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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 86, September 2001

 

Pellegrini e Forestieri, ieri e oggi *

 S.E. Mons.Francesco GIOIA
Segretario del Pontificio Consiglio 

1. Concetto di pellegrinaggio

Il termine “pellegrinaggio” etimologicamente deriva dal latino peregrinare, ossia ire per agros: spostarsi di villaggio in villaggio attraverso i campi e non lungo le viae che in genere sono supportate da un minimo di attrezzatura di carrozze e di stationes per il vitto e l’alloggio.
“Andare per i campi” evoca lÂ’idea del disagio, sotto il sole o la pioggia, senza sapere cosa magiare e dove dormire. Quindi, già nel termine “pellegrinaggio” è racchiusa lÂ’esigenza della penitenza per purificarsi dai propri peccati.
Il peregrinus era un viandante che attraverso i campi si recava a un luogo sacro, ove Dio si è manifestato con un evento prodigioso, la cui memoria è viva.
Dal momento in cui parte e fino al momento del ritorno, il pellegrino fa lÂ’esperienza dello xenos, vive lÂ’esperienza della xenìteia. Pellegrino è lo straniero alla ricerca del sacro che è ben distinto dal semplice forestiero che ha interessi turistici o economici, e che assai spesso ha bisogno di protezione.

2. Il pellegrinaggio nelle epoche remote

I pellegrini sono esistiti in epoche remote. I menhir e i dolmen erano monumenti del sacro, dove si svolgevano riti frequentati da popolazioni più o meno lontane. Nel Sahara sono rimaste testimonianze graffite di santuari, che dovevano essere frequentati dalle popolazioni che vivevano in quelle regioni allora non ancora desertiche, ma terre verdeggianti. Come si vede, si risale molto indietro nel tempo. Anzi, pare esistano buone ragioni per attribuire la prassi dei pellegrinaggi anche allÂ’Homo Sapiens o addirittura al Sinantropo, vissuto trecentomila anni fa, che nelle vicinanze di Pechino ha lasciato una moltitudine di crani sul vertice di una piccola collina.
Documentata è lÂ’esistenza degli antichi pellegrinaggi nel subcontinente indiano: si pensi, ad esempio, a Benares per lÂ’induismo e a Kandy per il buddismo.

3. Il pellegrinaggio presso gli Ebrei

Nel mondo ebraico si presenta immediatamente il pellegrinaggio di Abramo, in cui entrano elementi così specifici che lo rendono in un certo senso atipico, cioè unico. Uscito per ordine di Dioda Ur dei Caldei verso il 1880 a. C., il patriarca si mise in cammino (Cf Genesi 12,1) “senza sapere dove andava”, commenta lÂ’autore della lettera agli Ebrei (Eb 11,8), in attesa di conoscere il paese che Dio gli avrebbe indicato (Cf Gen 12,5). Comunemente il “sacro” verso il quale il pellegrino si muove, preesiste in un luogo da raggiungere e di cui egli ne conosce almeno lÂ’esistenza. Non così per Abramo. Egli si fida della promessa che Dio gli ha fatto più volte nelle grandi notti stellate di oriente: sarebbe divenuto padre di una moltitudine di gente (Cf Gen 15,5;22,17).
Evidentemente, in quella Terra che Dio avrebbe un giorno dato ai discendenti del patriarca, il sacro si sarebbe aperto in un sacro immenso come il cielo. Del resto, non è sempre - un santuario - un simbolo che rinvia a quel sacro? LÂ’atipicità del pellegrinaggio di Abramo nasce proprio dal fatto che svela il “simbolismo” costitutivo di ogni pellegrinaggio.
Invece, per i figli di Abramo, diventati popolo, il pellegrinaggio in senso tecnico – distinto dal fenomeno migratorio vissuto nel lento avvicinarsi alla Palestina – nasce dopo aver conquistato la Terra Promessa e diventa una rivisitazione di quella epopea. Samuele ogni anno sale con i genitori (lÂ’usanza era quindi stabilizzata!) a visitare lÂ’Arca in Silo (Cf 1 Sam 1,3). Da questa località la meta si sposterà a Gerusalemme, quando vi sarà trasportata lÂ’Arca (Cf 1 Cr 15, 1-3). Seguendo quella lunghissima tradizione, Maria e Giuseppe vi saliranno insieme a Gesù (Cf Lc 2,41.52). Originariamente la Legge prescriveva quel pellegrinaggio tre volte lÂ’anno (Cf Dt 16,16), ma in seguito divenne prassi annuale. La gente vi saliva per vedere il volto di Dio (Cf Sal 42,3).
Nei due secoli che precedono Davide e lÂ’organizzazione del Regno, gli ebrei imitano le feste agrarie che le popolazioni conquistate osservano, mescolandovi memorie della propria storia. Nasce così la tradizione delle tre feste più importanti: quella degli Azzimi, in ricordo dellÂ’uscita dallÂ’Egitto (nel mese di Abib, “perché in esso sei uscito dallÂ’Egitto”, Cf Es 23,15); la seconda festa è quella delle “settimane”, alla mietitura del grano; la terza quella delle “Capanne”, che durava otto giorni, durante i quali il popolo si trasferiva in capanne, facendo memoria dei lunghi anni dellÂ’emigrazione dei padri attraverso il deserto, sotto le tende, senza fissa dimora (Cf Es 23, 14-19). Prima della rigorosa centralizzazione monarchica, le singole tribù ricuperarono con i loro pellegrinaggi le memorie abramiche, come Sichem, dove sorgeva il querceto di Mambre, dove Dio fece la promessa al Patriarca (Cf Gen 12, 6-7) e dove Abramo comprò dagli Ittiti il primo frammento della futura Terra Santa (Cf Gen 23, 1-20); o come Silo e Betel, dove Abramo aveva eretto il primo altare con le pietre del luogo e aveva invocato il nome di Dio (Cf Gen 12,8), qui anche Giacobbe eresse un altare perché proprio in questo luogo gli era apparso Dio (Cf Gen 28,10-19; 35,1-15).
DallÂ’analisi del pellegrinaggio nella storia degli ebrei emerge chiara la distinzione tra la condizione di straniero e quella di pellegrino. Stranieri erano gli Ebrei, fin dai tempi di Abramo e poi di Mosé (come lo saranno in seguito nelle fasi della deportazione in Babilonia e della grande Diaspora) quando, come altri popoli, erano costretti a muoversi e spostarsi non alla ricerca del sacro, ma di una sopravvivenza o di una migliore condizione di vita. Pellegrini, invece, erano quando si muovevano per salire ai luoghi custodi della memoria della manifestazione del sacro.
La peculiarità del pellegrinaggio ebraico, che serve da modello a quello cristiano, è quella di essere un fatto “comunitario”, “corale”: il pellegrino non è la persona che accede ai luoghi sacri per interpellare le divinità sull'esito delle proprie vicende strettamente personali, sia pure comuni a suoi compagni di viaggio, ma per celebrare ricorrenze collettive. Ciò non significa che i singoli non potessero esprimere problemi personali, come la madre di Samuele che chiese la grazia di avere un figlio (Cf 1 Sam 1,3-18), ma tali problemi erano coniugati con la coralità del pellegrinaggio. Le ricorrenze stabilite da tradizioni e leggi dei pellegrinaggi erano occasioni e modalità di aggregazione etnica, corroborata da una fortissima componente religiosa monoteistica che differenziava lÂ’ebreo da qualsiasi altro essere umano, e dava ai singoli un senso di appartenenza che difficilmente altri individui potevano avere.
Infine, per gli ebrei, che si muovevano solo in un contesto fortemente religioso, il pellegrinaggio aveva una connotazione unicamente interna alla propria comunità; per questo, il pellegrino ebreo non poteva sperimentare il fatto di sentirsi in paese straniero o di essere a contatto con popoli che non credono nel suo Dio; in una parola, egli perde il senso dello straniero o dellÂ’infedele cui testimoniare la sua fede.

4. Il pellegrinaggio nellÂ’antica Grecia

Se dal pellegrinaggio ebraico passiamo al pellegrinaggio di altri popoli, è chiaro che manca lÂ’aggancio al presupposto della “Salvezza universale”, allÂ’inizio solo implicito, ma progressivamente sempre più chiaro fino allÂ’Annuncio Gioioso (la Buona Novella) del cristianesimo.
Anche nel mondo non ebraico e precristiano esistevano i luoghi del sacro ed erano frequentati: si pensi a Dodona, di cui parla Omero, a Delfi, sacro ad Apollo e Diòniso, a Cuma con la Sibilla che emetteva oracoli in nome di Apollo. Ai grandi santuari affluivano persone facoltose e colte anche da paesi lontani, attratte dal pensiero che il sacro contenesse il mistero del futuro e il potere di sconfiggere il male.
LÂ’esperienza di essere pellegrino facilmente si coniugava con lÂ’esperienza di essere forestiero. LÂ’elemento di convergenza era il senso di precarietà davanti al male e al futuro con i suoi enigmi. Era una precarietà che la nostra cultura può anche chiamare creaturalità: ma una volta raggiunta la creaturalità come fondamento dellÂ’esistenza umana, si arriva – solo esplicando il termine – al concetto del Creatore che del futuro e del male è il padrone e al quale ci si può rivolgere. Invece, gli antichi pellegrini che cosa cercavano e a chi si rivolgevano?
Pezzo forte del santuario era lÂ’oracolo: la parola pronunciata che doveva svelare e guarire. Non viene comunemente messo in rilievo che nel santuario, oltre allÂ’oracolo, si faceva anche lÂ’esperienza del sacro; infatti, accanto al cuore del sacro (per esempio lÂ’antro della Sibilla) esistevano spazi in cui il pellegrino poteva sostare, fare lÂ’esperienza viva dellÂ’immersione del sacro per un certo periodo di tempo, a volte anche prolungato.
LÂ’archeologia rivela che tutte le località popolate ostentano i luoghi del sacro. E perciò dovevano esistere forme di pellegrinaggio. La toponomastica in Italia è punteggiata di località arcaiche, in cui è presente la radice phan (= rivelare) a indicare che in quel luogo cÂ’è stata una rivelazione del sacro e perciò un santuario (si pensi a Fano, Fano Adriano, Sacrofano, ecc.).
La “coralità” ebraica derivante dallÂ’appartenenza a una fede comune, tra i pellegrini, non cÂ’è, o almeno non è evidente. La liberazione dallÂ’incertezza e dalla precarietà è un fatto comune, ma non spinge alla solidarietà. Tuttavia, la comunanza di incontri ha dato luogo a manifestazioni aggreganti importanti, come è accaduto, per esempio, a Delfi, dove si celebravano ogni quattro anni i giochi delfici, aperti a tutti i greci, risuscitati dalle nostre moderne Olimpiadi.

5. Il pellegrinaggio cristiano

LÂ’uomo primitivo è partito da una vita che si svolgeva in gruppi chiusi, di natura difensiva, dai quali lÂ’altro che stava fuori era lÂ’hostis-hostilis[1]. Progressivamente lo stesso uomo ha sentito lÂ’altro, fuori del gruppo di sicurezza, come lÂ’hostis-hospes e gli ha riservato lÂ’accoglienza (unÂ’accoglienza purtroppo, non garantita a tutti, perché alcuni sono stati ridotti in schiavitù!). Finalmente, lÂ’uomo che viveva nella sicurezza che gli garantiva lÂ’appartenenza a un gruppo vide nello straniero un altro uomo, un suo simile, aiutato in questo processo anche dallÂ’immagine dellÂ’Altro, di Dio, che ogni altro porta in sé: immagine che ce lo rende fratello.
LÂ’evento cristiano ha introdotto un elemento sconosciuto alla cultura ebraica: lÂ’agape, lÂ’amore, che unifica e pone sullo stesso piano il forestiero e il pellegrino. Si pensi alla testimonianza di Giovanni Crisostomo relativa alla Chiesa di Costantinopoli, che accoglieva in apposite strutture ben sette categorie di bisognosi: i forestieri, i malati, gli invalidi, gli orfani, gli anziani, i poveri, tutte le persone in genere[2].
Gerusalemme non avrebbe mai potuto “cancellare” lo straniero e metterlo alla pari dei figli di Abramo. Basti pensare a quello che accadeva anche in una fase di grande maturazione umana e sociale degli ebrei diffusisi nello spazio dellÂ’ellenismo e della romanità. Ebrei di Palestina ed Ebrei della diaspora, anzi unÂ’infinità di “simpatizzanti” partecipavano alle grandi feste ebraiche. Gli specialisti dÂ’archeologia hanno calcolato che il tempio con le varie strutture connesse, potesse contenere fino a 180.000 persone. Secondo una stima credibile i pellegrini che salivano a Gerusalemme per la Pasqua arrivavano in media a 125.000, circa il doppio della normale popolazione di Gerusalemme nel I secolo d. C. Alcuni testimoni, stupiti dalle enormi folle che vi accorrevano, hanno fornito delle cifre certamente esagerate, ma significative: Tacito parla di 600.000 pellegrini, Giuseppe Ebreo di 2.700.000 e il Talmud di ben 12.000.000[3].
La distinzione tra Ebrei e stranieri, proseliti o semplici curiosi, è sempre stata tenuta, rigorosamente. Invece, dopo lÂ’evento cristiano tutti sono uguali nella nuova sinagoga o chiesa: questo non solo nei territori dellÂ’Impero di Oriente, ma anche nellÂ’Europa in cui erano dilagati tanti barbari. Il termine forestiero non ha più senso. Il paroikòs, cioè lo straniero, per il quale lÂ’Impero precristiano aveva mutuato dallÂ’urbanistica greca i quartieri riservati – paroikìai – diventa, senza distinzione alcuna, membro della comunità cristiana detta in tardo latino paroecia.
Il termine classico relativo allÂ’esperienza dello straniero, detto in antico xenìteia diventa la agape. I cristiani che muovono da lontano sono peregrini, fratelli che camminano per agros, non forestieri nel senso di estranei, semmai forestieri nel senso di ospiti. Infatti, le abbazie, le cattedrali, le parrocchie e i conventi erigeranno delle domus hospitales, cioè delle case per i pellegrini, che sono hostes/hospites e non hostes/hostiles da cui difendersi! Le grandi lettere H assunte dalla segnaletica di tutto il mondo derivano dalla radice Hospes per indicare lÂ’albergo (Hôtel) e lÂ’ospedale (Hôpital).
Per tutto il medioevo ai pellegrini viene assicurata lÂ’accoglienza. Infatti, per seicento anni si recheranno a fare lÂ’esperienza del sacro là dove il figlio di Dio si è fatto uomo, lÂ’evento chiave che ha dato senso a una cultura: a Nazaret, a Betlemme, al Calvario, al Sepolcro di Gerusalemme. Vedere con i propri occhi i luoghi dove Gesù aveva camminato e parlato e operato i miracoli, era la forma più forte di conoscere Gesù per uomini quasi tutti illetterati e perciò sprovvisti di altri mezzi di verifica della propria fede.

6. Il pellegrinaggio nellÂ’età moderna

Il pellegrinaggio nellÂ’età moderna si distacca dallÂ’obiettivo della Terra Santa che per oltre mezzo millennio era stato quasi esclusivo. Esauriti i tentativi delle crociate, il mondo cristiano ripiega su altri obiettivi. Tanto più che il trascorrere dei secoli e il fiorire di testimonianze vive altrove in Europa e poi anche fuori offre altre mete allÂ’esperienza del sacro.
Molto presto, Roma con le memorie dei suoi martiri e con la presenza del successore di Pietro, e Compostela con le reliquie dellÂ’apostolo Giacomo fanno “concorrenza”, per così dire, a Gerusalemme. Successivamente Mont-Saint-Michel in Bretagna e il San Michele del Gargano si offrono come mete ai due poli estremi dellÂ’Europa. Anche Altötting nel cuore della Germania conserva un santuario meta di pellegrinaggi fin dallÂ’anno 700 circa. In Italia i pellegrini salgono al colle di Loreto per venerare la Casa della Madonna.
Il sacro conteneva ormai per la cultura del continente Europeo il senso dellÂ’esistenza e i pellegrini ne erano i testimoni. Con comprensibile orgoglio al loro ritorno ne ostentavano per tutta la vita le decorazioni – la palma, per chi era stato a Gerusalemme, la conchiglia, per chi era stato a Compostela – pronti a rendere testimonianza a quanti li interpellavano sulla loro xenìteia rielaborata nel calore dellÂ’agape cristiana: Sigerico ci ha lasciato un diario tappa per tappa da Canterbury, annottando quello che ha visto in 79 submansiones, nel corso dei lunghi mesi di cammino tra popolazioni che non sentiva straniere, e dalle quali non era percepito come straniero, ma come un fortunato fratello di fede. Nel 1154 lÂ’abate Nikulas di Munkathvera, in Islanda, partiva per un analogo pellegrinaggio, di cui rimane la memoria, prima fino a Roma e poi fino a Gerusalemme.
Un fiume ininterrotto di pellegrini per secoli percorsero lÂ’Europa, si incontrarono e si riconobbero fratelli – non stranieri, anche se provenienti da regioni diversissime – e vissero i pellegrinaggi come esperienze di chiesa, di comunità di credenti.
A Novacella, appena passato il Brennero, esiste ancora un immenso monastero costruito non per i monaci, ma per i pellegrini che dal cuore della Germania, fino al Baltico, scendevano verso Roma e alle soglie del clima mediterraneo sostavano, venivano curati, rifocillati prima di affrontare lÂ’ultima tappa. La Bassa Padana disponeva di monasteri, dove altri pellegrini in viaggio, rimasti ammalati o senza denaro, venivano ospitati per la stagione dei raccolti in modo che potessero risanare il loro corpo e le loro finanze, prima di riprendere il cammino verso la meta ormai vicina. La tradizione dei prodotti alimentari – come il formaggio grana - risale a iniziative che i monaci di Nonantola e della regione di Modena, Reggio o Piacenza coltivarono per secoli a favore e con la collaborazione dei pellegrini.
Sono solo alcuni accenni che suffragano quanto ha detto il Goethe, cioè che lÂ’Europa è nata dai pellegrinaggi. Per secoli gli uomini del nostro continente si sentirono ospiti, fratelli di fede (non stranieri!) anche se non riuscivano a dialogare sempre attraverso le parole ma piuttosto attraverso la stessa speranza. Si pensi che S. Bruno fece lÂ’abate alla Grande Chartreuse, presso Grenoble, e poi in Calabria, dove morì, in comunità composte di fratelli appartenenti alle più disparate regioni dÂ’Europa. LÂ’Europa era la Terra cui tutti coloro che vi abitavano si sentivano reciprocamente di appartenere.
I pellegrinaggi medievali sono stati una formidabile esperienza di chiesa: una maniera itinerante di fare chiesa, di fare esperienza del sacro, anche se nonostante tutto, lÂ’uomo medievale è stato spesso un grande peccatore (però aveva la coscienza del peccato!). La chiesa itinerante, come quella sedentaria, non è una élite di uomini perfetti.
I luoghi che furono teatro delle grandi esperienze mistiche di Benedetto da Norcia, di Brunone della Certosa, di Francesco dÂ’Assisi, di S. Ignazio di Loyola, di S. Patrizio in Irlanda e altri luoghi del sacro come il santuario di Czestochowa (Polonia) o il santuario di Mariapocs (Ungheria), diventano mete di una cultura che si fraziona su basi regionali. Si adeguano così alle sensibilità regionali, che preludono ai meccanismi degli imminenti Stati Nazionali e ad un sorprendente fiorire in Europa di identità etniche, linguistiche, dinastiche, tanto che in tempi più recenti ogni nazione coltiverà lÂ’orgoglio di un santuario nazionale principale, cui faranno corona altri santuari regionali. Un modello che dallÂ’Europa viene esportato anche fuori: lÂ’America Latina avrà il santuario di Guadalupe (Messico), di Nossa Senhora Aparecida (Brasile), gli Stati Uniti il National Shrine of the Immaculate Conception, le Filippine il Santo Niño, la Costa dÂ’Avorio Nostra Signora dellÂ’Africa.
Sotteso a questo fiorire di santuari per pellegrini è il concetto della religiosità popolare come forma di religiosità destinata alla quotidianità di un popolo cristiano che non svolge più rispetto allÂ’umanità intera la funzione di leader, che aveva svolto quando sostituì alla cultura ellenistico-romana la grande cultura tardo romano-medievale.
Forse nei meccanismi del popolo cristiano allÂ’uscita del medioevo è da vedere una carica consolatoria o quanto meno conservatrice. Le grandi filosofie rinascimentali tagliano il filo che agganciava lÂ’esistenza umana alla trascendenza filosofico-teologica del medioevo. Avviluppato nella sua ragnatela che lo imprigiona, lÂ’uomo moderno ha rifiutato di dare una risposta ai problemi che trascendono la temporalità e la precarietà, categorie esplorabili con la scienza.
Bisogna rendersi conto che al pellegrino medievale era sottesa la verifica del disegno di Dio, rivelato ad Abramo. Anche i pellegrinaggi dei popoli estranei alla cultura ebraica cercavano nellÂ’esperienza del sacro una consolazione alla precarietà esistenziale e allÂ’incertezza del futuro cui approda lÂ’esistenza dellÂ’uomo. Il colpo dÂ’ala che lancia la storia dellÂ’uomo in direzione trascendente è nato con lÂ’evento cristiano dellÂ’Incarnazione, la cui elaborazione ha prodotto i grandi sistemi speculativi, in libera collaborazione con la filosofia greca e islamica. Sono nate così lÂ’unità sociale dellÂ’Europa, nonostante le molte componenti etniche utilizzate, le forme di socialità che sono state lÂ’Impero e i comuni, le costruzioni artistiche degli stili architettonici, le liturgie monastiche e mille altre cose di chiara marca trascendente derivante dal fatto che quellÂ’umanità aveva colto e fatto proprio il senso dellÂ’essere nel mondo con destinazione ultraterrena.
LÂ’uomo del rinascimento ha reciso quel filo che scendeva dellÂ’alto e sosteneva la nostra ragnatela terrena, senza domandarsi dove immettesse. Così, prigioniero dellÂ’imminenza, lÂ’uomo ha cercato di crearsi minuscoli sacche di sopravvivenza nella sfera individuale e sociale.
I pellegrini dei secoli successivi allÂ’evento dellÂ’Incarnazione, si muovevano per agros, incontrando degli uomini con i quali comunicavano con la parola, con la testimonianza, discutendo i problemi della loro vita. Quei pellegrini non avevano bisogno di libri, perché per loro sulle pareti delle cattedrali veniva dipinta la Bibbia pauperum.
I pellegrini irrobustivano la carica di fede che portavano in sé nellÂ’esperienza vissuta nei luoghi sacri e la comunicavano alle persone che incontravano o presso le quali riposavano una notte e mangiavano il pane dellÂ’ospitalità. LÂ’Europa come cristianità è nata da processi del genere. Le elaborazioni teologiche e le stesse omelie seguivano e interpretavano una vita carica di fermenti, anche se a volte anche commista a peccati.
Oggi è entrata in crisi la chiave di lettura della vita e dellÂ’esistenza. Il pellegrinaggio ha perduto così la carica evangelizzatrice e si avvicina piuttosto a quello che era stato il pellegrinaggio dei pagani, i quali andavano ai santuari per trovarvi la risposta alle loro insicurezze, il rimedio alle loro sofferenze. Gli ex voto nei nostri santuari dicono che cosa alcuni pellegrini chiedevano: salute e benessere fisico, qualcosa di ben diverso dalla testimonianza che gli epici romei ostentavano con orgoglio di credenti in Cristo, di messaggeri del trascendente.
Il pellegrinaggio oggi è scaduto in un rito, a differenza dellÂ’esperienza di vita che era stato una volta. I pellegrini spesso sono membri di unÂ’organizzazione cattolica, ma raramente hanno la consapevolezza di essere un popolo in cammino, portatore di una proposta di vita, che per trovare credito deve possedere la forza di una testimonianza.
Vi è anche il rischio che il pellegrinaggio oggi sia una semplice forma di turismo, “un turismo religioso”. Il turista non ha quasi mai il contatto diretto con gli abitanti del paese ospitante; le organizzazioni turistiche adottano tutte le precauzioni per nascondere quello che può disgustarlo, perché egli è solo una persona che si sposta per divertirsi. Anche il pellegrino può essere soltanto un semplice turista: può arrivare in aereo o in treno, avere a disposizione vitto e alloggio, seguire con precisi orari le sue pratiche religiose, “corrette” magari con qualche divertimento, e può tornarsene a casa con lÂ’indulgenza!
Siamo molto lontani dallÂ’icona dellÂ’anonimo pellegrino russo, che così si definiva: “Per grazia di Dio sono un uomo e cristiano, per le mie azioni grande peccatore, per condizione un pellegrino senza tetto della più umile specie, che va errando di luogo in luogo. I miei averi sono un sacco sulle spalle con un poÂ’ di pane secco e una sacra Bibbia che porto sotto la camicia. Altro non ho”[4].
Un tentativo di mettere a fuoco il significato autentico del pellegrinaggio è stato fatto dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti con la pubblicazione del documento Il pellegrinaggio nel Grande Giubileo del 2000, pubblicato il 25 aprile del 1998.
Il Grande Giubileo del 2000 è stata unÂ’occasione quanto mai opportuna per vivere il pellegrinaggio secondo la sua natura. Soprattutto il Giubileo dei giovani si è svolto in situazioni nuove: da una parte, è stato presente lÂ’obiettivo dellÂ’esperienza del sacro (basti pensare alle confessioni al Circo Massimo, alla Via Crucis, al passaggio alla Porta Santa); dallÂ’altra parte, è stata vivissima lÂ’esperienza di “atto ecclesiale” - comunitario, corale – (si pensi allÂ’ospitalità che le parrocchie hanno offerto ad alcuni giovani, alla condivisione del vitto e dellÂ’alloggio sotto il cielo vissuta da altri e al rapporto da persona a persona instauratosi tra tutti i partecipanti).
LÂ’uomo del nostro tempo, che vive nel “villaggio globale”, non può evitare dÂ’imbattersi nel mistero del dolore, della precarietà e della morte; egli non può reggere a lungo lÂ’insignificanza che caratterizza i suoi giorni: ha bisogno della mediazione del sacro per dare un significato alla sua esistenza.
Il pellegrinaggio gli rivela la sua dimensione di homo viator, “straniero e pellegrino” (1 Pt 2,11) su questa terra, senza “una dimora stabile, ma in cerca di quella futura” (Eb 13,14), ove nessuno “è più stra­niero, né ospite, ma tutti saremo concittadini dei santi e fami­liari di Dio” (Ef 2,19). Ricevuta “la cittadinanza che è nei cieli” (Fil 3,20), abbandoneremo lÂ’abito da viaggio e il bastone del pellegrino “per essere sempre con il Signore” (1 Ts 4,17).


* Pubblicato su LÂ’Osservatore Romano, il 1 giugno 2001

[1] Vale ricordare la frase di Festus: “Tra gli antichi il nemico era chiamato straniero, e straniero colui che ora è considerato nemico accanito” (“Hostis apud antiquos peregrinus dicebatur et qui nunc hostis perduellis”, De verborum significatu, ed. W. N. Lindsay, Glossaria latina, Parisis 1930, IV, p. 224). Anche Cicerone ci informa: “Il nemico, infatti, presso i nostri antenati era detto colui che ora noi chiamiamo straniero” (“Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur quem nunc peregrinum dicimus”, De officiis, I, 37).

[2] Palladio, Dialogus de vita S. Johannis Chrysostomi, V (PG 47, 20).

[3] Cf R. Lavarini, Il pellegrinaggio cristiano, Marietti, Genova 1997, pp. 102-108

[4] Anonimo, I racconti di un pellegrino russo, c. I.

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