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"Ero forestiero e mi avete accolto" 

La solidarietà della Chiesa 

La Chiesa, "esperta in umanità" (PP, 13), trova un motivo in più per essere solidale con i migranti nel fatto che essi, "con la loro varietà di lingue, razze, culture e costumi le ricordano la sua condizione di popolo pellegrinante da ogni parte della terra verso la Patria definitiva" (Giovanni Paolo II, 2.2.1999).

La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo riconosce ad "ogni persona il diritto di lasciare qualsiasi paese, compreso il proprio e di farvi ritorno" (art. 13,2) senza però nulla dire circa il diritto di entrare in un altro paese diverso dal proprio. La Chiesa difende il diritto dell'uomo ad emigrare (CCC, 2241), ma non ne incoraggia l'esercizio. Sa, infatti, che la migrazione ha un costo molto elevato e che a pagarne il conto sono sempre i migranti. D'altra parte, riconosce anche che la migrazione costituisce, a volte, il male minore. 

In tale caso, si adopera con forza perché la società di arrivo non consideri i migranti mezzi di produzione, ma uomini dotati della dignità di figli di Dio e soggetti di diritti inalienabili. Questa è la premessa dalla quale nasce quel clima di accettazione e di comprensione che porta a riconoscere nella migrazione un fattore di sviluppo economico, sociale e culturale. 

La minaccia di bloccare le migrazioni 

In questo scenario si sono mosse le migrazioni fino ai tempi recenti. Oggi la migrazione è, di fatto, espressione della violazione di un diritto primario dell'uomo: quello di vivere nella propria patria. All'origine di tale violazione vi sono le guerre, i conflitti interni, il sistema di governo, l'iniqua distribuzione delle risorse economiche, la politica agricola incoerente, l'industrializzazione irrazionale, la corruzione dilagante. Sono situazioni che vanno corrette con la promozione di uno sviluppo economico equilibrato, con il progressivo superamento delle disuguaglianze sociali, con il rispetto scrupoloso della persona umana e con il buon funzionamento delle strutture democratiche. 

È necessario porre in atto tempestivi interventi correttivi dell'attuale sistema economico e finanziario, dominato e manipolato dai Paesi industrializzati; gli stessi che oggi minacciano di vanificare anche il diritto di emigrare, considerato da sempre un'alternativa all'impossibilità di vivere nella propria patria.

La globalizzazione tende ad abolire l'emigrazione dai paesi poveri verso quelli industrializzati. Infatti, lo spostamento delle aziende nei paesi in via di sviluppo, dove la manodopera e le materie prime sono a basso prezzo, se da una parte permette di produrre a costi vantaggiosi, senza sopportare il peso economico e sociale della presenza dei migranti nel proprio territorio, dall'altra consente di vendere la merce ai prezzi correnti del mercato internazionale. 

Rinnegando l'esperienza per la quale la migrazione è un fattore di sviluppo, il nuovo sistema ritiene la migrazione né necessaria né utile allo sviluppo. La valvola di sicurezza, che le migrazioni hanno sempre rappresentato per le singole persone e per i popoli, tende a bloccarsi. Così i paesi poveri si vedono chiuso quell'unico canale costituito dall'emigrazione che permetteva loro di entrare nel circuito di sviluppo dei paesi industrializzati. Gli unici immigranti ammessi sono i tecnici e i professionisti.

Lo sviluppo di tutti gli uomini

La conseguenza più vistosa di tale logica è l'aumento del tasso dell'illegalità migratoria, che rende inquieta la società dei paesi di arrivo, compromettendo il contesto per l'integrazione. È un'involuzione pericolosa dinanzi alla quale non pare fuori luogo chiamare in causa la politica dell'esclusione degli immigrati, praticata proprio mentre le condizioni di vita nei paesi in via di sviluppo si fanno più drammatiche. Chiudere le porte all'immigrazione senza impegnarsi per la rimozione delle cause è una doppia ingiustizia. Inoltre, non è eticamente accettabile respingere sia il lavoratore migrante sia, con tariffe esorbitanti, il prodotto in cui egli investe il lavoro svolto nel suo paese di origine. 

La povertà, di cui la migrazione è figlia, richiede una soluzione urgente. Il progresso è tale solo se si trasforma in sviluppo di tutti gli uomini. Ciò comporta la condivisione dei beni e uno stile di vita più sobrio da parte dei paesi ricchi.

La migrazione migliora i popoli, come dimostra la storia. Dalla mobilità dei popoli deriva una nuova e più vasta spinta all'unificazione di tutte le genti. Nell'antica Babele la superbia ha frantumato l'unità della famiglia umana, ma lo Spirito della pentecoste è all'opera per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi (Gv 11,52). "I cieli nuovi e la terra nuova" (Ap 21,1) sono, prima di tutto, il cuore degli uomini riuniti nel nome del Padre che è nei cieli.

 

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