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  Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

V° Congresso Mondiale della Pastorale per gli Zingari

Budapest, Ungheria, 30 giugno - 7 luglio 2003

 

Le “politiche” di sostegno alla 

promozione umana e sociale degli Zingari:

Un punto di vista dall’Italia

 

Dott.ssa Pinuccia Scaramuzzetti

 Italia

 

Considerazioni generali 

Introduzione

“In ogni continente ci sono persone come o simili agli Zingari. In ogni continente i non zingari hanno delle idee sugli zingari e sull’incontrarsi con loro” (Okeley citata in Sigona 2002:48). Questo lavoro intende riflettere su fatto che oggettivamente questo atteggiamento esiste e sulle modalità secondo le quali l’incontro si sviluppa.

“Un mondo di mondi” è chiamato il mondo zingaro[1]nel titolo di un libro (Piasere 1999) e noi potremmo chiamare ”un mondo di contraddizioni” il mondo delle politiche sociali a favore dei rom perché la ricerca della risoluzione di ogni problema porta con sé altre difficoltà che richiedono a loro volta di essere risolte.

Nessuna iniziativa naturalmente è nata per nuocere, la loro finalità è stata sempre positiva, il loro apparire sulla scena politica e sociale è segno di progresso nella società civile dopo o accanto ad atteggiamenti persecutori e repressivi[2]. Eppure oserei dire nessuna delle iniziative da me conosciute ha raggiunto lo scopo che si era proposta o per scarsa conoscenza dell’obiettivo o degli utenti, o per la brevità del progetto: questo si verifica in molti casi ed è un elemento determinante in ambienti dove davvero la discontinuità è frequente, ma bisogna concedere tempi lunghi per ogni cosa. C’è sicuramente anche una variabile sconosciuta. Ci sono sempre degli aspetti criticabili, lungo il percorso si incontrano degli imprevisti, situazioni ostili che non si riescono a superare, bisogna essere disponibili a rettificare continuamente la direzione per non perdere di vista lo scopo… E ci sono aspetti inevitabili nella nostra società che rendono in alcuni casi la cura peggiore della malattia: la poca disponibilità dell’istituzione alla flessibilità, la rotazione di operatori, la variabilità politica, la precarietà dei contributi economici. Tutti questi sono elementi che, uniti all’instabilità dell’utenza rom, si scontrano con la lentezza della burocrazia. Quasi mai si arriva ad una verifica conclusiva con gli stessi utenti e gli stesso operatori. Alcuni progetti a breve termine, che hanno creato nel rom dipendenza o delega[3], hanno indebolito l’egemonia dell’interno (Piasere, atti 1990:32) o comunque limitato la capacità di autodeterminazione e lasciato cicatrici indelebili. Ogni tempo breve occupato dall’iniziativa dell’istituzione si alterna poi a lunghi periodi di silenzio (Sigona 2002:107).

Per questi motivi, mi sembra più importante considerarne le premesse, le modalità con cui si sviluppano, gli elementi di successo o insuccesso e il loro ripetersi, vicinanza-lontananza che esse creano fra gage e rom o fra rom e rom e considerare poi qualche situazione emblematica, piuttosto che fare una panoramica delle politiche in atto. Riflettendo sulla mia esperienza e sui miei incontri personali, partirei da questa considerazione: le politiche sociali muovono da presupposti che riguardano

  • il personale tipo di approccio dell’osservatore
  • la concezione e conoscenza che si ha dell’individuo al quale si riferiscono
  • lo scopo che si vuole raggiungere
  • il punto di vista e le attese dell’individuo cui l’iniziativa viene rivolta
  • l’ambiente sociale più vasto in cui l’azione si svolge.

L’approccio

Il tipo di approccio dipende dagli ambiti professionali e dai periodi storici. Il denominatore comune, ad eccezione delle associazioni zingare di cui parleremo quando se ne presenterà l’occasione, è di appartenere al mondo gagio ed essere comunque “esterni”, anche se in misura diversa. “Osservando un sistema di relazioni nelle quali siamo coinvolti, riflettiamo per forza di cose sul nostro coinvolgimento. Non esiste uno sguardo innocente, se non altro per il significato che le parole hanno assunto nel corso dei secoli.” (Brunello 1996:12)

In Italia, i primi ad accostarsi al mondo dei rom e dei sinti sono stati sicuramente persone di chiesa e insegnanti cui faranno seguito operatori sociali, linguisti, antropologi, psicologi, sociologi, politici; ciascuno vuol raggiungere degli obiettivi considerati irrinunciabili nell’ambito della propria specializzazione, irrinunciabili per gli zingari, ma soprattutto per sé, per la propria ideologia, per la realizzazione di progetti, per il completamento di ricerche, per l’elaborazione di un’azione politica. Ciascuno ha avuto motivi personali diversi che hanno fatto emergere lo zingaro dallo sfondo dove era relegato, nella sfera che Goffman definisce della disattenzione (Sigona 2002:47).

Il mio tipo di approccio –e intanto mi presento- è un po’ ibrido in quanto sono mossa da un interesse ecclesiale, ma porto con me la mia preparazione pedagogica, il mio passato di insegnante e una passione antropologica, più intuitiva che scientifica in verità. La competenza che da alcuni mi viene attribuita nasce soprattutto dall’aver vissuto quasi trent’anni in un piccolo gruppo di roma sloveni insieme ad altre tre persone (un sacerdote e due donne laiche), aver fatto un cammino di confronto con le altre piccole comunità che in Italia fanno un’esperienza simile alla nostra[4]e quindi hanno condiviso con noi la profonda conoscenza di altri gruppi, aver conosciuto altri che in Italia lavorano nel sociale, aver sempre avuto la possibilità di confrontarmi con tanti amici[5]. Resta il fatto che la mia è una conoscenza esclusivamente italiana, anche se le informazioni che mi giungono dagli altri paesi d’Europa[6]mostrano parecchie affinità, e il mio approccio è di tipo essenzialmente esperienziale.

L’immagine dello zingaro 

L’immagine dello zingaro fino ai primi anni ’70 (ma la chiesa parlava già di inculturazione) era quella di un povero bisognoso di aiuto o di un deviante. Ci si comportava con lui come con un bambino insufficiente mentale: i bambini andavano alla scuola speciale, venivano lavati, cambiati d’abito a scuola; gli adulti venivano più o meno adeguatamente beneficati. La parola “zingaro” ricopriva uno stereotipo generico e questo giustifica anche le iniziative di quelle amministrazioni che radunavano in un unico accampamento gli zingari presenti in città. Gli zingari erano persone che non volevano vivere “normale”[7] per colpa degli altri o per scelta propria e c’erano altre persone gagi[8]di buona volontà - perché questo non era considerato ancora “dovere” delle istituzioni e “diritto del cittadino zingaro”- che cercavano di migliorare la loro condizione di vita avvicinandole alla normalità, dove normalità voleva dire casa, scolarizzazione, lavoro dipendente, gonne corte. Soltanto in un momento successivo i cultori delle minoranze, del rispetto delle culture altre, cominciarono a includere anche i gruppi zingari in queste categorie e a considerare le differenze dei diversi gruppi fra loro. 

Gli antropologi e poi gli etnografi cominciarono ad interessarsi dei diversi aspetti della loro cultura leggendoli secondo i parametri usati per studiare gli altri gruppi minoritari e osservando con un certo fascino i momenti significativi della loro vita.

* Per l’antropologo il rom[9]è una persona interessante.

 I sociologi si occuparono di cercare i motivi e i colpevoli della loro emarginazione sociale, trovando man mano delle ragioni – come la fine dei mestieri tradizionali - rivelatesi poi poco significative. 

*Per il sociologo il rom è una persona emarginata che deve ritrovare il proprio posto nella società.

Gli insegnanti -che si cimentano nell’impresa di insegnare un programma prestabilito con un’organizzazione fatta di materiale didattico e compiti a casa- si impegnarono, o meglio furono invitati dalle circolari ministeriali (1996), dai dirigenti scolastici, da pedagogisti interessati all’intercultura a trovare i motivi per cui non si raggiunge una scolarizzazione sufficiente e a sperimentare nuovi metodi didattici. Gli alunni rom o sinti sono considerati spesso un problema e fatti oggetto di pietà, di disprezzo o di indifferenza.

*L’insegnante non si sente colpevole se questo alunno non ha imparato: non è una persona sul cui successo si può investire.

Le persone impegnate in politica cercano spazi legislativi che consentano a rom e sinti di vedere tutelati i loro diritti nel rispetto della loro cultura, particolarmente riguardo al loro modo di abitare. Soprattutto sul problema abitativo si concentrano le leggi regionali e le circolari del ministero degli interni anche se contengono considerazioni sul problema scolastico e formativo. Non c’è però un professionista della politica e quindi gli approcci sono diversi e dipendono dalla formazione personale oltre che dal partito:  

*alcuni politici vedono il rom come un individuo (e un gruppo) pericoloso che mina la sicurezza dell’ordine sociale e va allontanato[10]

*altri come una persona che va supportata perché possa raggiungere uno stile di vita sufficientemente dignitoso nella legalità e in armonia con la società ospitante, dove il bene della società ospitante non è un elemento secondario. 

Per tutti, ma soprattutto per chi agisce sul piano operativo, 

*il rom è una persona senza storia, viene dal nulla.

 Un giorno “è nato” nella loro attenzione ed essi si considerano i primi e gli unici, senza legare il proprio intervento a quello precedente, senza pensare che la persona che si ha davanti, ha vissuto in qualche posto dove ha già intessuto delle relazioni… Solo la scuola chiede i documenti e a volte si mette in contatto con gli altri insegnanti. Gli altri operatori non mi risulta cerchino dei riferimenti per sapere se questi individui erano gia stati inseriti in qualche contesto sociale, quali sono state le difficoltà o i successi dei percorsi precedenti. Non dico di superare distanze di centinaia di chilometri, ma informazioni fra comuni limitrofi, da quartiere a quartiere mi sembrerebbero ovvie.

A me sembra che in ciascuno degli ambiti considerati vengano messe in evidenza degli aspetti parziali della persona che non sempre si escludono, alcuni anzi sicuramente convivono nei rom che incontriamo, magari con qualche caratteristica più o meno marcata.

Lo scopo

Conoscersi per imparare ad accettarsi, è uno slogan abbastanza diffuso, ma anche discutibile e l’antropologo di solito non dà questo risvolto morale. Il suo scopo è conoscere, soprattutto possedere uno schema conoscitivo che permetta di incasellare le informazioni e collegarle fra loro, divulgare le informazioni e metterle a disposizione. Quindi partecipa a gruppi di lavoro dove vengono considerate situazioni concrete e si riflette su progetti già realizzati[11].

Il sociologo vuole abbattere le barriere rimovendo gli ostacoli che impediscono al rom una vita dignitosa ed elaborare un programma di integrazione sociale perciò supporta le iniziative e i progetti volti a questo scopo. Si servono del suo lavoro le istituzioni, in particolare i comuni, ma anche le associazioni ONG, le cooperative no-profit che in Italia svolgono attività di questo genere: gestione di campi sosta, supporto scolastico agli alunni della scuola dell’obbligo, formazione-lavoro e altro.

Anche se la scuola per ragioni varie è stato uno degli interlocutori principali per gli zingari in questi ultimi decenni, si può affermare che nella scuola questo gruppo culturale è ben poco conosciuto sia dal punto di vista antropologico sia da quello sociologico[12]. Anche qui domina l’immaginario collettivo sugli zingari e si può dire che l’interesse per l’alunno zingaro ha, nella migliore delle ipotesi, lo scopo di fargli raggiungere la certificazione del compimento della scuola dell’obbligo perché possa trovarsi un lavoro e inserirsi nella società, diventare come gli altri. C’è poca attenzione per l’acquisizione piena delle abilità strumentali per riflettere sulla propria cultura e interagire con quella della società dominante. Ci saranno così dei giovani quasi analfabeti col diploma di scuola media inferiore: quale meta potranno raggiungere?

Lo scopo del politico è promuovere progetti che accontentino il maggior numero di persone possibile. Secondo le diverse ideologie, questo si può raggiungere attraverso l’esclusione: allontanando gli zingari dalla città attraverso le espulsioni o gli sgomberi dei campi nomadi; l’assimilazione: promovendo iniziative che ne cancellino la diversità e li facciano diventare come gli altri; o l’integrazione nel rispetto delle differenze. Spesso solo l’esclusione arriva ad essere portata a termine, l’assimilazione incontra la resistenza degli interessati e i progetti di integrazione si scontrano con la resistenza della maggioranza della società ospitante, che è d’accordo sul valore dell’integrazione, ma preferisce non essere coinvolta in questo processo. 

Il punto di vista del destinatario

Tutte queste iniziative, spesso mediate da associazioni o cooperative no-profit, si rivolgono ad un campionario di individui zingari, in Italia sono rom (di diversa appartenenza) o sinti (pure diversificati al loro interno) che si dividono grossolanamente in due gruppi di persone: chi subisce i progetti in modo passivo cercando di ottenerne il massimo vantaggio e chi vi vuole partecipare direttamente, sia per avere una funzione di leader nel gruppo, sia per godere di una posizione di privilegio nella società ospitante ottenendo anche benefici materiali. Entrambe i gruppi guardano con diffidenza all’uso del denaro destinato “a loro” (cioè stanziato per progetti vari), non riescono a quantificarlo, a capire perché qualcuno che è sempre stato loro ostile debba sborsare del denaro per loro, quanto ne serve per i progetti in atto e se ci sarà invece qualcuno che ne trarrà personalmente profitto. Quando a manovrare il denaro sono dei gage, questa diffidenza è semplicemente una frazione della diffidenza che avvolge tutto il mondo gagio, ma quando sono dei sinti, si acuisce il problema[13]perché ci si colloca in una situazione di dipendenza gli uni dagli altri che non è secondo la tradizione. 

Alla diffidenza rispetto all’uso del denaro si aggiunge la parcellizzazione delle richieste, ognuno ha una sua attesa, presenta le questioni secondo la propria angolazione, che non dipende solo dal punto di vista teorico, ma dalle relazioni di amicizia, di parentela, dagli accordi ed i disaccordi, per cui un’iniziativa in atto non si può fare più per un litigio ecc. I progetti di autodeterminazione spesso falliscono perché c’è qualcuno che non ci sta, che non fa la sua parte, che non vuol essere vincolato neppure dalle decisioni comuni, ma anche perché quello che si decide oggi verrà realizzato chissà quando e allora le alleanze fra famiglie, la disponibilità di quello che era il leader del momento saranno cambiate.  

I giovani leaders, quelli che hanno studiato e portano avanti le rivendicazioni culturali, il diritto a non essere discriminati ecc. sono per le relazioni con i gage e hanno in realtà vita separata anche se a volte fanno parte di associazioni che si propongono degli obiettivi sociali.

L’influenza dell’ambiente sociale

L’incidenza della situazione socio-economico-politica della società ospitante sulla vita del rom e quindi anche sulla sua possibilità di crescere nella sua cultura è grande. Vivere in un “paese di sinti”[14], in un paese “buono per il manghel” oppure in un paese povero, da cui anche gli altri abitanti emigrano per sfuggire alla miseria fa differenza. Fa differenza perché vuol dire che ci sarà o no afflusso di rom stranieri con cui dividere le risorse, che verranno o no messe in atto delle politiche sociali. Fa differenza anche essere il 10% della popolazione locale o un numero così minimo che non si viene neppure considerati fra le minoranze.

Dal questionario citato risulta ad esempio che tutti paesi della cosiddetta Europa occidentale sono interessati dalla migrazione dei rom rumeni: pur essendo meno “conosciuti” nel senso prima considerato, interpellano in modo urgente la comunità sedentaria dei paesi membri per la situazione di bisogno e spesso la risposta non tiene conto delle relazioni gage-rom già esistenti[15]. Si reagisce come di fronte ad un terremoto (penso alle modalità italiane che conosco). Il fatto di essere nell’emergenza permette soluzioni precarie e ghettizzanti che nascono come provvisorie, ma, come per i terremoti, non si sa quando finiscono.

Il crollo dell’economia nei paesi dell’est ha visto la recrudescenza di violenze razziste. I rom sono stati fra i primi disoccupati e con loro gli abitanti dei quartieri periferici delle città dove essi abitavano: questo ha creato un atteggiamento di rifiuto e di intolleranza.[16]Il fatto che un numero così alto di bambini rumeni venga abbandonato negli orfanotrofi (il 45% dei ricoverati) significa che la povertà dell’ambiente induce a sacrificare gli elementi più deboli (Piasere, atti) contraddicendo i luoghi comuni sull’attaccamento dei rom ai loro bambini.

Le guerre nella ex Jugoslavia, di Bosnia prima, nel Kosovo poi, hanno incluso i rom provenienti da quei paesi nella fascia dei profughi e dei rifugiati ed hanno alimentato in Italia quei grandi accampamenti di rom bosniaci, macedoni, kosovari a Torino, Brescia, Mestre, Firenze, Pisa, Napoli. che è venuto tristemente alla cronaca perché incendiato dagli abitanti del quartiere di Scampia[17]

Anche la legislazione locale determina le scelte dei rom stranieri: in primis le norme sull’immigrazione, quelle che regolano lo status di profugo o rifugiato. Molte delle azioni sociali rivolte a questi rom stranieri riguardano proprio la tutela legale per l’acquisizione di un qualche permesso di soggiorno.

Allo stesso modo, certe scelte di politica interna introducono variazioni non indifferenti fra gli zingari dei diversi paesi. Non dobbiamo dimenticare che già l’aver permesso o vietato il nomadismo era stato, prima di tutto ciò, un elemento che aveva indirizzato la cultura zingara in un senso o nell’altro. E’ per questo motivo che abbiamo storie di sedentarizzione in Spagna e nell’Italia meridionale e poi negli stessi paesi ex comunisti. Questo ha influito oltre che sull’abitare, sulla scelta dei lavori, sulla scolarizzazione, sull’uso della lingua, sulla scelta degli abiti.

Anche le norme sul lavoro, certi obblighi relativi allo smaltimento delle sostanze inquinanti (per i raccoglitori di ferro vecchio), all’iscrizione alla camera di commercio (per l’acquisto e la vendita di oggetti vari), alle tasse per l’occupazione di suolo pubblico (spettacolo viaggiante e venditori ambulanti), allo scontrino fiscale (giostre), colpiscono i cittadini rom o sinti, o sinti giostrai esattamente come gli altri cittadini.

Le pari opportunità

La rimozione degli ostacoli 

In Italia, le iniziative di carattere legislativo che riguardano Rom e Sinti in atto dai primi anni 70 in poi, avrebbero dovuto avere lo scopo di permettere di attuare quanto sancito dalla Costituzione Italiana all’art. 3 “eliminare gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Ostacoli di ordine economico e sociale sono per esempio quelli che rendono difficile il raggiungimento di una “significativa” scolarizzazione, la possibilità di accedere a soluzioni abitative e ad attività lavorative adatte alla propria cultura (non ultimo lo spettacolo viaggiante, sempre più osteggiato), di mantenere la propria lingua e le proprie usanze come differenza positiva e senza vergogna.

Una prima circolare del Ministero degli interni del ’73 invitava i sindaci a rimuovere gli ostacoli alla sosta dei nomadi, ripresa dal provvedimento dell’85 dove si precisano come priorità: l’iscrizione anagrafica, la scolarizzazione, la rimozione dei divieti di sosta; critica l’uso delle ordinanze di sgombero “che si limitano a spostare insieme ai nomadi i problemi dell’igiene e della salute pubblica” anziché risolverli.

Dopo vent’anni, questi ostacoli rimangono ancora da superare.

Alcuni Comuni hanno creato quegli Uffici stranieri e nomadi, che trattano i problemi di tutti gli zingari, anche dei Sinti che pure sono sempre stati cittadini italiani e questo a testimoniare quanto lo zingaro sia considerato straniero.

Le leggi regionali

A partire dal 1984 alcune regioni italiane hanno promulgato leggi che sono rivolte alla tutela dell’etnia e della cultura rom. Sono nate da due pressioni[18]che benché opposte in questo caso si attraggono: quella dello zingaro e quella del non-zingaro in conseguenza del fatto che nelle città italiane erano stati progressivamente chiusi tutti gli spazi piccoli e autoregolamentati. I rom e i sinti non sapevano più dove fermarsi perciò chiedevano il campo sosta e in cambio erano disposti ad accettare certe regole: mandare i figli a scuola e impegnarsi a cercare un lavoro. I gage ritenevano giusto far uscire i rom dalla loro situazione precaria e quindi concedevano campi sosta alle proprie condizioni.

La prima legge è quella del Veneto. "La regione Veneto intende tutelare con forme apposite di intervento la cultura dei rom, ivi compreso il diritto al nomadismo e alla sosta all'interno del territorio regionale". Questa frase è ripresa più o meno simile anche nelle altre leggi. Siccome le norme di pubblica sicurezza vietano la sosta libera, il diritto al nomadismo si rivela ben presto diritto alla sosta in campi autorizzati. Anche il diritto alla sosta è fantomatico: là dove le amministrazioni non provvedono ad allestire delle aree, può sempre capitare di trovare un funzionario che dice: “Sono nomadi? Girino!” E’ significativo che i fondi stanziati ogni anno, anche se poco consistenti restano inutilizzati in Regione. Certi comuni preferiscono agire in proprio per non essere vincolati dalle indicazioni regionali

Allo stesso modo la tutela della cultura si rivela ben presto una irrealizzabile utopia. Se tutelare una cultura significa infatti riconoscerle il diritto di esistere e di evolversi secondo esigenze sue interne, appare strano che, quando non si fa sorda a qualunque tipo di intervento, l'istituzione si preoccupi invece così intensamente di adeguare lo stile di vita dei rom e dei sinti a quello della società ospitante. L’attenzione primaria è quella per il campo sosta per stanziali, considerando ovvia questa priorità, e dalla legge si passa al regolamento del campo sosta, che vorrebbe prevenire ogni possibile guaio: vorrebbe in molti casi regolamentare la loro vita e la loro sosta con una serie di norme e divieti che determinano i criteri d'entrata, le modalità della vita quotidiana, le punizioni.[19] In realtà queste leggi e regolamenti, in genere ribadiscono, mettendo in atto una vera e propria discriminazione, norme di ordine pubblico cui rom e sinti sono già sottoposti come tutti gli altri cittadini e indicano una serie di misure che mirano piuttosto a difendere la popolazione sedentaria da persone ritenute pericolose. Talvolta si sarebbero anche voluti distinguere gli “zingari buoni” da quelli “cattivi” prevedendo per esempio un tesserino etnico per distinguere chi poteva entrare oppure no in un accampamento.[20]Una specie di stella di Davide per distinguere chi poteva entrare nel ghetto. 

Le leggi migliori sono le meno “definite”, quelle con meno barriere, le più flessibili alle situazioni più varie. L’arrivo in Italia, nell’ultimo decennio, di rom stranieri provenienti da lunghi periodi di stanzialità e la tendenza a ignorare le differenze fra le comunità zingare, rende molte di queste leggi già inadeguate. Quella del Friuli Venezia introduce un’osservazione interessante: si propone di salvaguardare “i valori culturali specifici, l’identità storica e i processi di cambiamento in atto dei Rom” conservandosi così la possibilità di evolversi adeguandosi alle situazioni nuove.

Girare e fermarsi[21] 

"Una volta si camminava di paese in paese con i cavalli e il carretto. Alla sera tante volte ci si fermava in qualche cascina ad alloggiare. I contadini ci lasciavano andare nella stalla o sotto il portico e ci davano un po' di paglia per dormire, la minestra e il latte per i bambini... 

Questa frase di Bibì Alda, sinta piemontese, è stata detta tante volte da Sinti veneti e lombardi, da romora sloveni, da rom abruzzesi e calabresi...

Accanto al normale rimpianto per i tempi felici di una volta, comune a tutti i popoli, c'era il rimpianto per il nomadismo: le nostre strade, tutti i paesini che conoscevo... ma anche per l'autodeterminazione: poter andare, fermarsi, raggrupparsi fra alcune famiglie, lasciarsi con altre con cui i rapporti non sono più così buoni... Poter decidere dove, come e con chi vivere la propria vita.

In Italia anche i Sinti alternavano periodo di sosta a periodi di viaggio, in modo diverso da quanto è possibile fare oggi. Alcuni passanti si fermavano a scambiare due parole, a volte portavano qualcosa.

Poi le città e i paesi hanno cominciato a cambiare. Ogni metro di terreno ha la sua funzione, non esistono più spazi liberi. Scompaiono le fontane, i gabinetti pubblici... Bisogna contrattare con l'istituzione l'autorizzazione alla sosta.  

I vecchi Sinti, anche quelli che sono rimasti al di fuori della politica delle grandi città e delle esperienze traumatizzanti di certi romà xoraxané, pensano che "con gli accampamenti non c'è più nessuna novità, manca il gusto del viaggio, della sorpresa" e Oliviero, Sinto lombardo, diceva:  Â“ più uno sta fermo, più non c'è ricambio, anche se sono pochi quelli che amano la sosta prolungata. I campi sosta diventano delle bidonvilles, dove la gente si trascura, invece è meglio viaggiare, con il poco necessario, ma viaggiare." 

Girare fermarsi, fermarsi nei campi riguarda in realtà una percentuale minima dei rom e dei sinti che si trovano in Italia. Calabria, Campania, Puglia, Basilicata, Molise, Abruzzo ospitano rom che abitano in casa da molto tempo. Anche nelle altre regioni esistono gruppi di sinti o rom che abitano in case di proprietà o comunali. Si parla più spesso di “campi” perché queste sono le situazioni più problematiche.

Il “campo nomadi” (vedi allegati)

Gli accampamenti più grandi, come quello di Torino metà anni 80, hanno portato alla luce le più grandi contraddizioni: "Io ho la diffida perché ho ospitato mio figlio che non ha il permesso” "Tutti i giorni arrivano diffide e fogli di via: uno perché non si iscrive al collocamento, l'altro perché non ha fatto le vaccinazioni, l'altro perché non va a lavorare...Oggi ho ricevuto la diffida perché uno dei miei bambini è stato tanti giorni a casa da scuola e non è promosso.”[22] 

“Il campo non è solo uno strumento di controllo, ma è anche il mezzo attraverso il quale si crea un target group, un’utenza speciale…” (Sigona 2002:13), un’utenza come minimo di servizi sociali e scolastici. 

“Collocate ai margini della città, le aree sosta attrezzate sono strutture artificiali realizzate secondo un piano regolatore comunale che ne predispone la localizzazione, l’ampiezza e, in alcuni casi, il piano regolatore ordina anche una precisa disposizione spaziale delle singole abitazioni che vi si trovano all’interno, l’una rispetto all’altra. I “campi nomadi” erano terreni adibiti allo scarico dei rifiuti o terreni occupati da orti abusivi, sono terreni per lo più comunali e diventano luoghi dove ti trovi a vivere con qualcuno con il quale probabilmente non avresti mai vissuto. Le aree sosta abusive erano luoghi anonimi che diventavano famigliari proprio perché eri tu a decidere di abitarci e, nel corso degli anni, diventano terreni periodicamente occupati da chi nelle aree sosta ufficiali non può o decide di non sostare, mantenendo relazioni di evitamento con i nuclei famigliari domiciliati nei campi con i quali è in litigio. Le aree sosta ufficiali sono terreni dove i non rom non abiterebbero probabilmente mai e luoghi di domicilio che i romá rendono famigliari attraverso un’organizzazione delle relazioni di vicinato che implica la suddivisione dell’area in cortili famigliari. All’interno del cortile, la cui composizione e dimensione è mobile, si ricreano specifiche relazioni famigliari e non”[23].

Nella maggior parte dei campi di rom, sia degli insediamenti abusivi, sia di quelli autorizzati in condizione di sovraffollamento[24]si è creata una situazione di invivibilità Il comportamento delle amministrazioni è fortemente orientato al controllo territoriale e, degrado+controllo hanno portato ad una crescente difficoltà a reperire i luoghi in cui insediarsi. 

Alcuni Comuni hanno utilizzato gli stanziamenti previsti dal decreto legge 390/92 a favore degli sfollati dalla ex Jugoslavia ed hanno allestito campi a metà fra i campi profughi e i campi nomadi[25]. Non essendoci alternative, i rom cercavano di trovarvi posto, anche perché questo facilitava, con l’aiuto delle associazioni, l’acquisizione dei documenti necessari[26]. Pur essendo una situazione ghettizzante permette di dare un’apparenza di vita normale ad uno stato di eccezionalità. Nessuno però prevede il modello campo come prospettiva ultima della sua vita, si dice: finché mi comprerò una casa, un terreno… finché non mi faccio i documenti, fino a quando non troverò un lavoro…

Prendere la distanza dal modello "campo" significa perseguire una pluralizzazione delle formule, significa proporle, le alternative. La pluralità delle formule serve a realizzare in modi diversi criteri di appropriatezza, a misura della diversità delle situazioni, delle esigenze e dei progetti di vita degli interessati. Significa rifiutare l'idea che una popolazione possa essere assegnata ad una particolare formula abitativa. Le soluzioni devono rispondere sia alla domanda di sedentarizzazione che alla domanda di nomadismo, alle diverse esigenze che vengono da gruppi diversi.

Vista la difficile gestione dei grandi campi, l'orientamento attuale è per piccoli campi, organizzati a livello familiare. L'indicazione è anche di evitare qualsiasi forma di emarginazione urbanistica; in realtà gli spazi che risultano liberi da altre destinazioni e idonei sono pochissimi e in località non appetibili (i titoli: I popoli delle discariche di Piasere e L'urbanistica del disprezzo di Brunello la dicono lunga su questo fatto), quindi la conclusione è: pochi campi e affollati, con più gruppi insieme. Siccome poi le ordinanze che vietano la sosta nel territorio comunale al di fuori degli spazi autorizzati o addirittura in attesa che vi siano spazi autorizzati sono diffusissime, alcuni gruppi che un tempo "passavano" da una città, ne restano definitivamente esclusi. Il risultato è l'esistenza di pochi campi strutturati a norma di legge e molti campi selvaggi e mal serviti che sono stati oggetti di denuncia in ”ERRC Il Paese dei campi. La segregazione razziale dei Rom in Italia” (ottobre 2000).

Fuori dai campi

Il modello del piccolo accampamento a base familiare, che è stato in questi anni assunto a modello per l'aspetto dimensionale -non del classico “campo nomadi” quindi- si è realizzato anche in modo positivo per il carattere familiare dell'insediamento, la costituzione di uno spazio domestico, la possibilità di autonomia, la flessibilità d'uso, la possibilità di mantenere relazioni con la famiglia allargata. E' osservabile anche nell'autoinserimento in terreni acquistati e quindi di proprietà. L'orizzonte delle politiche pubbliche potrebbe essere di sostegno alle iniziative private degli interessati, creando condizioni per l'insediamento, eliminando ostacoli, e così via.

La mia impressione è che: fuori dai campi -dice Brunello nel suo libro che la parola campo richiama condizioni precarie e provvisorietà- Rom e Sinti cercano di riappropriarsi della propria vita, dell'autonomia e dell'autodeterminazione di quando giravano coi carretti. 

Ho anche l'impressione che "fuori dai campi" Rom e Sinti cessino di essere una massa indistinta e paurosa per il resto della popolazione, riassumano una faccia, un nome, possano diventare il vicino gradito o sgradevole, ma in rapporto personale paritario.

Si compra una casa o si affitta o si compra un terreno. Ci si ferma come se fosse per sempre: ci si organizza, si cercano relazioni di buon vicinato con i non zingari. Ci si ferma magari degli anni. Poi succede qualcosa, qualsiasi cosa: dei problemi con i vicini, una morte, i figli vogliono tornare a girare, ci si lascia affascinare da altre proposte e in due e due quattro si lascia tutto. Gli alberi piantati e voluti uno per uno, lo steccato artisticamente studiato, l’amico fraterno non zingaro, vengono guardati con occhio estraneo, con distacco e i motivi per andare acquistano la stessa forza che prima avevano avuto quelli per restare.

Si girerà un po’, poi si troverà un altro posto, in un altro paese, ci si fermerà forse ancora degli anni e ancora una volta questo diventerà il proprio paese.

Intanto si ospiterà nel proprio terreno e nel cortile davanti alla propria casa la roulotte o il camper di un amico o di un parente e ci si farà a propria volta ospitare quando per qualche motivo si dovrà trascorrere qualche periodo altrove.

Case a piano terra con cortile stesso tipo di abitazione, ma modo diverso di abitare, ciascuno con il proprio modo di vivere ciascuno con la propria pulizia. Motivi: ricerca di spazi, economia agricola, costi contenuti, spazi lasciati vuoti, possibilità di abitare costituendo delle relazioni fra gruppi familiari. Nella relazione entra anche quella con i propri morti: nel momento che si decide di seppellirli nel cimitero locale il luogo diventa “marcato simbolicamente”(Piasere, 1999), significativo per la propria famiglia.

Scolarizzazione

Perché in tutti i paesi la scolarizzazione dei bambini che vivono nei “campi nomadi” non raggiunge dei risultati soddisfacenti?Perché i bambini rom vanno o non vanno a scuola? La famiglia considera la scuola un ambiente educativo? 

La politica di Tito invitò i romá a integrarsi il più possibile nel sistema sociale ed economico del paese. Tutti i bambini dovevano andare a scuola e molti ci andavano. Tra i primi immigrati a Torino, per quanto riguarda i ragazzi, molti sapevano già leggere e scrivere e sembrava avessero avuto occasione di frequentare anche la scuola secondaria. Perché in Italia non si ripete la stessa frequenza scolastica o meglio lo stesso apprendimento?

«Perché», si domandano gli insegnanti delle scuole elementari, «i Sinti, che sono puliti, parlano piemontese, vivono a Torino da secoli, sono cittadini italiani (domandando subito una rassicurante conferma di quanto hanno detto perché “non si sa mai”) e non sono nomadi (utilizzando il termine intendendo dire che: «non sono sporchi e non riconosceresti, tra le ‘altre’, le madri sinte che vengono ad accompagnare i figli a scuola») e mandano i bambini a scuola da molti più anni rispetto ai romá, perché hanno un profilo scolastico (tanto nei risultati, ma soprattutto nella frequenza) inferiore?». «Non dovrebbero avere ormai acquisito l’importanza culturale della scuola, anche per essere nomadi migliori un domani?»

Un po’ di storia

Il primo processo di scolarizzazione sistematica dei bambini rom o sinti è iniziato nel 1965 con una convenzione fra il ministero della Pubblica Istruzione, l’istituto di pedagogia dell’università di Padova e l’Opera Nomadi per l’istituzione delle classi speciali “Lacio drom”. Il direttore generale della scuola elementare dott. Accardo, dimostrando una sensibilità inusuale scrive: “Ci siamo messi d’accordo di parlare di scuole speciali non perché noi riteniamo che i bambini zingari siano sub-normali… ma perché è la formula che ci consente una maggior duttilità in ordine alla formazione delle classi, in ordine all’area delle età, che ci consente di avvivare dalla scuola materna fino ai sedici anni, che ci consente un orario e un calendario diversi”.[27]Se si vuol vedere come si fa ad allontanarsi delle buone intenzioni dei promotori di un’iniziativa, basta guardare i corsi e ricorsi storici che l’hanno seguita. Nel racconto di Sinti di città diverse (Reggio Emilia e Verona per esempio) appare che i bambini zingari erano tenuti accuratamente separati da quelli non zingari. In queste scuole: mense, docce, assistenze varie, usate solo per gli zingari, avevano lo stesso diritto di cittadinanza del leggere e dello scrivere.

Alla fine degli anni settanta, inizio ottanta, le scuole speciali furono abolite, gli alunni vennero inseriti nelle classi normali e furono in genere affiancati da insegnanti di sostegno. La circolare ministeriale del luglio ‘86, pur distinguendo la situazione degli alunni rom o sinti da quella dei portatori di handicap, avvallava questa consuetudine precisando che poteva essere necessaria per vari motivi, quali la discontinuità nella frequenza, la scarsa conoscenza della lingua italiana, ecc. 

Dieci anni dopo cessò l’uso da parte dei vari provveditorati agli studi di “distaccare” insegnanti per i “nomadi”. Erano piuttosto diffusi progetti di mediazione culturale o altre iniziative del pubblico o privato sociale per supportare i bambini rom o sinti nella vita scolastica.

Sono provvedimenti tuttavia che sembrano preoccuparsi di come arrivare ad un adeguamento di questi bambini all’istituzione scuola senza curarsi dei motivi per cui essi non vi entrano mai quali utenti protagonisti, ma sempre quali assistiti obbligati.

L’alunno zingaro

C’è una differenza fra l’inserimento nella scuola di un alunno che si presenta come sinto e un alunno che non si mostra con l’etichetta della diversità. Porto un esempio. A Verona dal 78 all’83 alcuni bambini appartenenti al gruppo dei Roma sloveni si inserì in una scuola normale mentre in una scuola vicina esisteva una classe Lacio Drom. I bambini della scuola normale ebbero un apprendimento normale, cioè secondo le loro capacità. Questi ex alunni sono ora genitori di altri bambini che frequentano la stessa scuola, che non è una scuola speciale, ma ora è comunque identificata per territorio come la scuola del “campo”. Questi alunni hanno una frequenza saltuaria e un apprendimento scarso, pur essendo figli di adulti scolarizzati. 

La stessa differenza nell’apprendimento dello stesso bambino considerato in certi casi solo alunno, in altri alunno zingaro è riportata in alcuni lavori di ricerca. Appare che non sono solo le insegnanti a collocarsi in modo diverso, ma è anche il bambino a voler dare una diversa immagine di sé e le famiglie ad accostarsi con diverse attese.

L’unica esperienza scolastica della maggior parte dei bambini Rom o Sinti che vivono nei campi è rappresentata da una frequenza piuttosto saltuaria della scuola elementare. L’approccio è faticosissimo e si riproduce inconsapevolmente all’interno della scuola la conflittualità che esiste fra zingaro e non zingaro nel mondo degli adulti.

L'educazione scolastica diventa, in molti casi, un tentativo di salvaguardare (di “salvare”) questi bambini, proponendo un modello educativo in competizione con quello famigliare. Ai bambini rom piace l’uso dei gage di essere affettuosi con i bambini perciò in genere sollecitano quel rapporto fisico non atteso nell'ambiente famigliare[28]. La frequenza scolastica di un bambino talvolta è subordinata alla sua capacità di gestire o meno il rapporto fisico “affettivo” di cui sopra con la persona dell'insegnante, in un ambiente estraneo.

L’ambiente scolastico

Carlotta Saletti descrive molto bene la contraddizione esistente fra ambiente scolastico e ambiente domestico. Quello che, in molti casi, dalla famiglia rom viene riconosciuto rendere educativo l’ambiente scolastico, non sempre corrisponde a ciò che la scuola riconosce come occasione educativa. Lo sfasamento ambientale sarebbe allora evidente solo per il genitore che, date certe condizioni, permette al bambino di partecipare a qualcosa di educativo in un ambiente che di per sé educativo non è: la presenza dei fratelli maggiori o di altri bambini rom; la presenza dei ‘vecchi maestri’ che “guardano” i bambini; la presenza del mediatore culturale che controlla direttamente l'incolumità fisica del proprio figlio. Ultimo, ma non di certo meno importante, il ruolo di responsabilità del bambino assegnatogli dagli adulti e, quindi, la sua autorevolezza nel decidere se frequentare o meno l’ambiente scolastico. Sicuramente importante è la salvaguardia della educazione famigliare del bambino.

Per la scuola questi non sono valori, ma disvalori. La scuola spesso evita di iscrivere più di un alunno “nomade” nella stessa classe o in una stessa attività didattica; dice al bambino che a scuola non deve parlare la sua lingua e gli evita l’apprendimento delle lingue straniere perché ritenuto inutile; nega l’identità famigliare mentre accetta quella di comodo; sollecita la frequenza regolare; lava i bambini perché devono essere puliti per raggiungere il fine dell’integrazione scolastica. Questa abitudine, comune nelle classi Lacio Drom, sembrava appartenere ai tempi passati, ma in qualche comune è ancora in uso.

Prima di andare a scuola, “Qualche bambino non si cambia o non viene cambiato, perché, come dice qualche genitore: «Tanto a scuola lo lavano e lo rivestono dalla testa ai piedi»; qualcuno non viene cambiato perché non si ritiene necessario farlo; qualcuno viene cambiato tutte le mattine e ricambiato, tutte le mattine, dopo circa un’ora, a scuola, prima di entrare nella propria aula; qualcuno si pettina da solo, qualcuno non si pettina mai e odia farsi pettinare a scuola; qualcuno viene rincorso dalla madre o dal padre per il campo perché a scuola non ci vuole andare; qualcuno si sveglia, si alza, sale sul pulmino con l’unica preoccupazione che sul pullman ci salgano anche i propri fratelli …[29]

Nel progetto di Verona si legge “Il bambino zingaro riceve nella sua famiglia l’educazione ad essere un vero e giusto zingaro. L’educatore scolastico spesso non ha coscienza di dover proporre dei modelli che almeno non siano palesemente ostili a quelli della famiglia, atteggiamento che lo emarginerebbe in qualunque processo educativo”. Ma c’è qualche maestro/a che si preoccupi di essere emarginato? Spesso inoltre non trasmette agli altri alunni l’immagine del bimbo rom come appartenente ad altra cultura, ma semplicemente come un soggetto in situazione di difficoltà che deve imparare a diventare come loro.

La conseguenza è che il rapporto viene vissuto nel migliore dei casi con “prudente diffidenza” da entrambe le parti e con la preoccupazione di limitarlo al minimo: minima frequenza, soprattutto per quel che riguarda la lunghezza curricolare, da una parte, minimo interesse (non personale, ma istituzionale) dall’altra.[30]La mancata frequenza scolastica riguarda più spesso gli ultimogeniti.

Come fa notare Ana Gomes, negli anni ottanta la scuola nasce come uno spazio sociale di imposizione e di mobilità insieme. Ancora prima di avere il permesso di sosta al campo (quindi prima della realizzazione delle aree attrezzate per la sosta dei “nomadi”, dove il permesso di sosta è funzionale alla frequenza scolastica), le famiglie rom e sinti avevano il permesso, se non l’obbligo, di mandare i propri figli a scuola e la scolarizzazione diventa vincolo, strumentale, all’ottenimento del permesso di sosta nel campo. Una Delibera del Comune di Torino del 1984 che per la prima volta risolve questioni fondamentali relative alla regolarizzazione del permesso di sosta nel campo dell’Arrivore nella sua formulazione prevede il rinnovo dei documenti in funzione dell’espletamento dell’obbligo scolastico.

La mediazione culturale

Il bambino rom o sinto che vedrà nella scuola una figura della quale riconosce l’appartenenza allo stesso suo ambiente, vivrà con minore estraneità la sua vita scolastica e non potrà non avvertire l’autorevolezza di una persona che conosce la sua famiglia e le sue abitudini.

Si sentirà d’altra parte tutelato verso quelle forme di discriminazione che possono sussistere anche nella scuola ed aiutato a comunicare il vissuto suo e della sua gente con quei mezzi e quella dignità che potrebbero renderlo comprensibile e ben accetto agli altri.[31]

Un’indicazione del Consiglio di Europa sottolinea l’importanza della mediazione culturale, in particolare nel caso di bambini zingari.

Occorre notare a questo proposito che la comunità aveva già provveduto a svolgere una funzione di difesa in questo senso. Il bambino verrà mandato a scuola quando è pronto e per questo deve imparare qualcosa che gli permette di essere a scuola da solo.

Molto spesso la responsabilità sui fratelli minori spetta ai fratelli o, se questi non ci sono, ai cugini o agli zii. Il genitore affida al bambino precisi compiti affinché, a scuola, si occupi del fratello: i primi giorni dovrà rimanere sempre con lui e, se le maestre non li lasciano stare nella stessa classe, dovrà periodicamente andare a controllare nella sua classe che tutto vada bene.

Spesso gli stessi insegnanti organizzano la frequenza scolastica dei più piccoli in funzione di quella dei fratelli maggiori, facendo frequentare ai due bambini la stessa classe (quella del maggiore o la classe del nuovo arrivato) e avviando progressivamente il bambino a frequentare da solo la propria aula. È inoltre preoccupazione degli stessi uffici comunali quella di iscrivere i bambini appartenenti al medesimo nucleo famigliare nelle stesse scuole[32]e bambini, le cui famiglie è risaputo essere in litigio perenne o comunque in relazione fortemente conflittuale, in scuole differenti. Gli stessi direttori didattici, nei primi anni Ottanta, chiedevano alle circoscrizioni che i bambini fossero divisi nelle differenti scuole “in base ai gruppi etnici e alle parentele”[33].

Come si sente un mediatore culturale a scuola?

“…la mia presenza a scuola è diventata per molti genitori l’opportunità di avere qualcuno che frequentava l’ambiente famigliare - anche se non “di famiglia” - che si occupasse dei bambini in luogo estraneo a quello del campo. Così, a scuola, i genitori mi affidavano i propri figli e i bambini mi tenevano d’occhio come punto di riferimento. La cosa però non era a senso unico: la prima volta che sono entrata in una scuola dove frequentavano i bambini della famiglia allargata del cortile nel quale vivevo (i miei vicini di casa o i miei ospiti infanti) ho provato la fortissima sensazione di responsabilità nei loro confronti…

 Questo voleva dire proteggere i bambini a scuola (o in altri contesti gagé), non diffondendo notizie sulla vita quotidiana che i genitori a scuola intenzionalmente non portavano e, nello stesso tempo, difendere la comunità. Eventualmente, avrei sempre potuto raccontare a scuola quello che i genitori mi dicevano che si poteva dire a scuola, rispondendo a una precisa richiesta di tutela. Quello che avrei riportato non sarebbe forse stato propriamente vero per gli insegnanti, ma certamente non falso agli occhi delle famiglie.” (Saletti)

A Verona il progetto consisteva nell’inserire nella scuola un’insegnante munita di diploma di cultura rom e si proponeva:

  • per una integrazione sociale più dignitosa e corretta, a mediare il rapporto scuola-Comune, sia una cooperativa di servizi con finalità educative già esistente e operante sul territorio e già in rapporto con l’Ente, non creata apposta per “i nomadi”;   
  • questa opera di “mediazione”, pur iniziando con l’esperienza della mediazione fra cultura maggioritaria e cultura rom sia da considerarsi estensibile alle altre culture minoritarie presenti sul territorio,
  • si dia precedenza agli operatori appartenenti allo stesso gruppo culturale e linguistico dell’alunno che possiedano il titolo di studio richiesto dalla scuola italiana o, in caso di cittadini stranieri, titolo equivalente.
  • attivi delle agenzie di informazione autonome o trasversali, ovvero lezioni di storia e cultura, cineforum, audizioni musicali, oppure ampliamento dell’argomento con le informazioni parallele tratte dall’ambito della cultura minoritaria.

Il fatto poi che l’insegnante che trasmette queste informazioni sia di cultura rom, facilita gli alunni ad una atteggiamento più rispettoso verso i compagni appartenenti allo stesso gruppo e favorirà l’attenuarsi dei pregiudizi. 

Il beneficio è per i bambini rom, ma è soprattutto per l’Istituzione scuola che viene così messa in grado di svolgere il suo compito che è quella di educare ed istruire tutti i cittadini, soprattutto quelli nell’età dell’obbligo scolastico.

 I rom e i sinti che collaborano con l’istituzione

A Torino, nel 1996, l’Opera Nomadi organizza un corso per mediatori culturali di 200 ore. Il corso è aperto a tutti i romá e sinti residenti nei campi. Gli iscritti sono quindici. L’obiettivo è quello di disporre di un canale di tramite, di comunicazione, tra l’istituzione e la comunità. L’intenzione è quindi quella di poter offrire agli stessi mediatori opportunità lavorative nel Comune o nelle istituzioni in genere che si rivolgono ai romá e sinti (carcere minorile e per adulti, trasporto scuolabus, servizi sociali, ecc.). Il fine ultimo è quello di poter introdurre figure professionali nuove che non dovrebbero sostituirsi ai singoli individui, ma solo facilitare in un primo momento gli interventi e l’utilizzo dei servizi da parte degli utenti. Nel corso degli anni successivi, diverse associazioni, enti privati, hanno realizzato corsi di formazione per mediatori culturali. Meno frequenti sono state, invece, le opportunità lavorative delle figure professionali così formate.

L’ambiente che offre maggiori opportunità è quello scolastico.

Abbiamo già parlato dell’insegnante rom che ha operato a Verona per 4 anni. Anche a Mantova e probabilmente in altre città all’interno degli accampamentI ci sono mediatori appartenenti alla stessa etnia, così come a Reggio Emilia, Milano, Lanciano i presidenti di Associazioni zingare sono rom o sinti. 

Si evidenziano dei problemi comuni:

  • in relazione con la società gagi 

“In realtà tu non sarai mai come noi” dicevano alcune colleghe alla maestra romni di Verona e lei non era sicura che non avessero ragione, ma contemporaneamente sentiva il peso di dover difendere il proprio ambiente senza sapere quanto è accettabile, quanto può essere capito, quanto ti supporterà di fronte ai gage, senza farti fare brutta figura, senza smentirti…  

  • in relazione alla propria famiglia 

L’attesa dell’istituzione è che il mediatore sia uguale con tutti, equanime, ma il mediatore è figlio di…e di…che a loro volta sono parenti o nemici di… e di … Riportiamo questo esempio:

“In baracca arrivano stando fuori e chiamando a voce alta i bambini, o entrandovi - secondo le relazioni famigliari che intercorrono in quel momento tra gli adulti - uno o l’altro dei due mediatori culturali che accompagnano i bambini sul pullman. Sono due ragazzi/e domiciliati nello stesso campo che lavorano per l’associazione o l’ente che ha vinto l’appalto annuale per il servizio scuolabus. I due mediatori hanno, per contratto, il compito di andare a prendere i bambini a casa, di farli salire sul pulmino, di accompagnarli all’entrata della scuola, di tornare a riprenderli nel pomeriggio e di mediare il rapporto tra la scuola e le singole”(Saletti).

Questo significa che il mediatore avrà molta autorevolezza in alcuni casi e nessuna in altri, che sarà accusato in ambito associativo di privilegiare solo la propria famiglia (Trevisan), ma quello che per il gagio è vergogna, per il rom è dovere e chi oggi accusa, nella stessa situazione farebbe lo stesso.

  • in relazione all’ambiente zingaro

Il mediatore subisce il controllo sociale dell’ambiente, del campo, che può bloccare ogni sua attività con un giuramento sui morti. In una città è stato sospeso il servizio pullman perché il Sinto che se ne occupava è stato colpito dal giuramento, in un’altra, la rotazione dei mediatori che durano nel loro servizio in media un anno, un anno e mezzo, è dovuta allo stesso motivo.

Praticamente queste persone si trovano fra due fuochi: una diffidenza del mondo gagio che si fida “di più” del mediatore, ma non del tutto, una diffidenza del mondo zingaro che vorrebbe sempre poter verificare quanto del proprio mondo viene portato fuori, quanto è disposto a verificare della propria funzione di rappresentanza e di delega, quanto è disposto a “lavare” del proprio guadagno, ridistribuirlo all’interno. Il vero rom è quello che non vuol comandare al di là della propria famiglia, o che addirittura comanda facendo finta di non comandare[34], come si può quindi comandare in nome dei gage?

 Non c’è un rapporto individuo-gruppo sociale, come nel mondo non zingaro, ma individuo nella famiglia e gruppo sociale.

Il mediatore non risponde soltanto per sé, ma rappresenta sé e la propria famiglia con i comportamenti che ciascun individuo della propria famiglia si porta appresso. Può anche non condividerli, ma non li rimprovererà mai davanti agli altri, tanto meno davanti ad un gagio. L’incontro si ferma ad una linea di confine dove la metà privilegiata è quella del proprio ambiente che è sempre disponibile a riaccogliere al proprio interno i suoi membri.

Diversa è la situazione di chi si trova già in una posizione naturale di mediatore essendo coinvolto in un matrimonio misto, non è un caso che chi lavora con più successo nelle associazioni zingare si trova in questa situazione, in particolare rom con moglie gagi.

Conclusione

Sarebbe stato veramente gradevole poter elencare una serie di situazioni felici, progetti molto ben realizzati che ciascuno potesse copiare secondo le esigenze del suo paese. In realtà in questo intervento abbiamo messo in luce soprattutto le difficoltà, cercato di individuare i tranelli in cui non cadere. Le indicazioni più significative che ne possiamo dedurre mi sembrano queste:

Conosciuta la diversità, non dobbiamo attribuirla a tutti i costi alle persone che incontriamo. Non deve diventare una gabbia per cui se un rom o un sinto vuol vivere in un modo diverso, abitare in un modo diverso, mandare i figli in una scuola non segnata etnicamente, non possa farlo perché altrimenti si stacca dall’immagine elaborata dai migliori ricercatori.

Conosciuto un gruppo di romà, o di sinti o di roma, non si può attribuire a tutti le stesse caratteristiche. Le leggi regionali hanno identificato nella parola “nomade” un tratto significativo della cultura rom, qualcuno sostiene che non è vero, che per alcuni il nomadismo non è un attributo, qualche altro sostiene che si privilegiano gli stanziali anziché i nomadi, che il nomadismo viene impedito: può essere vero l’uno e anche l’altro, basta non generalizzare. Può darsi che nell’osservazione emergano delle caratteristiche comuni, ma questo va evidenziato “dopo” non a priori, prima non lo ritengo corretto.

Le nostre politiche sociali muovono da una concezione piramidale della società: ogni gruppo ha un rappresentante, poi c’è il rappresentante dei rappresentanti, ecc. Poi si ridiscende dalla cima alla base.. Fra i rom non è così, forse non si può evitare la difficoltà delle due situazioni sociali che si incontrano -dialogo fra comunità a potere centralizzato e comunità di tipo acefalo, lo chiama Piasere[35]- ma si può cercare di attenuare la diversità cercando tante piccole soluzioni locali, tante piccole piramidi, che anche dal punto di vista sperimentale si sono rivelate le soluzioni migliori. Lo sguardo d’insieme inoltre non dovrebbe diventare generalizzazione, ma possibilità di usufruire dell’esperienza degli uni per comprendere gli altri.


Situazioni emblematiche dal punto di vista abitativo

Queste situazioni abitative sono state scelte perché diverse per modalità di allestimento, assistenza, ospiti, consultazione delle persone ospitate e loro possibilità di autodeterminarsi e perché emblematiche di molte altre situazioni esistenti.

Allegato n.1  

Gli accampamenti a Torino e Strada Arrivore[36]

Ad opera dell’Ufficio Stranieri e Nomadi, a partire dal 1983, vengono regolarmente effettuati censimenti e controlli nelle aree sosta autorizzate e abusive. I vigili urbani su apposita scheda prestampata segnalavano il quartiere, la località, il tipo di stazionamento; quindi la nazionalità, il tipo e il numero di veicoli, gli attendamenti, il presumibile numero di persone, altri eventuali particolari dell'accampamento (l'attività esercitata, la situazione igienica, la situazione di ordine pubblico e la sicurezza pubblica), “eventuali lagnanze dei cittadini”[37]e attrezzature (servizi igienici, servizi scolastici, servizi sociali). Ezio Marcolungo, in un rilevamento effettuato nell'aprile/maggio 1983 segnala, oltre alla località dell'"insediamento" -- così come egli lo definiva --, “l'etnia” di appartenenza dei nuclei famigliari, il numero di individui, di carovane, baracche o tende, la presenza o l'assenza di servizi igienici, di fontane e le scuole frequentate. I censimenti effettuati non rare volte venivano elaborati per fasce d'età, indicando, oltre al numero di minori, il numero di bambini in età di scuola dell'obbligo (da sei a quattordici anni).

Nella definizione dei gruppi registrati, talvolta il criterio è etnico, talaltro legato alle attività lavorative svolte, alla religione, alla lingua, al periodo dell’immigrazione in Italia. Le definizioni non sempre sono chiare e spesso risultano imprecise.  

Con la Delibera del Consiglio Comunale del 1984, l’Amministrazione Comunale dispone l’attrezzatura dei campi nomadi in aree periferiche della città, per lo più su terreni comunali: ex-discariche, appezzamenti di scarso interesse per la costruzione edile, aree progettate a parco (e quindi solo provvisoriamente adibite ad area sosta). Per romá e sinti i luoghi nella città dove si può sostare e dove non si deve sostare hanno caratteristiche diverse da quelle presunte dei criteri di abitabilità valutati dagli uffici comunali. Vi sono aree che vengono abbandonate a causa del verificarsi di gravi episodi e/o, nelle aree sosta, luoghi nei quali è bene non costruire la propria baracca. La morte di una persona, in molti casi, precede lo smantellamento e l’incendio pezzo per pezzo della baracca nella quale questa viveva e, per i famigliari, la costruzione di una nuova abitazione in un’altra zona del campo, se non l’abbandono definitivo dello stesso o della città.  

Negli anni successivi, nel 1984 e 1985, le presenze totali registrate nelle aree sosta del territorio cittadino rimangono inferiori alle novecento unità. Intanto, l'Amministrazione Comunale inizia a concentrare le presenze nelle aree sosta appositamente attrezzate.

Relativamente alla regolarizzazione dei documenti, per quanto riguarda i romá piuttosto che i sinti, le questioni fondamentali sulle quali s’impegna l’Ufficio Stranieri e Nomadi attengono alle pratiche del permesso di sosta al campo, di conseguenza la residenza e il permesso di soggiorno. Con l’assegnazione della residenza nelle aree sosta aumenta il controllo formale politico dell’Amministrazione Comunale nei confronti dei romá e sinti presenti sul territorio cittadino. La residenza vincola gli spostamenti sul territorio, quindi formalizza la presenza fisica delle famiglie sullo stesso, e dà accesso a diritti (se non privilegi o obblighi): sanitari, educativi (la frequenza della scuola dell’obbligo), professionali (attività lavorativa), ecc.

In molti casi, l’interesse dei singoli alla residenza è finalizzata alla possibilità di intestare a proprio nome auto di proprietà (altrimenti registrate a pagamento a nome di qualche gagió di passaggio), oltre che al rinnovo del permesso di soggiorno. Molti romá provenienti dalle regioni balcaniche sembrerebbero essere entrati nel paese con regolari visti d'ingresso. La maggioranza risulta tuttavia priva di regolare permesso di soggiorno, data l'ampia discrezionalità con la quale la Questura, in quegli anni, rilascia il documento.

Nel 1988, con l’apertura dell’ultima area sosta, le aree attrezzate dal Comune di Torino per la sosta dei romá e sinti sono quattro : Aeroporto, Arrivore, Le Rose, Sangone . Nella città, da anni, sono presenti altre due aree di sosta, per sinti, sinti giostrai e giostrai (in attività e in pensione), gestite non dal Comune, ma da due sindacati.

Il “campo nomadi” in strada dell’Arrivore nasce per essere un’area sosta provvisoria, su un’area di circa 2500 metri quadrati all’interno di un terreno destinato ad area verde pubblico di oltre 40000 metri quadrati, ma negli anni l’area sosta si allarga perché piano piano si esce dai confini. Nel corso dei primi anni, le famiglie di kanjaria si trasferiscono in un’altra area di sosta mentre i nuclei famigliari di xoraxané romá diventano sempre più numerosi. Nell’area sosta infatti sopraggiungono via via altri nuclei famigliari (imparentanti con i primi o meno) che sistemano la propria abitazione all’interno di una zona di sosta i cui confini si allargano in modo abbastanza permeabile. Si tratta di nuclei famigliari precedentemente domiciliati in altre aree sosta (per l’Amministrazione Comunale abusive) nella città, in periferia o in altre città. Gli operatori degli Uffici Comunali che erano impegnati nel coordinamento dell’area raccontano che le presenze aumentarono rapidamente passando da cento a duecento unità nel giro di pochi anni. Dalla lettura dei documenti d’archivio raccolti presso L’Ufficio Stranieri e Nomadi sembrerebbe che il numero di presenze negli anni ottanta e novanta fosse sì in costante aumento, ma pare che si potesse osservare anche una elevata mobilità rispetto alle famiglie effettivamente presenti. Molte famiglie lasciavano l’area e si spostavano, qualcuna restava per più mesi o qualche anno. Nel 1985 la maggior parte delle famiglie che si trova a vivere nell’area sosta dell’Arrivore è arrivata in Italia da almeno una decina d’anni; certamente un grosso incremento nel numero di individui ivi domiciliati è quello dettato dall’arrivo dei nuclei famigliari profughi, a partire dal 1992. Questi mantengono all’interno del campo nomadi un’identità distinta. Diverso modo di abitare, religione, lingua, vestito, diverso modo di collocarsi rispetto alla scolarizzazione dei figli, pur provenendo dagli stessi paesi. Sono chiamati “kaloperi” e sono considerati poveri contadini. Al momento in cui si svolge la ricerca, secondo i dati dell’Ufficio Stranieri e Nomadi del Comune di Torino, gli individui residenti nell’area sono circa trecentoventi, settantatré famiglie. Chi “passa” dall’area sosta sono rom bosniaci, serbi, rumeni, gagé 

Da un punto di vista emico, lo spazio fisico del “campo nomadi” definisce ed è definito da identità famigliari. Nel “campo nomadi” in cui si è svolta la ricerca, le identità a cui ci troviamo di fronte sono quelle dei xoraxané romá, cittadini bosniaci, «ergaši, argati, rundaši, kaloperi», musulmani per la maggior parte non praticanti. Da un punto di vista istituzionale, invece, il “campo nomadi” definisce un luogo che descrive un'identità non etnica, né culturale, ma politica: il “nomade”, il “non cittadino” e, certamente, lo zingaro 

 L’area sosta nasce come spazio sociale d’imposizione (è vietata la sosta abusiva) e di accesso a diritti (la sosta nel campo permette di avere la residenza, quindi i documenti, il permesso di soggiorno); diventa uno spazio della comunità (contrattando una relazione economica con la società dei gagé); è luogo di sosta ideale divenendo regolatore del flusso sociale al suo interno. Altri criteri, quelli famigliari e culturali, vengono a definire la struttura sociale dell’area sosta, sia nel numero di presenze (ma soprattutto nel determinare quali siano gli individui presenti escludendo alcuni nuclei famigliari), sia nella collocazione spaziale delle abitazioni. Le relazioni parentali infatti definiscono una precisa collocazione spaziale delle baracche nel campo (che vede raccolte separatamente le abitazioni dei diversi gruppi famigliari allargati) e l’impossibilità di alcuni di sostare nell’area a causa di tensioni famigliari. Sono questi i principali casi nei quali si verificano episodi di nomadismo, dove la famiglia si sposta da un’area all’altra sostando temporaneamente in altre città o in aree abusive e rientrando saltuariamente nella stessa area sosta. Il campo acquisisce così un’organizzazione al suo interno che non risponde a un progetto istituzionale e non è soggetta a un controllo esterno.

Allegato n.2  

Verona - strada la Rizza[38]

A Verona, dai primi anni sessanta, accanto a sinti, rom abruzzesi, qualche gruppo di khorakhanè romà, vive un gruppo di roma sloveni, che avevano acquisito la cittadinanza italiana nel dopoguerra. Dopo qualche esperienza di accampamenti comunali in cui tutti i gruppi convivevano, si tollerò, con l’interruzione di qualche ordinanza di sgombero, la sosta spontanea di rom e sinti cittadini italiani. Quando nell’84 fu emanata la legge regionale del Veneto, i roma sloveni chiesero al Comune che venisse assegnato a ciascun gruppo familiare un terreno che avesse la funzione e la situazione formale di un alloggio popolare. Dopo una lunga contrattazione fu allestito il terreno di Strada La Rizza, diviso in otto piazzole, 4 e 4, una di fronte all’altra con una strada cieca in mezzo (quella dell’unica uscita a imbuto si è rivelata una grave pecca), assegnate ciascuna ad una famiglia. Il principio era di allestire piazzole che rispecchiassero le modalità della sosta spontanea.

Dopo un paio d’anni di “intensa assistenza” -già iniziata nella precedente area non attrezzata-, corsi di alfabetizzazione degli adulti, doposcuola all’interno del campo, assunzione di una romni per le pulizie della scuola, sussidi economici, con il cambio dell’amministrazione queste famiglie furono dimenticate. Ciascuno condusse la propria vita, autodeterminandosi in ogni cosa, iscrivendo i propri figli a scuola, lavorando in modo autonomo o dipendente o non lavorando affatto, piantando alberi, baracche, prefabbricati, difendendo la propria autonomia da quegli amministratori che volevano fare di questo terreno un campo nomadi, o meglio: “il campo nomadi di Verona”. Essi volevano così considerare di avere già ottemperato ai dettami della legge regionale e di non avere altri doveri, ad esempio verso il gruppo dei sinti. La dimenticanza delle persone è stata totale, maggiore di quella dei gage del quartiere: l’assistente sociale competente per territorio non ci metteva proprio piede e nessuno sapeva se in queste piazzole vi fossero bambini che non ottemperavano l’obbligo scolastico o vecchi bisognosi di aiuto.

Attualmente c’è un’amministrazione progressista che crede nella tutela e non nella autodeterminazione, che ha “appoggiato” alle piazzole attrezzate gruppi di sloveni (i roma provenienti da altre città, parenti di quelli che abitano nelle piazzole, che prima venivano periodicamente allontanati), bosniaci e rumeni che non sapeva dove collocare. Si trovano fianco a fianco i gruppi assistiti e i gruppi indipendenti, gente che paga ogni consumo: gas, luce, acqua e gente che non paga niente non per una considerazione di reddito, ma per motivi di appartenenza. Sembra una situazione che provocherà la caduta dell’esperimento, ma è attualmente in divenire…

Allegato n.3 

Trento[39] 

L’area di sosta è stata creata nel dicembre 1992. E’ un po’ più di 4000 metri quadri e comprende 25 piazzole. Ogni spazio era previsto per contenere una roulottes, ma essendo queste molte di più lo spazio libero è davvero poco. Le roulottes sono disposte lungo il perimetro e al centro c’è un’aiuola spartitraffico. Vicino all’ingresso, è collocata una costruzione in muratura che comprende la scuola materna, il doposcuola, gli uffici degli operatori. Sull’altro lato si trova la batterie dei servizi. 

La maggior parte delle famiglie sono sinti Lombardi, Gackane, Estrajxarja, presenti a Trento da diversi decenni e che prima vivevano in un campo non attrezzato. Non c’è stata possibilità per i residenti di scegliere il dove e vicino a chi collocare la propria kampina, ma i sinti si sono arrangiati con un’organizzazione interna scambiandosi le piazzole fra di loro. Significativa in questo accampamento è la quantità di persone legate al privato o pubblico sociale che vi operano: 2 cooperative di solidarietà sociale, 4 interventi del comune di Trento, la Parrocchia, 2 presenze dell’istituzione scolastica. E’ una cooperativa che gestisce il campo e gli operatori si fanno il turno assicurando una presenza di 11 ore. Dipende dalla cooperativa anche la persona residente al campo che tiene in ordine il piazzale.

Un sinto estrajxari mantiene il contatto con l’istituzione facendo parte della consulta comunale che si occupa della legge provinciale 15/85 sulla tutela degli zingari. Non tutti gli riconoscono questa funzione di rappresentanza pur non volendo sostituirlo.

L’attività degli operatori è prima di tutto burocratica: pagamenti bollette, rinnovo dei permessi, iscrizioni scolastiche…Sono interpellati per qualsiasi problema o bisogno. 

Allegato n. 4

Pisa[40] 

A Pisa verso la metà degli anni ’80 si costituiva spontaneamente un accampamento di notevoli dimensioni composto da Macedoni, Serbi, Bosniaci e Croati in località Tortellini. Era in condizione di cronica abusività e piccoli gruppi si staccavano continuamente dal grosso nucleo in cerca di nuovi posti. Nel 1991 una delibera del Sindaco disponeva lo sgombero definitivo del campo. Alcuni romà si ricongiunsero ai parenti accampati a Modena Foggia Firenze, altri si sparpagliarono in piccoli gruppi isolati. Gli attentati del ’95 la bomba carta lasciata nel libro di fiabe e quella nella bambola offerta da un passante al semaforo furono fra i motivi che indussero i romà a difendersi creando di nuovo un grande accampamento provvisorio, dapprima a Tombolo, poi a Coltano. Contemporaneamente furono fatti censimenti, incontri fra Associazioni, scontri con associazioni gage fra cui l’Associazione di difesa del territorio di Coltano e Tombolo, paesi dove si erano creati gli appartamenti.

Attualmente l’amministrazione di Pisa sta cercando soluzioni diverse dall’allontanamento forzato ascoltando le aspettative degli interessati, distinguendo i gruppi fissi da quelli migranti, tenendo conto dei legami di parentela e valorizzando le conoscenze del privato e pubblico sociale.

Questi romà in Kosovo, Macedonia, Bosnia e Serbia non praticavano il nomadismo. I Macedoni, ad esempio, provengono dal popoloso quartiere di Shuto Orizari a Skopje, insediamento con una propria autonomia politica, amministrativa e associativa più simili ai quartieri periferici delle grandi città del mondo islamico che a un campo nomadi. Il diverso modo di abitare nasce dalla necessità di abbandonare un luogo ed è frutto delle circostanze.

Le possibili soluzioni abitative, previste dal Comune di Pisa, comprendono oltre all’accampamento anche la ristrutturazione di casolari abbandonati e case per soddisfare le diverse attese degli interessati. Il problema comune è la mancanza di permesso di soggiorno, perciò la prima preoccupazione è offrire protezione giuridica.


Opere citate

 AA. VV. ROM numero unico, fondazione Migrantes, novembre 1989, pagg.39-42.

Abitazionein "Rom e sinti un'integrazione possibile", 2° rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia. Commissione per l'integrazione degli immigrati.

Barontini Michele “I campi nomadi a Pisa” in L’urbanistica del disprezzo a cura di Piero Brunello, Manifestolibri 1996 Roma.  

Gomes Ana, “Etnografia scolastica tra i Sinti di Bologna: una descrizione preliminare” in Italia Romanì vol. 1° a cura di L. Piasere, CISU 1996 Roma.

Gomes Ana, intervento nella I parte del “Progetto Luna Park” 1997 Verona, Provveditorato agli studi.

“Le città sottili”,progetto della città di Pisa, nov. 2002.

Piasere Leonardo, “Povertà e ricchezza” in Atti Convegno UNPRES, Bologna 1990.

Piasere Leonardo, “Autorità e potere” in Atti Convegno UNPRES, Giulianova 1994.

Piasere Leonardo, “Un mondo di mondi. Antropologia delle culture rom”, Ancora editore, Napoli 1999.

Progetto di mediazione culturale a cura di Piasere- Scaramuzzetti per la scuola elementare Lenotti di Verona. Ins: Pamela Hudorovich.

Saletti Carlotta, Bambini del “campo nomadi”, Roma, CISU, in stampa.

Scaramuzzetti Giuseppina, “Germania 1992, rimpatriatigli zingari rumeni”, in “Servizio Migranti”, rivista della fondazione Migrantes, Roma,1993.

Scaramuzzetti Giuseppina, Â“Normale come me” in “Autogestione Politica Prima” periodico di Azione Mag, Verona 2001/4.

Scaramuzzetti Giuseppina, “Abitare” in Servizio Migranti, rivista della fondazione Migrantes, Roma 2002.

Sigona Nando, “figli del ghetto”, Nonluoghi libere edizioni, 2002 Civezzano (TN).

Todesco Daniele, “Zingari e territorio: le politiche dei Comuni nel veronese” , Tesi scuola superiore di servizio sociale, 1986 Verona.

Tomasi Piergiorgio “La vita in un campo nomadi regolamentato: il caso di Trento” in Italia Romanì vol. 2° a cura di L. Piasere, CISU 1999 Roma.

Trevisan Paola, Sinti in Emilia, rapporto per il progetto The education of the gipsy childhood jn Europe. Dipartimento di studi sociali, Università di Firenze, 2002.


[1] Ho cercato di usare la parola “zingaro” anche se non è mia abitudine e anche se so che è aborrita dagli interessati per non confonderla con l’autonimo “rom” che è il nome con cui un gruppo definisce se stesso e perché non so se i partecipanti a questo convegno sono disponibili ad accettare l’uso della Comunità Europea di estendere questo nome a tutti i gruppi zingari. In Italia, la denominazione “rom e sinti” copre quasi tutta la popolazione zingara presente sul territorio. In altri momenti userò la parola “rom” con un’altra accezione.
[2] Già rispetto alle prime raccomandazioni della comunità europea e alla risoluzione della conferenza degli enti locali e regionali dell’81 in Italia, Todesco conclude “l’ammettere e il farsi carico, sembra il primo grosso passo per uscire dai percorsi secolari, fatti di deleghe e accuse o dalle moderne soluzioni di inglobamento” (1986:25).
[3] Da tener presente anche quanto dice Sigona a pag.108. “Un aspetto estremamente interessante e centrale oggi è il rapporto tra una politica incentrata sull’idea di civilizzazione dello zingaro e del recupero del gap con la società industriale e moderna, che affida quindi un ruolo di primo piano all’intervento dei servizi sociali e agli organismi di volontariato e assistenza, e la situazione di dipendenza e di delega estremamente diffusa tra i rom”.
[4] Sono comunità o singoli: sacerdoti, religiosi e laici che fanno capo all’UNPReS, Ufficio Nazionale per la Pastorale fra i Rom e i Sinti, settore della fondazione Migrantes, che vogliono essere la presenza della Chiesa che è in Italia in mezzo a Rom e Sinti.
[5]Ricordo per tutti Leonardo Piasere, docente di antropologia culturale all’università di Firenze, e i ricercatori del suo gruppo che mi hanno permesso di accedere al loro progetto Opreroma. The education of the gipsy childhood in Europe.Dipartimento di studi sociali, Università di Firenze, 2002.
[6] Questionario del Pontificio Consiglio compilato dai vari direttori nazionali nel 2001.
[7] Scaramuzzetti:  Normale come me, in “Autogestione Politica Prima” periodico di Azione Mag, Verona 2001/4.
[8] Gagi = non zingari/e.
[9] Il vocabolo qui è usato come etnonimo (gruppo umano caratterizzato in un certo modo) ed eteronomo (gruppo umano altro da noi).
[10] Manifesti con proposta di referendum per allontanare gli zingari da Verona.
[11] Cfr Opre roma
[12] Ana Gomes, Intervento nella I parte del “Progetto Luna Park” 1997 Verona, Provveditorato agli studi.
[13] Paola Trevisan, prog. cit., Sinti in Emilia: II parte.
[14] I sinti dicono di una zona: è un posto da sinti, per dire che in quei luoghi i sinti giravano abitualmente ed erano trattati bene e nello stesso senso i rom sloveni dicono “maare mistacia” i nostri posticini.
[15] Esempio di Verona (It.)- Per trovare una soluzione almeno un po’ dignitosa per un gruppo di rom rumeni (250: numerosi per la città) non si è tenuto conto dell’indirizzo politico sul quale si è insistito fino a quel momento: piccoli gruppi omogenei, che si collocano nelle zone a loro familiari della città e che si relazionano con l’istituzione secondo il principio dell’autodeterminazione. I rom rumeni sono stati collocati in un “territorio di sinti”, già occupato da un gruppo di sinti molto meno numeroso. Sono completamente affidati all’assistenza di un istituto religioso in collaborazione con l’amministrazione. Un gruppetto “in soprannumero” è stato appoggiato alle soluzioni abitative di poche famiglie di rom sloveni, organizzate in quel modo da 13 anni. I motivi portati sono: 1) si tratta di un’emergenza, 2) i rom fra loro devono essere accoglienti.
[16] Vedi Scaramuzzetti in Germania 1992, rimpatriatigli zingari rumeni, 1993 Roma, “Servizio Migranti”, pag. 115.  Gli attacchi agli ostelli degli asylanten, soprattutto zingari, avvenuti a Rostock come inizio di atti di razziasmo e vandalismo che si sono allargati alle altre regioni, la bomba a Oberwart nel 1995 che ha ucciso 4 rom, la bomba carta messa in una bambola regalata ad una bambina rom a Pisa (Italia) nello stesso anno.
[17] Il libro di Sigona prende lo spunto da questo fatto.
[18] Vedi ROM numero unico, fondazione Migrantes, novembre 1989, pagg. 39-42.
[19] In alcuni casi, come a Torino, il regolamento del campo sosta ha preceduto la legge regionale.
[20] E’ successo, senza concretamente realizzarsi, nel 97 a Roma e a Palermo. E’ reale invece il custode che vieta l’ingresso a chi non ha l’autorizzazione, rom o gagio che sia (es. Cagliari).
[21] Scaramuzzetti in Servizio Migranti, rivista della fondazione Migrantes, Roma 2002.
[22] Rom, pag. cit.
[23 ] Carlotta Saletti, Bambini del “campo nomadi”, Roma, CISU, in stampa.
[24] Abitazionein "Rom e sinti un'integrazione possibile", 2° rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia.- Commissione per l'integrazione degli immigrati.
[25] Questo ha generato in un gruppo di cittadini molto attivi in politica la convinzione che tali persone ricevessero un sussidio quotidiano dallo stato (equivalente alla cifra stanziata per le istituzioni che se ne fanno carico); hanno diffuso capillarmente la notizia; hanno distribuito cartoline prestampate che dovevano solo essere firmate e spedite al presidente della Repubblica: “Anch’io desidero diventare zingaro rom per ricevere il sussidio di 35.000 lire al giorno.”
[26] Brunello confronta questa situazione con l’istituzione dei ghetti nelle città italiane del 500. 1996:17.
[27] Citata in Rapporto di Paola Trevisan, Progetto Opreroma, pag. 56.
[28] Saletti, Trevisan, opere citate.
[29] Saletti, op. cit.
[30] Progetto di mediazione culturale a cura di Piasere- Scaramuzzetti per la scuola elementare Lenotti di Verona. Ins: Pamela Hudorovich.
[31] Piasere Scaramuzzetti, prog. cit.
[32] Là dove i bambini di un campo non frequentino un’unica scuola, come succede nelle città più piccole.
[33] Dal verbale di un seminario del ‘Gruppo di lavoro “nomadi” datato 2/3/84. Torino.
 [34] Piasere “ Povertà e ricchezza”in  Atti Convegno UNPRES, Bologna 1990.
[35] Piasere “ Dialogo fra comunità a potere centralizzato e comunità di tipo acefalo ” in Atti Convegno UNPReS, Giulianova 1994.
[36] Questo contributo è tratto dall’opera citata di Carlotta Saletti.
[37] Censimento datato 3 maggio 1983 effettuato nel quartiere 16 dal Corpo dei Vigili Urbani.
[38] Contributo ad opera della relatrice.
[39] Notizie da: Piergiorgio Tomasi “La vita in un campo nomadi regolamentato: il caso di Trento” in Italia Romanì vol. 2° a cura di L. Piasere, CISU 1999 Roma.
[40] Informazioni tratte da: Michele Barontini “I campi nomadi a Pisa” in L’urbanistica del disprezzo a cura di Piero Brunello, Manifestolibri 1996 Roma e da “Le città sottili”, progetto della città di Pisa, nov. 2002.
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