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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 86, September 2001

 

L'identità culturale 
nell'era della globalizzazione: 
tentazione nostalgica o sfida per la Chiesa?

 

Mons. Gergely KOVÁCS
Officiale del Pontificio Consiglio della Cultura

 

Sono convinto che la suggestiva tematica proposta, cioè quella dell’identità culturale nell’era della globalizzazione, meriti di essere approfondita e valutata con senso critico, da noi tutti, membri dei Dicasteri della Curia Romana, che dobbiamo, nelle nostre realtà e soprattutto nell’impegno quotidiano, confrontarci con le sfide e le conseguenze più immediate del fenomeno chiamato globalizzazione: l’omogeneizzazione degli stili di vita, dei comportamenti culturali e anche dei valori di riferimento.
In questa mia relazione, partendo da una presentazione del fenomeno globalizzazione, cercherò di approfondire la valenza culturale di esso e il suo impatto sulle culture. Infine, vorrei concludere con uno sguardo rivolto alla Chiesa.

1. Il fenomeno Globalizzazione

Per globalizzazione o mondializzazione intendiamo il processo di continua e sempre più diffusa integrazione e interdipendenza nella vita dei diversi popoli della terra. Il significato del termine è soprattutto economico e sta ad indicare la progressiva integrazione dei mercati economico-finanziari. È un fenomeno complesso e in rapida evoluzione.
Vorrei accennare ad alcune caratteristiche essenziali della globalizzazione, per offrire un quadro di riferimento in cui inserire la riflessione più specifica sull’aspetto culturale del fenomeno.
A partire dagli anni ’60 abbiamo assistito all’internazionalizzazione dell’economia, cioè alla liberalizzazione degli scambi commerciali e della circolazione dei capitali: dunque, l’economia non è più pensabile in un orizzonte ristretto ad un’area geografica o culturale, oggi si può parlare di economia solo in termini mondiali. Questo fenomeno ha un’enorme rilevanza dal punto di vista politico come anche etico.
Connesso a questo primo aspetto del fenomeno, notiamo un secondo elemento: la prevalenza della finanza sull’industria e sull’economia reale. Il mercato finanziario, cioè i flussi di capitale, è sempre più sganciato dalla produzione di beni. L’economia non si sviluppa più in fabbrica ma in Borsa, dove si decidono le sorti di migliaia di aziende.
Abbiamo, così, una terza caratteristica della globalizzazione: la smaterializzazione della produzione. Oggi l’economia non si occupa più di beni materiali, ma di prodotti finanziari, di informazioni, ecc. Ciò che conta sono le conoscenze dei gusti e delle tendenze, le informazioni relative alle possibilità dei mercati e alle preferenze che emergeranno.
L’economia di mercato sembra aver conquistato virtualmente tutto il mondo.

2. Globalizzazione, culture e cultura

L’aspetto forse più rilevante della globalizzazione ci viene offerto dal mondo della comunicazione, dai mass media. La terza rivoluzione industriale, com’è stata definita, è rappresentata dall’innovazione tecnologica dei mezzi di comunicazione e dagli straordinari progressi dell’informatica. Senza questo supporto tecnologico sarebbe difficile concepire la stessa globalizzazione.
Questa tematica è stata discussa anche recentemente, in una delle numerose iniziative in questo ambito, al Convegno di studi organizzato dall’Ufficio Nazionale per le Comunicazioni Sociali della CEI, il 29 e 30 marzo scorsi all’Università Lateranense, al quale ho partecipato.
Lo sviluppo impressionante di Internet ha reso il nostro mondo un villaggio globale, come previsto da Marshall McLuhan già nel 1964, un villaggio in cui tutti possono, in tempo reale, comunicare con tutti, scambiando una quantità enorme di dati in pochi minuti.
Comunque la tecnologia non è mai neutra. Basta considerare che nel 1995 ogni 100 abitanti degli Stati Uniti possedeva 85 televisori e 60 linee telefoniche, mentre in Sierra Leone (Africa Occidentale) si contava solo un televisore ogni 100 abitanti! Sempre nel 1995, il 15% della popolazione mondiale possedeva il 75% delle linee telefoniche, mentre oltre il 50% non aveva mai fatto una telefonata!
L’immensa quantità di comunicazione, paradossalmente, comporta un altro problema: alla frequenza e alla velocità delle comunicazioni non corrisponde la qualità e la profondità della comunicazione.
Queste considerazioni devono spingerci a riflettere sull’uso delle nuove tecnologie e sul tipo di comunicazione, e quindi di cultura che da esso può derivare. Infatti, possiamo parlare di media non come semplici strumenti, ma come forme culturali, e in parallelo, di una «cultura mediale» come cultura specifica, che oltretutto tende a diffondersi e a diventare dominante (cfr. Francesco Casetti, Protettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore).
Già nel Documento del Pontificio Consiglio della Cultura dal titolo Per una Pastorale della Cultura, pubblicato due anni fa (23 maggio 1999), si notava: Un fatto richiama in particolare l’attenzione dei responsabili della pastorale, la cultura diventa sempre più globale sotto l’influsso dei mass media e della tecnologia informatica (n.33).
Una delle preoccupazioni della Chiesa circa la globalizzazione è proprio il fatto che essa è divenuta un fenomeno culturale, come ha voluto recentemente sottolineare il Santo Padre nel suo Discorso ai Membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (27 aprile 2001): Ciò che sta accadendo è che i cambiamenti nella tecnologia e nei rapporti di lavoro si muovono troppo velocemente perché la cultura sia in grado di rispondere (n.3).

3. Europa, Globalizzazione e Culture

Ora, si pone chiaramente la domanda: se la cultura diventa sempre più globale, in quali termini si può oggi parlare di identità culturale? Il problema vale per tutto il pianeta, ma io vorrei limitarmi all’Europa, anzitutto all’Europa Centro-Orientale, che conosco meglio. In sostanza la domanda si presenta così: nell’Europa avviata verso l’unificazione rimane ancora spazio per le identità culturali? Se sì, quale?

3.1 L’identità europea

La domanda sulle identità culturali trova la sua motivazione nel fatto che oggi, nell’Europa avviata verso l’unione politica ed economica, si parla sempre più spesso di una identità europea e sempre meno dell’Europa dalle diverse identità culturali.
Indubbiamente, la specificità dell’Europa è culturale, prima ancora che politica. Non si può parlare di sviluppo politico, economico e sociale senza fare i conti con lo sviluppo culturale. La generalizzazione degli scambi con altri Paesi, lo sviluppo dei viaggi e del turismo in genere, l’espansione del commercio internazionale, la diffusione di nuovi modelli di vita, di costumi, di costumi secolarizzati, nonché il miglioramento del tenore di vita segna certo il passo di questo sviluppo culturale. Il dibattito sull’avvenire dell’Europa non può non affrontare la questione più generale della sua identità, prima ancora della sua forza economica e del suo sviluppo economico.
Nel Consiglio d’Europa, creato prima della Comunità Europea, la cultura è uno dei capitoli principali. Vorrei solo ricordare che Konrad Adenauer già in un discorso del giugno 1919, invocava la necessità della creazione di una comunità di nazioni per la salvezza dell’Europa, basata non soltanto sugli interessi economici, ma anche su un avvicinamento culturale. Perciò egli invitava a riconoscere e coltivare gli aspetti comuni della cultura europea (W. Weidenfeld, Seine Sorge hieß Europa: Konrad Adenauer, in: THOMAS JANSEN-DIETER MAHNKE (ed.), Persönlichkeiten der europäischen Integration. Vierzehn biographische Essays, Bonn 1981).
Ma posso citare anche l’affermazione di Robert Schuman, che nel suo libro sull’Europa scrive: l’Europa, prima di essere un’alleanza militare o un’entità economica, deve essere una comunità culturale nel significato più alto che questa parola (R.SCHUMAN, Per l’Europa, Roma 1965, p.59).
L’intenzione di creare gli Stati Uniti d’Europa non può eludere la domanda sulla identità culturale. Il progetto della Casa Europa si lega strettamente alla questione di un’identità culturale europea. La domanda riguardo a tale identità non può essere ignorata, anche se non è facile definirla.
Sono numerose le iniziative: convegni, incontri e riunioni incentrati su quest’identità. Qui vorrei solo menzionare la serie di tre Colloqui organizzati dal Segretariato generale del Consiglio d’Europa sull’identità europea. La prima parte, svoltasi il 17 e 18 aprile scorsi, è stata dedicata alla nozione d’identità; la seconda il 20 e 21 settembre prossimi, tratterà la questione delle identità culturali e dell'identità politica europea; infine, la parte conclusiva si svolgerà l'anno prossimo sul destino comune d'Europa.

3.2 Identità culturali diverse

Sembra evidente che l’unica identità europea non deve farci pensare ad una identità culturale monolitica. Penso che la distinzione esatta e corretta sia suggerita dal titolo del Colloquio internazionale promosso da questo Pontificio Consiglio della Cultura, che si terrà la settimana prossima, il 15 e 16 maggio, a Bucarest. Il titolo è: Europa. Verso l’unione politica ed economica, nella pluralità delle culture. 
Il luogo scelto, la Romania, vuol essere un richiamo ad un altro aspetto importante: il problema di un progetto culturale europeo non avrà mai una risposta positiva sino a quando non sarà chiaro che non può limitarsi alla Comunità Europea, ma deve comprendere anche i Paesi centro-orientali.
Non possiamo negare che le vicende degli ultimi anni, che hanno sconvolto l’Europa centro-orientale, e che non sono ancora finite, siano da ricondurre proprio alla questione dell’identità culturale. L’esplodere delle questioni nazionali o delle minoranze e penso per esempio alla disgregazione della Jugoslavia o della Cecoslovacchia, oppure al conflitto in Kosovo ha come radice e forza motrice il fatto di sentirsi minacciato nella propria identità culturale, identità che si cerca di mantenere e proteggere, creando uno Stato nazionale, staccandosi dallo Stato multinazionale.
Il problema è acutamente presente anche in altri Paesi europei centro-orientali, anche se, grazie a Dio, non in forme belliche. Altrettanto vero è che nemmeno l’Europa Occidentale manca di considerevoli tendenze d’opposizione al formarsi dell’Europa unita. E qui basta pensare al devolution del Regno Unito che, scusate per l’espressione, non sembra tanto unito. Oppure pensiamo anche al terrorismo messo in atto da alcune frange di Paesi Baschi.
Questo fenomeno del formarsi di piccoli Stati nazionali nell’Europa Centro-Orientale e la presenza d’opposizione all’unione anche in Occidente indicano chiaramente un progetto nuovo: occorre mettere una nazione, un gruppo o lo stesso individuo in condizione di ritrovare la propria identità culturale. Si tratta di una impresa nuova. Si deve avviare un progetto che non può significare integrazione delle culture, perché va rispettato il principio dell’interdipendenza e della differenziazione. Solo riconoscendo la diversità delle culture si può rendere possibile una comunicazione proficua tra loro e solo così si può progettare un futuro, che non conduca a violenze, ma favorisca un unico progetto culturale europeo. Si deve sviluppare una politica culturale dell’interdipendenza, che renda esente e libero ogni individuo, gruppo o nazione dal timore di essere minacciato o scacciato da una altra cultura, per creare una autentica cultura del rispetto e del dialogo.
Peraltro, la questione dell’identità culturale è significativa anche per la Comunità Europea: infatti, in essa ogni popolo è minoritario. Qui si potrebbe trattare anche il delicato problema degli immigrati. Basta ricordare che solo in Germania vivono più di tre milioni di musulmani che conservano la loro identità. Oppure possiamo pensare alle affermazioni del Cardinale Biffi di alcuni mesi fa sull’identità degli immigrati in Italia, cristiani o musulmani, che fece nascere una serie di reazioni, pro e contro.
La questione, però, non è solo internazionale: non si può parlare di Europa unita o di Europa delle diversità senza porsi il problema dell’identità culturale, cioè delle minoranze, sul piano interno di un Paese. Nel XIX secolo la maggior parte delle minoranze si trovava in Austria-Ungheria, in Russia, in Turchia, in Germania e nel Regno Unito. Dopo la prima guerra mondiale numerosi gruppi minoritari diventarono maggioritari, come in Cecoslovacchia o in Jugoslavia, mentre gruppi maggioritari divennero minoritari, come i Tedeschi in Slesia polacca o in Alto Adige; gli Ungheresi in Romania, Jugoslavia o Cecoslovacchia.
Non vorrei, certo, entrare nella sfera della politica, però è innegabile il ruolo della religione, del cristianesimo, della Chiesa nella premurosa conservazione dell’identità culturale dei diversi gruppi. Dalla Jugoslavia alla Romania, le Chiese furono e sono elementi importantissimi nella difesa e promozione dell'identità culturale. La religione è stata decisiva per la conservazione dell’identità culturale, attraverso la letteratura, l’annuncio del Vangelo, le scuole confessionali, ecc. Oggi in Bosnia è pressoché possibile identificare croato con cattolico e serbo con ortodosso, oppure in Romania rumeno con ortodosso o greco cattolico e ungherese con romano cattolico o protestante, ecc.

4. Una sfida decisiva per il Nuovo Millennio

Penso che questa breve presentazione abbia già suscitato una mezza risposta alla domanda iniziale. Quindi, per la Chiesa, parlare oggi, nell’era della globalizzazione, d’identità culturale non è per niente una tentazione nostalgica, ma una vera sfida.

4.1. Giovanni Paolo II

Nel pensiero della Chiesa, la cultura è l’elemento essenziale che costituisce l’identità della persona umana e di una comunità e che rappresenta un valore ed un diritto fondamentale. Basti pensare al Concilio Vaticano II che, nella Costituzione Gaudium et spes dedica un capitolo intero alla cultura (n.53-61), insegnamento successivamente sviluppato da Giovanni Paolo II in due interventi, pronunciati a 15 anni di distanza davanti ai due Forum internazionali più significativi: l’UNESCO a Parigi, il 1° giugno 1980, e l’ONU a New York il 5 ottobre 1995.
Il Santo Padre afferma il rispetto dovuto alle differenze esistenti tra le culture ed i popoli: Il diritto all’esistenza implica naturalmente, per ogni nazione, anche il diritto alla propria lingua e cultura, mediante le quali un popolo esprime e promuove quella che direi la sua originaria sovranità spirituale (n.8). La Chiesa, allora, nel momento in cui afferma e sostiene i diritti fondamentali dell’uomo e della comunità delle persone, afferma e sostiene il diritto di conservare e tutelare la propria cultura, di sviluppare la cultura propria di ciascuna comunità sociale in dialogo con le altre comunità, di difenderla da minacce di forzate omologazioni.
Perdere la propria cultura significa, per una persona o per una comunità, perdere la propria identità essenziale e più profondamente, perdere la propria anima. Lo spaesamento, di cui parlano filosofi e sociologi, consiste in questo: apparentemente siamo a casa in ogni parte del mondo, ma in realtà siamo senza più Paese, senza più casa e cultura, senza più una chiara identità sia a livello personale sia a livello comunitario, sociale e anche, talvolta, religioso.
Si impone, pertanto, un atteggiamento critico, capace di attento discernimento, che sappia adeguatamente valutare il fenomeno complesso della globalizzazione e le sue valenze culturali. Senza dilungarmi sulla dottrina sociale della Chiesa, sulle grandi encicliche sociali, vorrei solo brevemente citare alcuni degli ultimi documenti del Santo Padre, dove richiama l’attenzione sulla globalizzazione e i suoi effetti sulla cultura.
Nel Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, tenuto il 25 aprile del 1997, dice: Di per sé un mercato mondiale organizzato con equilibrio e una buona regolamentazione possono portare, oltre al benessere, allo sviluppo della cultura. Ci si deve però aspettare effetti ben diversi da un mercato selvaggio che tende ad omologare, in generale in senso materialistico, le culture e le tradizioni vive dei popoli; sradica i valori etici e culturali fondamentali e comuni (n.5).
Nel 1999 sono pubblicate due Esortazioni Post-Sinodali, la Ecclesia in America, del 22 gennaio, e la Ecclesia in Asia, del 6 novembre. Raccogliendo i preziosi contributi offerti dai Padri Sinodali, il Santo Padre ritorna più volte sul fenomeno della globalizzazione e sul suo strettissimo collegamento con la cultura: La Chiesa, sebbene stimi i valori positivi che la globalizzazione comporta, guarda con inquietudine agli aspetti negativi da essa veicolati. E che dire della globalizzazione culturale prodotta dalla forza dei mezzi di comunicazione sociale?. Essi impongono dappertutto nuove scale di valori, sovente arbitrari e nel fondo materialistici, di fronte ai quali è difficile mantenere viva l’adesione ai valori del Vangelo (Ecclesia in America,20). La globalizzazione culturale sta rapidamente attirando le società in una cultura consumistica globale, secolarizzata e materialistica (Ecclesia in Asia,39).
La Chiesa, dunque, è chiamata a collaborare con ogni mezzo legittimo alla riduzione degli effetti negativi della globalizzazione, quali il dominio dei più forti sui deboli e la perdita dei valori delle culture locali in favore di una male intesa omogeneizzazione (Ecclesia in America, 55).
Il fenomeno della globalizzazione è ripreso anche nell’ultima lettera apostolica, la Novo Millennio Ineunte del 6 gennaio 2001; nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2001, che porta il significativo titolo Dialogo tra le culture per una civiltà dell’amore e della pace; nel Messaggio per la 35a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, che avverrà il prossimo 27 maggio. Il tema è veramente suggestivo e ci tocca da vicino: Predicatelo dai tetti: il Vangelo nell’era della Comunicazione Globale.
Il Santo Padre non manca di ritornare sul fenomeno della globalizzazione e dei suoi effetti nel suo quotidiano magistero ordinario. Solo in queste ultime settimane ha parlato al nuovo Ambasciatore del Brasile dell’influenza della cultura globalizzatrice, influência de uma cultura globalizante (7 aprile); nel Messaggio al Card. Miloslav Vlk, Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa ha ricordato che l’Europa non può essere compresa senza le culture, le tradizioni e valori diversi dei Paesi che la costituiscono: “Tissée de différentes cultures, traditions et valeurs liées aux pays qui la composent, l’Europe ne peut être ni comprise ni édifiée sans tenir compte des racines qui font son identité originale”, (13 aprile); ai Vescovi di Panama ha sottolineato l’importanza del dialogo, rispettando, nello stesso tempo la diversità di ogni cultura: “de dilogar con todos y de construir indestructibles lazos de unidad, respetando al mismo tiempo la diversidad de cada cultura” (3 marzo).

4.2.Guardando l’attività della Curia Romana, risulta chiaramente l’attenzione sempre più crescente alla globalizzazione e ai suoi effetti, sia positivi che negativi. Non è questo il luogo, sicuramente, per ripercorrere tale attività magari dopo il mio intervento ogni rappresentante può indicare le più importanti iniziative dei singoli Dicasteri.Io vorrei presentare solamente alcune delle principali iniziative del Pontificio Consiglio della Cultura di questi ultimi anni, dedicate al problema della globalizzazione e all’importante aspetto dell’identità culturale.
Preoccupazione fondamentale del Consiglio è tutto quello che concerne l’incontro tra il messaggio del Vangelo e le culture, quindi, anche lo studio dei gravi fenomeni di frattura fra Vangelo e culture, di indifferenza religiosa e di non credenza.
Sono stati dedicati diversi colloqui internazionali al ruolo del cristianesimo per l’identità dei popoli (27-30 maggio 1993, Klingenthal, Francia), al rapporto tra fede e cultura (4-8 ottobre 1993, Chantilly, Francia), alla fede in quanto creatrice di cultura (22-25 ottobre 1995, Madrid, Spagna). Mentre da una parte c’è la costante volontà di rendere consapevoli delle radici culturali comuni (1-4 ottobre 1998, Bologna, Italia), d’altra parte non sfugge alla pluralità culturale (23-26 settembre 1999, Cadenabbia Italia), con diritti culturali per ogni nazione (8-10 ottobre 1998, Cadenabbia, Italia).
Soprattutto dal 1995 si è riservata più attenzione alla sfida del secolarismo (30 novembre – 2 dicembre, Roma Italia), al rapporto tra cultura e mass media (15-17 febbraio 1999, Salamanca, Spagna), alle mutazioni culturali di questo secolo (11-14 marzo 1999, Quebec, Canada).
Dal 7 al 9 ottobre 1999, poi, in Santafé de Bogotá, Colombia, è stato espressamente dedicato un colloquio alla diversità culturale, pluralismo e globalizzazione.
Proprio la settimana prossima avverranno due colloqui internazionali in Romania, organizzati da questo Consiglio della Cultura, ambedue con tematiche legate al nostro incontro.
Il primo, il 15 e 16 maggio, a Bucarest, ha il titolo L’Europa. Verso l’unione politica ed economica nella pluralità delle culture. I partecipanti sono uomini politici, ambasciatori, membri del Consiglio d’Europa, giornalisti, rappresentanti della Chiesa ortodossa e luterana, oltre a quella cattolica, ecc.
L’altro colloquio, che ha luogo dal 17 al 20 maggio a Şumuleu Ciuc, è un incontro dei Centri Culturali Cattolici dell’Europa Centro-Orientale e propone di esaminare proprio il servizio che questi Centri possono e devono svolgere per l’identità culturale e per il dialogo tra le culture in un modo stravolto dalla globalizzazione.
Nel mese prossimo, dal 4 al 7 giugno, si terrà a Puebla, in Messico, il primo incontro dei Membri e Consultori del Pontificio Consiglio della Cultura del continente americano. Soprattutto la prima giornata sarà dedicata al problema della secolarizzazione e della globalizzazione, secondo l’ottica della diversità delle culture per una più efficace evangelizzazione delle culture.

Conclusione

Nella mia esposizione mi sono concentrato sull’Europa, anzitutto sull’Europa Centro-Orientale, che conosco meglio, ma il problema vale per tutto il pianeta. Nel dibattito che inizierà fra qualche minuto, inviterei i presenti a parlare del fenomeno della globalizzazione e dei suoi effetti anche sugli altri continenti.
Concludendo: il fenomeno della mondializzazione dell’economia ha coinvolto, inevitabilmente, anche altre dimensioni della vita umana, manifestandosi anche a livello culturale, provocando la perdita dei valori delle culture locali in favore di una male intesa omogeneizzazione.
La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno
, ha detto il Santo Padre nel già citato Discorso ai Membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (27 aprile 2001). Gli effetti della globalizzazione sono da una parte positivi (l’opportunità epocale per la Chiesa Cattolica di proporre con mezzi straordinari il Vangelo a tutte le nazioni della terra), dall’altra negativi (il primo dell’economia e la riduzione dell’uomo alla sua dimensione di produttore-consumatore).
Da qui nasce la domanda, già anticipata dal Concilio Vaticano II, nella Gaudium et Spes, riguardo alle problematiche del nostro presente, soprattutto a livello di confronto culturale: Che cosa si deve fare affinché gli intensificati rapporti culturali non mettano in pericolo l’indole propria di ciascun popolo? In qual modo promuovere il dinamismo e l’espansione della nuova cultura senza che si perda la viva fedeltà verso il patrimonio delle tradizioni? (n.56).
I cambiamenti culturali estremamente rapidi, la uniformizzazione dei comportamenti e dei modelli culturali a livello mondiale, rendono sempre più difficile e, al tempo stesso, urgente la trasmissione dei valori evangelici, la formazione della coscienza morale.
Nel contesto della globalizzazione, la Chiesa deve basarsi sui due principi esplicitamente indicati dal Santo Padre: primo, il valore inalienabile della persona umana e secondo, il valore delle culture umane che nessun potere esterno ha il diritto di sminuire e ancor meno di distruggere (Giovanni PaoloII, Discorso ai Membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, 27 aprile 2001).
Perciò, continua il Santo Padre, la globalizzazione non deve essere un nuovo tipo di colonialismo. Deve rispettare la diversità delle culture (ibid.,n.4). occorre in primo luogo affermare l’appartenenza alla propria cultura e non perdere l’identità propria, le radici.
Concludo la mia relazione con questa convinzione: affrontare il tema dell’identità culturale, oggi, nell’era della globalizzazione, non è sicuramente una tentazione nostalgica, ma una vera sfida per la Chiesa.

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