «Dove andare in questo mondo, col peccato e la colpa, senza la Croce? La Croce prende su di sé tutta la miseria del mondo, che nasce dal peccato. Essa si rivela come segno di grazia. Raccoglie la nostra solidarietà e ci incoraggia al sacrificio per gli altri» (Omelia per l’inaugurazione del Centro Internazionale Giovanile “San Lorenzo”, 13 marzo 1983) . E Benedetto XVI concludeva la sua omelia ieri sera con questa esortazione: «Cari giovani, questa esperienza si rinnovi oggi per voi: guardate alla Croce, accogliete l’amore di Dio che vi viene donato dallo Spirito Santo e, come disse il Papa Giovanni Paolo II, “Divenite, voi stessi, redentori dei giovani del mondo” (ibidem) » (Omelia per la celebrazione della Penitenza con i giovani della Diocesi di Roma in preparazione alla XXIII Giornata Mondiale della Gioventù, 13 marzo 2008).