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Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 90,  December 2002, p. 85-98

Globalizzazione, migrazioni e povertà*

(aspetti ecclesiali)

S. E. Mons. Agostino MARCHETTO,

Segretario del Pontificio Consiglio della

Pastorale per i  Migranti e gli Itineranti

I. Globalizzazione

Introduzione

Permettete allo storico che è in me, più del diplomatico, ma spero meno del pastore-Vescovo, di iniziare il mio intervento con una citazione storica, la seguente: «Il mercato domina il mondo … L’economia del pianeta si è aperta, internazionalizzata e globalizzata … L’economia è integrata. Il pensiero si è uniformizzato e la religione monoteizzata …». Vi chiedo a bruciapelo: Di che epoca pensate sia questo testo che sembra così attuale? Ebbene esso risale al 1596, alla fine del XVI sec.[1].

Aggiungerei, sperando di non appesantire questo inizio, la citazione di un grande storico contemporaneo, il Morghen. Egli scrisse: «Oggi, la comunità nazionale, le cose, i sentimenti, le idee hanno subito grandi mutamenti, ma non tali che, anche tra le rovine di tutto un mondo non sia possibile a chi, come me, è stato partecipe di quegli eventi lontani, di rendersi conto come la situazione attuale abbia tanti rapporti con gli accadimenti di ieri … D’altra parte la creazione dell’ONU, il movimento per l’unità e l’integrazione europea, il Concilio Vaticano II, segnano alcuni punti di partenza per un rinnovamento della società umana, con affermazioni, oggi teoriche, ma sempre più sentite dalle masse, di universalità e di ecumenismo, di diritti umani e di giustizia che recano il segno inconfondibile della secolarizzazione d’ideali cristiani, calati nella realtà storica, non più in contrasto col mondo, ma in accordo con la creatività positiva della civiltà umana»[2]. In tale contesto Morghen faceva eco ad Huizinga, che auspicò «un risanamento della civiltà umana nel ricupero della ragione come misura delle cose, nel campo intellettuale, ricupero che è alla base dell’atteggiamento morale di ogni comunità» e perorò altresì «un ordine mondiale in cui valga il diritto naturale delle genti, in un nuovo concetto della libertà, che non identifichi la libertà e la democrazia soltanto con l’utilità ed il benessere», e si augurò il «predominio dei milioni di uomini che hanno sete di giustizia e senso dell’ordine e della ragionevolezza e professino il culto della libertà insieme a quello dell’onestà, della fedeltà, della fiducia»[3].

Non siamo qui in piena attualità? La globalizzazione, non è dunque del tutto una novità, anche se l’era presente ha caratteristiche particolari poiché “lo spazio che si restringe, il tempo che si contrae e i confini che scompaiono stanno legando gli individui in maniera più profonda, più intensa e più immediata di quanto sia mai successo prima”[4].

Nella sua attuale fase, in effetti, la globalizzazione sta correndo più velocemente rispetto al controllo delle sue ripercussioni sulle persone e alla regolazione dei mercati, soprattutto di quello finanziario, ognor più debordante.

La “solidarietà”, in globalizzazione, secondo il Concilio Vaticano II

E veniamo al primo elemento dello svolgimento del tema che ci è stato proposto: la solidarietà (cooperazione-condivisione-dono-partecipazione-comunione, aggiungerei, e potrei continuare per far intravedere cosa sta sotto a tale concetto-realtà). L’aspetto qui è inteso però come cultura della solidarietà, come globalizzazione della solidarietà, della fratellanza.

Al cultore del Concilio Vaticano II quale mi considero, al “patito” per una sua giusta e corretta ermeneutica, concederete di citarlo qui, quel Grande Sinodo, per sottolineare che vi è solidarietà naturale e soprannaturale di tutti gli uomini e di tutte le donne in Adamo e in Cristo[5], v’è intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana. La nostra Chiesa si considera, cioè, realmente e intimamente solidale con il genere umano e la sua storia, sentendo l’anelito “verso una certa comunità universale”[6]. Insomma: “Tra i segni del nostro tempo è degno di speciale menzione il crescente ed inarrestabile senso di solidarietà di tutti i popoli che è compito dell’apostolato dei laici promuovere con sollecitudine e trasformare in sincero e autentico affetto fraterno. I laici inoltre debbono prendere coscienza del campo internazionale delle questioni e soluzioni sia dottrinali che pratiche che sorgono in esso, specialmente per quanto riguarda i popoli in via di sviluppo”[7].

Vi è qui un richiamo alla Mater et Magistra  di papa Giovanni e ai popoli in via di sviluppo, e implicitamente, in nuce, alla scelta preferenziale, non esclusiva, a favore dei poveri, senza indulgere ad un’etica puramente individualistica[8]. Si fa poi speciale menzione dei laici e ciò significa, per essi, mediazione tra principi e realtà, pluralità di pensiero, di opzioni, di soluzioni; ciò significa professionalità e “politica”. Non ci scandalizziamo dunque della pluralità, nella misura in cui dal Vangelo e dalle linee magisteriali ci avviciniamo al concreto, vissuto, complesso, mondo nostro - anche se un discorso a parte si dovrebbe però fare per l’Azione Cattolica, per il suo speciale legame con la Gerarchia -.

A questo proposito varrà ricordare il 6° punto dell’intervista concessa a Telepace dal Card. A. Sodano, Segretario di Stato, il 19 luglio 2001. Il più prossimo collaboratore del Papa rispondeva alla domanda «Come può la Chiesa aiutare la politica?» con queste precise parole: «La Chiesa è un corpo composto di tanti membri. Ognuno di questi è chiamato a collaborare alla vita pubblica. Diversa è la Missione del Papa, di un Vescovo o sacerdote, o dei singoli cristiani. Una cosa è certa: nel loro insieme i cristiani possono e devono contribuire al bene della società. In particolare è questa la missione del laicato cattolico”[9].

La “solidarietà”, su scala globale, nel Magistero ecclesiale

Dopo il richiamo conciliare eccoci a menzionare, sia pure brevemente, il Magistero pontificio ed episcopale, cioè la Dottrina sociale della Chiesa, su tale tema, che diventa ognor più sviluppato e di difficile raccolta sotto un solo sguardo d’insieme[10].

Senza dimenticare Pio XII, nei suoi famosi discorsi natalizi, partirei dalla citazione della Pacem in terris di Papa Giovanni (“le economie nazionali stanno diventando così interdipendenti che una specie di economia mondiale è nata dalla integrazione delle economie dei singoli Stati”[11]) per arrivare ai ripetuti richiami, circa l’ambivalenza della globalizzazione, da parte di Giovanni Paolo II e al suo invito accorato a globalizzare appunto la solidarietà, senza marginalizzazioni. Vi consiglio, a questo riguardo, di consultare la “sintesi” di vari Autori dal titolo “The social dimensions of globalisation”[12].

In special modo varrà esaminare l’applicazione di alcuni dei principi permanenti della Dottrina sociale cattolica alle manifestazioni odierne della globalizzazione[13]. Mi riferisco alla Chiesa come attore globale con responsabilità globali, all’umanità vista quale unica famiglia, alla “globalizzazione in solidarietà”, appunto, alla questione sociale che concerne tutti, alla necessità di non assolutizzare l’economia e il mercato. Ancora mi riferisco alla centralità della persona umana e al bene comune universale (globale)[14], nonché alle strutture indispensabili per garantirlo, e alla destinazione universale dei beni creati.

Sempre nell’impegno di pensare la globalizzazione in termini cristiani, varrà prendere in considerazione un saggio del Card. Dionigi Tettamanzi dal titolo “Globalizzazione e pensiero cristiano”[15], e il suo volume: “Globalizzazione, una sfida”[16]. Interessante risulta pure l’intervento del Card. F. X. Nguyên Van Thuân sulla “new economy”, nel contesto sempre della Dottrina sociale della Chiesa[17], mentre ci permettiamo di citare pure il nostro studio “Al centro l’uomo, immagine di Dio”[18]. Comunque, in relazione alla globalizzazione, credo bisognerà elaborare una nuova frontiera di tale Dottrina[19].

A questo proposito si rivela un interesse anche da parte almeno di un settore del mondo islamico, da quanto risulta dalla VII riunione del Comitato congiunto islamo-cattolico,  svoltasi in  Vaticano, dal 3 al 4 luglio 2001, sul tema: “Religione e dialogo di civiltà in un’era di globalizzazione”[20].

La globalizzazione secondo Giovanni Paolo II

In ogni caso varrebbe la pena rivisitare tutto il discorso di Giovanni Paolo II ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali del 27 aprile 2001[21]. Ve ne leggo anzitutto il passo per me centrale: «La globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno. Nessun sistema è fine a se stesso, ed è necessario insistere che la globalizzazione, come ogni altro sistema, dev’essere al servizio della persona umana, della solidarietà e del bene comune»[22]. Aggiungo la lettura di qualche altro breve tratto del menzionato discorso, assai significativo: «La globalizzazione non dev’essere una nuova versione di colonialismo … deve rispettare le diversità delle culture … L’umanità nell’intraprendere il processo di globalizzazione non può più fare a meno di un codice etico comune»[23].

E’ qui richiamato -avete sentito- un elemento fondamentale di umanizzazione della globalizzazione, l’etica, che il Santo Padre menzionò nuovamente in vista del G8, all’Angelus dell’otto luglio u.s., unendosi Egli ai Vescovi liguri che «esprimono l’urgenza di risvegliare in tutti, a partire dai responsabili della cosa pubblica, un sussulto di nuova “moralità” di fronte ai gravi e talvolta drammatici problemi di ordine economico-finanziario, sanitario, sociale, culturale, ambientale e politico … Per questo i popoli più ricchi e tecnologicamente avanzati … devono saper ascoltare il grido di tanti popoli poveri del mondo; essi chiedono, semplicemente, ciò che è loro sacrosanto diritto»[24]. Il pensiero è ripetuto con convinzione nel discorso pontificio indirizzato al Presidente statunitense G. Bush, in questi termini: «La rivoluzione delle libertà … deve essere ora completata da una rivoluzione delle opportunità, in cui tutti i popoli del mondo possano attivamente contribuire alla prosperità economica e godere dei suoi frutti … un mondo globale è essenzialmente un mondo di solidarietà!»[25].

Nella stessa linea, direi, il Card. F. X. Van Thuân, auspicava che la “new economy” non sia autonoma dall’etica. “La finanza in quanto tale deve [cioè] scoprire la sua eticità”[26]. Conferma ne viene da un altro fronte, pur degno di tutta attenzione, dal titolo di un elzeviro di A. Fazio: «Senza morale niente mercato»[27]. E’ notevole affermazione per un economista. Tale elemento morale, solidale, deriva anche dal servizio che la globalizzazione dovrà offrire a tutta la persona umana e a tutte le persone[28],  e qui sorge un aggancio logico tra mondializzazione e democrazia, tema che però non affronteremo[29]. Si tratterebbe comunque di democrazia solidale e plurale (associativa, la dicono alcuni).

Considerazioni del Magistero sulla necessità di una “governance” della globalizzazione (cooperazione globalizzata)

Alla richiesta di “governance” del fenomeno in parola, formulata da molti, come risponde il Magistero? Ebbene ecco l’affermazione di Papa Giovanni Paolo II: “La globalizzazione della solidarietà esige una nuova cultura, nuove regole, nuove istituzioni a livello nazionale ed internazionale”.[30]

L’esigenza di “un’autorità politica mondiale” è stata poi richiamata anche dal Card. F.X. Nguyên Van Thuân, sempre nel citato articolo sulla “New economy”[31], ma avvertendo egli che governance non significa automaticamente government. Ecco le sue precise parole: «La governance della nuova economia ha bisogno, però, anche delle strutture giuridiche e politiche, capaci di orientare al bene comune le immense potenzialità della nuova economia. Questo, nella consapevolezza che l’uomo, come dice la Centesinus annus, è “santo e peccatore” nello stesso tempo. La Dottrina sociale della Chiesa continua a sostenere l’esigenza di una “autorità politica mondiale”, - Giovanni XXIII, Pacem in Terris, 137 -  maggiormente richiesta oggi dato che i fenomeni della nuova economia sono, appunto, mondiali. Ma governance non significa automaticamente government. I principi di gradualità e di sussidiarietà chiamano in causa sia il realismo con cui procedere, facendo lievitare gli strumenti internazionali attuali migliorandone il funzionamento e i rapporti reciproci, sia la necessità di responsabilizzare ed abilitare all’azione attori molteplici. Si nota la necessità di aumentare “la concertazione tra i grandi paesi” – Giovanni Paolo II, Centesimus annus, N. 58 –, di trasferire conoscenza e tecnologia nei paesi poveri (dato che “il facile trasferimento delle risorse e dei mezzi di produzione” – Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali del 25 aprile 1997, N. 4 – reso possibile dalle nuove tecnologie può oggi facilitare simili processi di solidarietà sussidiaria), di raccordare meglio le iniziative delle Istituzioni Finanziarie Internazionali con gli autentici bisogni dei paesi poveri e con gli attori della società civile di quei paesi».

Anche il Sig. Card. C.M. Martini ha invocato, or non è molto, “un’ authority mondiale al disopra delle parti” per governare la globalizzazione[32], mentre, se è lecito citarsi e parva componere magnis, faremmo qui menzione anche del nostro intervento “Al centro l’uomo, immagine di Dio”[33]. Qui però ci fermiamo, pur potendo continuare nelle citazioni.

II. Migrazioni

Inizio la trattazione di questo II° punto del nostro tema con una connessione (che forma un trinomio) fra diritto (dei migranti) - dovere (di chi accoglie) e diritto (dello Stato che riceve).

Mentre appare ormai ampiamente comprovato il fatto che i Paesi ricchi diventano sempre più ricchi e quelli poveri sempre più poveri, si è constatato, quale conseguenza,  che molte persone dai Paesi poveri decidono  (o sono obbligate) di trasferirsi in quelli ricchi. L'ONU, a questo riguardo, stima che nei prossimi cinquant'anni dovrebbero entrare in Europa almeno 160 milioni di immigrati, per mantenere i suoi equilibri interni demografici e occupazionali.

Ebbene, si tratta di una invasione dalla quale i ricchi sono chiamati a difendersi? Oppure i poveri hanno il diritto, appunto perché poveri, affamati e ammalati, di entrare nella società del benessere? Di accedere anche così alla globalizzazione?

Da parte nostra citeremo a risposta il Concilio Vaticano II, - poiché trattiamo gli aspetti ecclesiali di fenomeni odierni - punto di sicuro riferimento in vasto pelago di opinioni, che elaborò importanti linee di pensiero e direttive anche circa la realtà migratoria. Esso invita i cristiani a conoscerla (GS, 63) e a rendersi conto dell’influsso che l’emigrazione ha sulla vita individuale. Sono ivi ribaditi il diritto all’emigrazione (GS, 65), la dignità del migrante (GS, 66), la necessità di superare le sperequazioni nello sviluppo economico e sociale (GS, 63) e di rispondere alle esigenze autentiche della persona (GS, 84). Vi è riconosciuto però, all’autorità civile, il diritto alla regolamentazione del flusso migratorio (GS, 87). Il popolo di Dio deve quindi sentirsi impegnato ad assicurare in tutto ciò il suo apporto generoso e i laici cristiani, soprattutto, sono chiamati ad allargare il loro impegno e la loro collaborazione nei settori più svariati della società (AA, 10), facendosi “prossimo” del migrante (GS, 27). Le Conferenze episcopali devono essere altresì sollecite al riguardo e ampliare la loro attenzione ai problemi non solo dei migranti economici, ma anche degli esuli, dei profughi, dei marittimi, degli addetti ai trasporti aerei, dei nomadi, dei turisti (CD 18).

Il Concilio ha segnato dunque un momento “magico” per la cura pastorale dei migranti e degli itineranti, soprattutto per la sua visione rinnovata, nella continuità, dei relativi problemi ecclesiali ed umani. Particolare importanza vi è data infatti al cammino che la Chiesa deve percorrere nella sua missione, accanto ad ogni uomo, al significato della cattolicità intesa come “cittadinanza” che ogni fedele gode nella Chiesa (LG, 3), al senso altresì della parrocchia, intesa più come comunità di persone che come pura territorialità, alla visione della Chiesa come mistero-comunione della presenza di Dio che ha posto la sua tenda fra gli uomini, per cui essa appare quale “popolo che deriva la sua unione dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG, 4).

D'altra parte, considerando la storia, si può notare che, nel suo corso, fenomeni migratori sempre ci furono, talvolta con effetti positivi, in altri casi traumatici. Sembra assodato, comunque, che una accoglienza, graduale e ordinata nel tempo, fa progredire il senso umanitario generale e aumenta il potenziale produttivo in campo economico, con arricchimento anche degli scambi sociali. Ma non vogliamo invadere campo di riflessione altrui, pur considerando che l'Europa potrebbe trarre benefici dall'immigrazione.

Senza nasconderci cioè gli aspetti problematici che l'emigrazione porta con sé, ma sgomberando il campo da alcuni equivoci e pregiudizi, resta, su questo punto, una domanda molto concreta che vi faccio: una persona umana in stato di bisogno ha il diritto di essere accolta? Il fatto che abbia un evidente bisogno di aiuto, le dà il diritto di essere oggetto di attenzione?

Si afferma che la libertà è agire senza nuocere agli altri. Ma il non risolvere la situazione disumana dell'altro non è già un nuocergli? Come sempre, la cosa più difficile è conoscere l'altro per quello che è, sentire il dovere di “vedere” la sua fatica e liberarci, noi, da quelle barriere e dai pregiudizi che deformano e fanno considerare gli altri diversi da come sono in realtà.

E se facciamo attenzione alla vita di coloro che vengono a casa nostra, avremmo modo di “vedere” che nei loro Paesi si muore di fame, mentre da noi molti si ammalano per ipernutrizione; da loro il denaro sta spesso tutto in un portamonete, mentre noi, molti di noi, col nostro denaro, riempiamo le casse di una infinità di banche; da loro poi, sovente, non c’è libertà, mentre da noi se ne abusa.

La seconda connessione a cui faccio solo cenno è quella tra minaccia (dei migranti) e paura (di chi accoglie) nel suo aspetto generale. Si tratta di minaccia e paura per motivi socio-economici (criminalità). Vi sono, in merito, - è evidente - alcune paure provocate da luoghi comuni e affermazioni, più o meno diffusi nell'opinione pubblica, che sarebbe necessario verificare nella realtà dei dati. Non lo possiamo però qui fare. Ma ci soffermiamo, invece, perché vi è un aspetto ecclesiale, sulla minaccia e paura legate a motivi religiosi.

Si considera cioè principalmente il fatto che molti immigrati in Europa sono islamici, il che fa temere una subdola invasione della cultura e della religione che si rifà a Mohammed.

Le complicazioni della storia recente (non ultima quella dovuta all’attentato, terribile, dell'11 settembre) hanno acuito, certo, in molti la percezione di una opposizione quasi radicale e di una frattura direi insanabile tra mondo occidentale (mondo cosiddetto cristiano) e islamico. Ma le radici del conflitto - sappiamo - stanno lontano.

Tenuto conto che esso, da sempre, maschera spesso contenuti e motivi di altra natura (economica e politica), oggi sembra più che mai necessario cercare, invece, con gli islamici, un dialogo, un confronto sereno, lucido e pacato, puntando, peraltro, sul principio della reciprocità. E' vero, comunque, che alcuni Paesi mostrano di sostenere (grazie alle risorse derivanti specialmente dal petrolio) movimenti integralisti, che giungono a forme di terrorismo contro il mondo occidentale, motivato da fanatiche considerazioni, nelle quali si mescolano citazioni del Corano ed espressioni di vendetta per i «soprusi subiti dagli sfruttatori dell'Occidente», oltre alla volontà di ripulire «la corrotta civiltà consumistica dell'Europa e degli Stati Uniti», come ripetutamente affermò Ben Laden.

Ma se, da parte nostra,  commettiamo l'errore di considerare l'integralismo come espressione unica dell'Islam, non faremo che rinforzare proprio gli integralisti che  vogliono, per l'appunto, non apparire frangia isolata, ma essere, invece, “coscienza” di tutto il mondo musulmano. Esso, al contrario, si presenta come un arcipelago di mentalità e convinzioni  tra loro, a volte, molto diverse.

E' anche vero, però, che nell'islam v’è un nucleo di religiosità «dogmatica». Il sistema teocratico che lo caratterizza deve, però, non farci dimenticare situazioni analoghe vissute in passato. Se da un lato, dunque, fa paura il musulmano «ipnotizzato» da un tipo di religione che propone come «credere, obbedire e combattere» (… e morire: vedi i recenti atti di terrorismo dei “martiri” islamici), va anche detto che vi sono musulmani usciti da tale «gabbia» e da questo limite, pur rimanendo musulmani. Perché non sperare dunque in una evoluzione simile a quella che ha portato i Paesi occidentali all'attuale tolleranza e “moderazione”? Anche per essere vissuto qualche anno nel Maghreb ho peraltro ben presente tutta la problematicità della cosa.

Per un cristiano, tuttavia, la dimensione di fede porta ad un atteggiamento specifico. Se consideriamo, di conseguenza, l'umanità come famiglia di Dio, allora l'imperativo che ci viene dal Vangelo è almeno quello di trattare gli altri come vogliamo che gli altri trattino noi.

La Chiesa poi è cattolica anche perché va verso ogni uomo e donna, a curare, come buon samaritano, le ferite di ciascuno. La Chiesa cattolica si propone altresì di incontrare tutti e ognuno senza distinzioni o preferenze: «Nella Chiesa nessuno è straniero» (Paolo VI). Pertanto, di fronte all'immigrazione e alle altre religioni, tutti noi abbiamo una straordinaria occasione di incontrare gli altri, di offrire a tutti il nostro amore e il nostro servizio e testimoniare così il Vangelo nel rispetto della libertà, in una missione che ha portato ormai fin qui, in Europa, le sue tende, proprio a causa delle migrazioni. L’evangelizzazione dei lontani, fatti vicini, batte alla porta della nostra mente e del nostro cuore.

 Per una accoglienza umana e cristiana

Ricevere gli immigranti, dunque, è risposta a un diritto da parte loro, con dovere da parte nostra, in mediazione politico-legale (con regolamento statale dei flussi), nel rispetto dei diritti umani, ma è soprattutto, la nostra risposta, una cartina di tornasole della coscienza e responsabilità cristiana. «Il principio fondamentale per accostare il problema dell'accoglienza  degli  stranieri - affermò il Card. Martini - è un'apertura dello spirito a cogliere, nel particolare evento epocale, una circostanza provvidenziale, un invito ad un mondo più fraterno e solidale, ad una integrazione che sia segno della presenza di Dio tra gli uomini (…). L'annuncio evangelico chiede di rompere ogni complicità con atteggiamenti razzistici e di fare nostra  l'utopia di una fraternità universale (…). La presenza degli stranieri nelle nostre città è, dunque, un prezioso segno dei tempi, che sveglia le nostre coscienze (…), non deve essere vista perciò come fenomeno fastidioso, inopportuno o come minaccia per il futuro; al contrario, questa presenza è una 'chance' per rinnovare la nostra cultura e la nostra fede» (cit. da «Nuovi Orizzonti Europa», gen.-feb. 2002).

L'Europa di oggi, senza negare le sue radici cristiane che dovrebbero avere un riverbero anche nei futuri testi istituzionali europei, si presenta già come continente multietnico, multiculturale e multireligioso. Siamo confrontati infatti con l'intensificarsi dei flussi migratori di minoranze etniche sempre più differenziate, la presenza massiccia di migrazioni non cattoliche e non cristiane, l'esigenza della difesa dei diritti umani, anche religiosi, dei migranti, quelli legittimi, la promozione di un dialogo complesso e difficile, con mediazione culturale e politico-legislativa.

Le migrazioni spingono così a domandarci quale tipo di società stiamo costruendo o vogliamo costruire e, nello stesso tempo, chiedono che si progetti una società nella quale si allarghino gli spazi di appartenenza e di partecipazione e si restringano quelli di emarginazione e di esclusione.

L'obiettivo di fondo e la sfida, per i Paesi occidentali, sono dunque la costruzione di una «società integrata». Questo richiede non tanto la difesa di culture e religioni contrapposte, quanto piuttosto l’impegno per l'incontro delle culture e il dialogo interreligioso per favorirne, nel rispetto di ciascuno, la relazione, lo scambio, il rapporto, nella pace e nella giustizia.

Per la stessa Chiesa in Europa le migrazioni diventano così il terreno quotidiano dove verificare le sue capacità di dialogo (non solo interreligioso). E’ questa inoltre la realtà su cui basare una educazione capace di trasformare la coabitazione sul medesimo territorio in luogo di tolleranza, di convivialità e di solidarietà cristiana. La Chiesa partecipa così, con attenzione e sollecitudine, all'allargamento della comunità internazionale nelle sue varie forme, mentre vi intravvede la propria tensione a creare unità nel genere umano, in giustizia e carità, una famiglia di Nazioni e di popoli, la famiglia umana.

La Chiesa intende abbracciare il mondo intero nel desiderio e nella disponibilità all'accoglienza, ricordando che è proprio un valore della tradizione cristiana accogliere il pellegrino, difendere l'ospite, sostenere la persona che ha bisogno. Diversamente trasgrediremmo il comando stesso di Dio: «Amate dunque il forestiero, poiché anche voi siete stati stranieri nel Paese d'Egitto» (Dt 10,19). E quanti furono gli italiani, per stare al nostro Paese, che migrarono nel corso dei cinquant’anni a cavallo del secolo XIX-XX? Si calcola che il 25% della popolazione in quel periodo prese il cammino delle Americhe. L’Italia ha quindi vissuto in carne propria il fenomeno dell’emigrazione, sanguinandone.

 Le odierne migrazioni spingono dunque la Chiesa e i cristiani verso  una visione e un impegno sempre più universali. Essa deve, in ogni tempo e luogo, accettare in effetti il giusto pluralismo, - voluto da Dio stesso, creatore di tutti gli uomini e di tutte le razze umane - allargando l'ambito della sua presenza fino ai confini della terra, per portare il messaggio di liberazione e di grazia, dell'amore fraterno, riflesso dell'Amore infinito ed eterno di Dio.

III. Povertà

Per il III° ed ultimo punto del nostro tema, in cui sarò più breve che in precedenza, mi rifaccio al mio intervento in occasione della XXVIII Sessione del Comitato FAO sulla Sicurezza Mondiale Alimentare, che ha preparato il suo recente Vertice, quello “Mondiale sull’Alimentazione – cinque anni dopo”.

Tale riunione, oltre le critiche, ha offerto l’occasione agli Stati partecipanti di nuovamente “volere” – termine questo che forse può riassumere tutte le conclusioni del Vertice stesso – contribuire, ciascuno e tutti, a ridurre alla metà il numero di coloro che soffrono la fame e la malnutrizione entro il 2015.

In effetti il bilancio dell’ultimo anno sui livelli di sicurezza alimentare nel mondo, fornitoci dalla FAO, evidenzia un allargamento delle situazioni che producono l’insicurezza alimentare. Ancora una volta ci troviamo di fronte a dati che mostrano in tutta evidenza le cause della fame, fattori naturali e quelli dovuti all’azione dell’uomo che la determinano, e ancora l’ampiezza dei bisogni di popolazioni poste ai margini degli elementari processi di sviluppo. Parliamo così di marginalizzazione crescente, di esclusione, di discriminazione quanto al godimento del fondamentale diritto di persone e popoli, ad essere liberi dalla fame, dalla carestia. E questo in un contesto nel quale i consumi tendenzialmente aumentano, a livello mondiale, e la crescente globalizzazione dei mercati di fatto renderebbe disponibili alimenti in ogni angolo del pianeta.

Diventa allora essenziale il riferimento ai modelli di consumo delle aree più sviluppate che rischiano di far dimenticare la necessità di un impegno per ridurre la fame.

Orbene, uno degli strumenti che sembra utile, anzi indispensabile, in tale lotta, risulta essere la creazione di un concorrere unanime di quanti operano nel contesto delle relazioni internazionali e nel particolare settore della cooperazione allo sviluppo, quello sostenibile naturalmente. Questa “coalizione”, chiamiamola così, o alleanza,  se vuole essere efficace va poi percepita non tanto come un nuovo impegno per gli Stati, quanto come una metodologia, una strategia di intervento, resa necessaria dalla complessità dell’obiettivo – eliminare la fame, appunto – e dall’ordine delle cose. Infatti se appare essenziale l’apporto dei Governi, non sfugge il dato che, alla finfine,  solo una capacità di stimolo e pressione positiva delle opinioni pubbliche può garantire un concreto, voluto, continuo, vigilante  impegno governativo.

E’ indispensabile altresì il ruolo delle Organizzazioni intergovernative, ad iniziare dalla FAO, per la loro capacità di conoscenza delle situazioni, di analisi dei diversi fattori e di progettualità.

Evidentemente al centro di ogni preoccupazione ed azione, di politica interna o internazionale, deve esserci tuttavia, sempre e ancora, la persona umana, con la sue esigenze, tra le quali svetta anche il diritto alla nutrizione, che promana da quello alla vita. Non si tratta  dunque di un’astratta lotta contro la fame, pur se tecnicamente fondata e strutturata. Si tratta della “causa dell’uomo”. Orbene solo questa dimensione di azione unitaria e coordinata può trasformare l’idea di una “coalizione contro la fame” in una realtà viva e concreta, per eliminare, o almeno ridurre, una situazione indegna dell’uomo, una condizione di scandalo, per noi, in cui versano milioni di nostri fratelli e sorelle. Già questa convinzione, che sappiamo presente nel cuore di tutti, nonostante tutto, se fatta valere sul tavolo del negoziato, delle decisioni e dell’azione convergente e conseguente può far superare quelli che pur sembrano ostacoli insormontabili, può eliminare, o almeno attenuare,  l’egoismo nelle sue diverse forme, che porta solo a guardare a noi stessi e non intorno a noi, agli altri. Si aprirebbe così la strada a decisioni coraggiose, che vincano l’abitudine allo scandalo, al male.

La Chiesa, la Santa Sede, come è evidente, ha rivolto così un appello accorato e pressante a tutti e a ciascuno, un appello la cui forza non risiede su una capacità ecclesiale di ordine politico, né su fattori economici. Esso è fondato unicamente sull’amore e la compassione che portiamo per la “causa dell’uomo”, per ogni uomo e donna che viene a questo mondo bellissimo e tragico ad un tempo. La forza del nostro appello non è per questo minore, anche se essa non è valutabile nell’immediato, ma lo sarà pienamente nel giudizio della storia.

Eliminare la fame, in astratto, forse può essere difficile, ma consentire, invece, ad ogni persona di disporre, nel concreto, del pane, del cibo quotidiano, è necessario, è indispensabile ed è possibile, lo sappiamo.

Concludo con la mia impressione, che vi confido, al termine del servizio durato 3 anni presso gli Organismi della famiglia delle Nazioni Unite a Roma, quella di un grande egoismo da parte dei Paesi ricchi, in genere, in relazione a quelli poveri. Ciò non significa che niente si faccia a questo riguardo, ma, sì, ancora assai poco in relazione alle immense necessità degli affamati, dei malati e degli analfabeti, per ricordare le categorie più bisognose di autentica liberazione. In ogni modo le situazioni che esistono all’interno dei Paesi in via di sviluppo o di transizione, e che pur potrebbero almeno qualche volta scoraggiare gli aiuti e la cooperazione, non giustificano il mancato raggiungimento dello 0,7% del Pil nell’aiuto allo sviluppo dei Paesi arretrati (Paolo VI aveva chiesto però l’1%) e la non eliminazione del debito estero (a date condizioni, con corrispondente impegno concreto, per es., per la salute e l’educazione nazionale) dei popoli più derelitti.

Grazie dell’attenzione e del vostro impegno a favore della promozione umana, che ha legami profondi ed inscindibili con la causa del Vangelo di Cristo.
 

*Intervento a Loreto, il 13 settembre 2002.

[1] V. Projet N. 262, del giugno 2000, pp. 49s.
[2] R. MORGHEN, Per un senso della Storia. Storici e Storiografia, Marcelliana, Brescia 1983, p. 56.
[3] Ib., p. 211.
[4] Rapporto UNDP 1999 su Lo sviluppo umano 10. La globalizzazione, Rosenberg and Sellier, Torino 1999, p. 17.
[5] v. Proemio della Gaudium et spes e suoi NN. 32 e 22, nonché Lumen gentium NN. 1, 7 e 13.
[6] Gaudium et spes N. 9; ciò che vi si oppone è descritto al N. 8.
[7] Apostolicam actuositatem N. 14.
[8] Cfr. Gaudium et spes N. 30. Vi sono naturalmente tanti altri passi della Gaudium et spes che si potrebbero citare in questo contesto.
[9] V. L’Oss. Rom. del 21 luglio 2001, p. 2.
[10] Per uno sguardo panoramico della bibliografia più recente sul tema della solidarietà rimando – senza esprimere un giudizio critico al riguardo – alla sintesi di Eros Monti, apparsa su “Orientamenti bibliografici e programma dei corsi: Diocesi insieme” della Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, N. 12 (2001), pp.34-38. Cito comunque, dell’A., Alle fonti della solidarietà.  La nozione di solidarietà nella dottrina sociale della Chiesa (Dissertatio, Series romana, 25), Glossa, Milano 1999, pp. 532; e inoltre di Mons. Marcelo Sánchez Sorando, Globalizzazione e Solidarietà, Vatican City 2002, pp. 45.
[11] Pacem in terris N. 130
[12] Miscellanea 2 della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, Città del Vaticano 2000. V. inoltre il resoconto di G. SALVINI, su La Civ. Catt. (2001) III, pp. 390-400, della Assemblea Generale dello scorso anno della medesima Pontificia Accademia su Globalization and the Common Humanity: Ethical and Institutional Concerns.  
[13] Ib., pp. 82-93.
[14] V. anche, di G. MARCHESI, I Vescovi inglesi e il bene comune della società, in Civ. Catt. (1997) I, pp. 488-497, del “German Bishops’ Conference, Research Group on the Universal tasks of the Church”, The many faces of globalization – Perspectives for a human world order, Bonn 2000, e, del Consiglio Permanente dei Vescovi cattolici del Canada, la dichiarazione del 4 aprile 2001 dal titolo: Qu’il n’ y ait pas d’exclus.
[15] V. In Cristo nuova creatura (volume in onore del Card. Ruini), PUL–Mursia, Roma 2001, pp. 355-374, specialmente ai NN. 6 (“la globalizzazione è per l’uomo”) e 7 (“dei fondamenti teologici della globalizzazione”).
[16] Piemme, Casale Monferrato 2001.
[17] New Economy e Dottrina sociale della Chiesa, in L’Oss. Rom. del 9-10 luglio 2001, p. 8.
[18] Rivista della diocesi di Vicenza N. 9 (2000), pp. 1305-1311; v. anche J. JOBLIN, Chiesa e mondializzazione, in La Civ. Catt. (1998) I, pp. 129-141; G. SALVINI, Globalizzazione economica e Paesi in via di sviluppo, in La Civ. Catt. (1998) II,   pp. 340-353 e S. MOSSO, Globalizzazione, una sfida alla pace: solidarietà o esclusione?, in La Civ. Catt. (1999) I, pp. 558-570.
[19] L’invoca anche il gesuita J. Schashing della Katholische Sozialakademie di Vienna: v. Avvenire del 26 aprile 2001, p. 19; v. pure l’auspicio implicito di A. Fazio, con richiamo alla Populorum Progressio, cfr. Avvenire del 26 agosto 2001, p. 3, ultima colonna.
[20] Al N. 4 della dichiarazione congiunta si “riconosce l’importanza della globalizzazione e dei suoi benefici, mentre si richiama l’attenzione per i suoi pericoli che impediscono la realizzazione di un ordine mondiale riconosciuto comunemente giusto”.
[21] V. L’Oss. Rom. del 28 aprile 2001, p. 5.
[22] Ib.,   N. 2.
[23] Ib.,   N. 4.
[24] V. L’Oss. Rom. del 9-10 luglio 2001, p. 1.
[25] v. L’Oss. Rom. del   23-24 luglio 2001, p. 5, NN. 2 e 3.
[26] v. art. cit., in L’Oss. Rom. del 9-10 luglio 2001,   p. 8, IV e V col. ed altresì E. HERR, S.J., La mondialisation: pour une evaluation éthique, in N.R.T. CXXII (2000), N.1,   pp. 51-67 e H.J. BLOMMESTEIN, Etica nel nuovo mondo mirabile, in Il Regno – Documenti, 13/2001, pp. 457-464.
[27] V. Corr. della Sera del 13 novembre 1998, e pure Avvenire del 26 agosto 2001, p. 3, a cui P. OSTELLINO risponde piuttosto sfuocatamente, disgiungendo giustizia commutativa e distributiva, in Corr. della Sera del 27 agosto 2001, p. 1.
[28] “In questo processo vinca l’umanità tutta - auspica il Papa – e non solo un’élite prospera che controlla la scienza, la tecnologia, la comunicazione e le risorse del pianeta a detrimento della stragrande maggioranza dei suoi abitanti. La Chiesa spera veramente che tutti gli elementi creativi della società coopereranno alla promozione di una globalizzazione al servizio di tutta la persona umana e di tutte le persone”: Discorso di Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia della Scienze Sociali, di cui sopra: v. L’Oss. Rom. del 28 aprile 2001, p. 5   N. 5.
[29] Per una testimonianza circa l’attualità del tema si vedano, oltre il vol. Democracy. Some acute questions edito dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, nel 1999, Città del Vaticano, l’art. apparso su International Herald Tribune del 5 ottobre 1999, p. 8, dal titolo Globalization needs a dose of democracy (by R. FALK and A. STRAUSS) e l’altro di PHILIPPE ENGELHARD pubblicato su Le Monde del 16 maggio 2000, p. 17, intitolato Nous avons la mondialisation que nous meritons. Cfr. altresì, di D. SINISCALDO, Per capire i dissensi anti G-8 in Il Sole-24 Ore del 22 giugno 2001, p. 1.
[30] V. L’Oss. Rom. del 18 maggio 2001, p. 4.
[31] V. L’Oss. Rom. del 9-10 luglio 2001, p. 8, III e IV col.
[32] V. Libero dell’11 luglio 2001, p. 11.
[33] V. Riv. della dioc. di Vicenza, loc. cit., p. 1310.
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