The Holy See
back up
Search
riga

Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 90,  December 2002, p. 163-166

Invito alla commozione

di Don Giuseppe De LUCA,

presentato da S.E. Mons. Agostino MARCHETTO

Fedeli all’impegno di non dimenticare, nella nostra Rivista, la storia della pietà e la spiritualità – legata all’itinere - , presentiamo qui un bellissimo intervento del compianto don Giuseppe De Luca, che estraiamo dal suo “L’annuario del Parroco”, del 1962 (ripubblicato nel 1994, a Roma, dalle Edizioni di Storia e Letteratura, nella raccolta che porta appunto il titolo “L’Annuario del Parroco 1955-1962”, pp. 583-588).

Il Nostro esorta – da par suo – ad avere “un poco di commozione” quando si predica. Ma anche - aggiungiamo noi  - quando si parla, si disquisisce, si interviene su vari temi. E per la nostra ‘Sitz im Leben’ applichiamo pure sul mondo dei migranti ed itineranti.

Consigli validi ed esortazioni forti l’Autore ne dà, e di valore. Vedrà il lettore altresì quel che riguarda la “politica”. Egli conclude con l’appello alla santità, che diviene quasi ritornello e profezia di quanto si proclama oggi da tutti i pulpiti nostri. Che si pratichi, poi, la santità … è un altro discorso, purtroppo. De Luca, alla fine, -come egli sa fare bene – rovescia il suo dire rivolgendosi ai “preti” così: “Come faremo piuttosto a salvarci dalla commozione (visto che tutti gli uomini e le donne sono “parenti” nostri)? Leggeremo Bertoldo, come S. Filippo Neri? E non avrei dovuto più ragionevolmente mettervì in guardia contro la commozione?” (ib., p.588). Buona lettura!

Io vi esorto, o italiani, alle storie, gridò sulle soglie del secolo Ugo Foscolo. Vorrei esortarvi, o preti (notate quell’o), io vi esorto a un poco di commozione quando predicate. E mi spiego, perché non la voglio far lunga lunga, già sul cominciare.

Preparare intanto la predica. Quei preti sbrodoloni, che aprono bocca e le dànno fiato, e si parlano addosso come un bambino che mangia la minestra in brodo, si comportano malissimo. Sono inescusabili. Se fossero dotti di fama mondiale, scrittori celeberrimi, santi con l’aureola in capo già da vivi, nessuno ha il diritto, mai, di porgere la parola di Dio in vestaglia; peggio ancora, non lavati, non sbarbati, non vestiti. Dico metaforicamente, ma neppure escludo il primo senso, quello diretto, materiale. L’uomo è per una buona parte animale, e non può presentarsi sudicio, nemmeno alla mensa della Madonna e dei suoi figli. Alla mensa di Dio, un sacerdote…via, non facciamo scherzi.

Prepararla come forma, ma soprattutto come fondo. La predica dovrebbe avere una gestazione lunga, di preghiera, di pensiero, di affetti, di conoscenze concrete più che di cognizioni astratte. Quando il prete parla, dovrebbe essere un liberare l’anima sua dal suo pianto silenzioso e dalle sue guerre interiori; qualcosa come il canto del gallo nell’ora grande della notte, l’ora senza luce ma già certa del giorno, l’ora dei sogni più veri e delle partenze più subitanee e amare, molto più spesso che non si creda, della morte. Quando un prete predica, è come quando un innamorato scrive, un esploratore fa il suo rapporto, un dotto dice le sue cose, un poeta dà la versione unica e ultima di tante sue interne e discordanti modulazioni di ore giorni mesi, forse anni. Cardarelli mi diceva che una sua poesia se l’era portata in corpo sei anni, anni di giovinezza. La predica, amici, dev’essere così. E’ la nostra poesia, la nostra lettera d’amore, il nostro canto.

E non abbandonarci al dèmone del poco tempo e del mestiere. Il dèmone? Ma no, che dèmone e dèmone? Diciamo chiaro e tondo, cristianamente, il demonio. I demonii, anzi, perché sono molti; e quando è un prete in gioco, diventano una turba. Stavo per dir legione, ma mi ha interrotto l’allusione e il contesto del Vangelo.

Non son ciarle. Il primo demonio, quello della vanità. Per miserabile che sia, è un vizio ben nostro. Si riesce, e c’è della gloria, c’è della gioia, si riesce a esser casti, a essere poveri. A essere vani, meno: sembra che sia una miseria perdonabile, quasi un capriccio. Come una pettinatura un poco, appena un poco, singolare; un vezzo, un gusto personale, un tic. Non è vero. La vanità è un latrocinio in forma. La parola che noi stiamo a dire è la parola di Dio, ed è cosa dei fedeli: farcene una specie di tornaconto, noi, è orribile. Il Signore non lo perdona, i fedeli ancora meno. Il prete più buono a nulla è quello vano.

Il demonio della cultura, non è meno brutto e cattivo. Ci dice, in un orecchio, che noi dobbiamo, che noi possiamo, che l’onore di Dio vuole, che il popolo desidera, che la circostanza esige, che qui, che là, insomma bisogna “fare una bella cosa”. Citazioni rare, svolgimenti sottili, trovate spassose, passaggi sorprendenti. Fare, predicando, le montagne russe, un paesaggio pittoresco, un pranzo di campagna, una serata di gala. Dico, per ciò che è cultura. Or tutto contesto non sta, non va. La predica, anche nel fatto della cultura, è una cosa diversa da quelle ricercatezze, così meschine del resto come tutte le cose false. La somiglierà a un desinare buono, se si vuole, ma quotidiano, ma familiare. A un incontro di amici. A un discorso d’innamorati, bizze non escluse,  scontate anzi in anticipo. A una passeggiata la sera. A… ma a tutto ciò che più grande ricorre nella vita, di più grande, e non badato: mangiare, bere, amare, patire, star bene, star male. Perché farne una specie di fuor d’opera, qualcosa di strambo? Non dunque teorie e idee e immagini da fiera campestre o di grande albero,  ma quotidiana vita. Il tragico quotidiano, diceva Papini ripigliando una frase di Maeterlinck, o il comico quotidiano, direbbe Palazzeschi; noi diciamo, tanto più terra terra ma più veramente, né il tragico né il comico, ma il quotidiano quotidiano. Com’è la vita profonda, e come vuol essere Iddio.

Non dico nulla del demonio, che è un capo demonio, dell’attualità, la quale oggi si chiama la politica. Basta aver detto che questo demonio c’è, ed è forse il più affaccendato oggi, quello che ha meno da fare e fa più affari.

Ce n’è un altro, di demonio, ed è il demonio autentico, con tutta l’aria che affètta d’essersi fatto frate. Austero in viso, la persona raccolta, i gesti parchi e gravi. E’ il demonio, dice, dell’austerità del costume. Avrebbe mosso rimprovero a Gesù, perché moriva nudo. Questo demonio va a caccia dei migliori preti, e con l’aria che si è detto, mormora loro nell’orecchio di riempir la predica di ogni sorta di critiche, di censure, di rimproveri, di sospetti e dispetti. Ho sentito (e ne ho fatte anch’io) prediche, tutte un rabbioso lagno. I vecchi son troppo vecchi, i giovani troppo giovani; che dire dei bambini? perché stan lì a gingillarsi, e invece non crescono? le donne, poi, le donne? se son buone d’anima, son brutte di carattere; se son brutte, una peste; se son belle, uno scandalo; giovani, il paradiso del diavolo; vecchie l’inferno dei santi. Gli uomini di governo, gli uomini di mondo, gli uomini di casa, gli uomini di studio, gli uomini di banca, non si salva nessuno. La predica diventa un balcone, ove è sciorinata al sole la biancheria. Non la biancheria lavata, quella da lavare. Nel caso più benigno, si invitano i fedeli a lavare insieme la biancheria di tutti e di ciascuno. Così, in chiesa: dove la colpa, coperta dal sigillo di confessione, vien cancellata dal Sangue di Gesù.

Quando parlava Bourdaloue, nelle sue descrizioni tremende riconoscevano ritratti parlanti. Egli rivaleggiò con Molière, e lo attaccò alla pari; con Pascal, e lo affrontò senza restare al disotto; con La Bruyère, con Saint-Simon. La commedia, la satira, i moralisti, i memorialisti non furono più caustici e drastici. Ma era Bourdaloue. Tra lui e i suoi uditori era come se corresse una inimicizia. Non un duello, ma una battaglia, era una predica. Ecco il nemico, pare che dicesse la gente al solo vederlo salire in pulpito; se piuttosto quel motto non fu messo sul labbro suo stesso; l’avrebbe detto, facendo l’atto d’indicare il pubblico, come un generale al primo scoprire il nemico. Ma noi, in Italia, oggi, a essere spietati, dovremmo fare i secondi e tener bordone alla acredine politica, ai libelli innumerevoli che infestano la nostra vita, così scolorita e grama.

Basta con i demoii. Basta, dicevo, col parlarne. Ci sono, ci restano, e non li caccia nessuno. E’ grazia scansarli. Veniamo infine a quello che in partenza si voleva dire.

Che cosa è che fa la profonda dolcezza, la potenza senza pari d’una predica? ma è commozione. Se poi chi predica è Agostino, è Bossuet, non c’è poeta, non musicista che tenga: una predica loro è qualche cosa a cui non si resiste. Si passa da una tentazione solenne di pianto a un grido di piacere, tutte le volte improvviso e nuovo; si passa dal terrore all’estasi. Se dicessi che ad ascoltarli si nasce e si muore, sembrerebbe una frase, parrebbe enfasi; invece è la verità: qualcosa ascoltandoli nasce in noi, una grazia, una speranza, una forza; qualcosa muore, un triste passato, un’ombra, una incertezza, una viltà, un peccato.

Cari amici, quando si è (come chi scrive) in età competente, parrebbe che si dovrebbe essere mitridatizzati: pesci in bianco, ormai, puliti dalle viscere e dalle spine. Ahimé, non si è mitridatizzati: due note di Corelli e di Mozart, un passo di Vivaldi o di Bach ti levano il fiato; una apertura a caso d’un Dante, d’uno Shakespeare, d’una Dickinson, ti dànno come la sensazione fisica di riessere nel paradiso terrestre. Ad aprire Agostino o Bossuet, e non sono loro due soli sebben siano sempre pochi, il cuore trema anche più gravemente. Trema letteralmente. Si può essere vecchi quanto il mondo, sembra di nascere allora. Vecchio cucco, un’aria di musica vera mi solleva lì per lì da terra, di netto; divento anch’io un aereo, volo.

Ora io non dico che noi si possa predicando ottenere altrettanto. Cioè si potrebbe anche noi, ma a essere santi. Un santo è come uno il quale disponesse, effettivamente, nel fatto pratico, della onnipotenza di Dio, della luce di Dio, della voce di Dio, della presenza di Dio: già, della parola di Dio. Il curato d’Ars faceva parere Lamartine e Lacordaire due poveri strumenti.

Anche noi, poveri canes Domini, anche noi, amici, si può molto. Ma un patto: sentire Iddio presente; sentire quei cuori d’uomini, di  donne, di bambini, che battono. Tanta oscurità, e così poca luce. Tanta grandezza immensa di desiderii, e a stringere i conti quanta miseria. Le illusioni come la luce di un gran giorno su un gran mare, e poi le verità concrete come fiammelline trepide, che tocca ripararle con la mano contro il vento della notte. Turbamento, anche nel colmo della certezza; il vuoto, nel meglio del possesso; l’odio che sgorga livido, nell’attimo dell’amicizia; la morte, nascosta in ogni attimo; eppoi, eppoi, questo vivere che, per avere un po’ di gusto dev’essere inconsapevole, irresponsabile; questo morire, così come una lampadina si spegne, e la luce che c’era dov’è più?

E non ci si commuove? Ma allora di che cosa ci si commuove? Noi preti non si ha né la madre né il padre, né i parenti né gli amici, per essere sempre a tutti madre, padre, sposa, figlio, parente, amico. Tutte le gioie di tutti son nostre, tutti i dolori. Chi muore, chi nasce, chi sta male, chi sposa, è un nostro parente stretto, sempre. E non ci si commuove?

Vorrei terminare, amici preti, domandando: Come faremo, piuttosto a salvarci dalla commozione? Leggeremo Bertoldo, come san Filippo Neri? E non avrei dovuto più ragionevolmente mettervi in guardia contro la commozione?

La quale commozione non è sentimentalismo, nemmeno è il sentimento. La commozione è come il dolore, quand’è di quello autentico. Come è l’amore, come è la morte. Non ci si scherza, e non si riesce nemmeno a, dico seriamente, discorrerne. Io infatti vi ho appena accennato. 

top