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Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 90,  December 2002, p. 185-194.

XVII Giornata Mondiale della Gioventù

(pellegrinaggio a Toronto)

in occasione della XVII Giornata Mondiale della Gioventù, il Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, S.E. Mons. Agostino Marchetto, è stato invitato – come molti altri Vescovi - dall’Em.mo Cardinale James Francis Stafford, Presidente del Pontificio Consiglio per i Laici, a svolgere due catechesi ai giovani, in preparazione all’incontro finale con il Santo Padre.

Anche per rappresentare il nostro Dicastero, in un avvenimento che ha pure la dimensione del pellegrinaggio, settore oggetto altresì della nostra sollecitudine, l’Ecc.mo Mons. Marchetto ha tenuto dunque due catechesi di cui si pubblicano qui i testi, in lingua italiana, idioma usato per i due interventi, come richiesto.

I ª Catechesi: “Voi siete il sale della terra” (Mt 5,13)*

Permetterete al Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i  Migranti e gli Itineranti di dirvi anzitutto che è pellegrino l’uomo sulla terra e che il pellegrinaggio sorge dal cuore stesso dell’esistenza umana, dato che “fin dal suo primo affacciarsi sulla scena del mondo l’uomo cammina cercando nuove mete, indagando l’orizzonte terreno e tendendo verso l’infinito” (Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, Il Pellegrinaggio nel Grande Giubileo del 2000, Libreria Ed. Vaticana, 1998, 1, p. 3). “Pellegrino dell’Assoluto” (L. Bloy) è dunque l’uomo, nel relativo e contingente suo procedere quasi a tentoni, in vita e ancor più in morte. Pellegrina è pure l’umanità, attirata dal miraggio, bellissimo e difficilissimo da realizzare, di una unica famiglia in pace composita. E’ costitutiva dell’essere umano, insomma, la dimensione pellegrinante, transeunte, itinerante, in periglioso e insicuro cammino, pur quando si porta la lampada che risplende in caliginoso loco (cfr. I Pt 1,19), quando si è cioè cristiani-pellegrini, discepoli di Cristo in questo mondo. Anche per ciò il nostro Papa ha pensato fin dall’inizio queste Giornate Mondiali della Gioventù con una dimensione itinerante.

Per cui anche noi, qui a Toronto, siamo pellegrini (come pellegrini furono molti, per l’Anno Santo)… Continuiamo così i pellegrinaggi iniziati nel 1984: Roma, Buenos Aires, Santiago, Czestochowa, Denver, Manila, Parigi e Roma. Siamo pellegrini e non turisti, veloci, “mordi e vai”.

Dunque pellegrinaggio sì, il nostro di fede anzitutto, come prerequisito di essere noi il sale della terra. Il Papa vi ha scritto nel suo Messaggio: “La Giornata è occasione per approfondire la vostra fede e la vostra vita con Cristo”.

Chiedo: In che contesto? Consideriamo anzitutto il luogo: Toronto: qui vi è un crocevia di immigrazione di popoli. C’è una società multietnica, multiculturale, pluriconfessionale. È il mondo di oggi!

Rispondiamo quindi all’invito del Papa con fede nel nostro esser Chiesa, con senso della nostra universalità, oltre la località, che trascende le razze e le culture (N.M.I. n.3): una stessa fede, un solo battesimo, una stessa Chiesa, una e diversa: “In necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas” (come diceva Sant’Agostino). Difficile per i giovani? Molti dicono:  “Cristo sì, Chiesa no”.

Consideriamo poi il tempo. (N.M.I. n.1): al principio del II Millennio. “Ricordiamo il passato con gratitudine (lode), viviamo  il presente con entusiasmo e guardiamo al futuro con fiducia”. Al centro della fede è Cristo, che ci rivela il mistero della Trinità: contempliamo il suo volto. (v. n. 1 N.M.I.). L’incontro con Cristo è l’eredità del Grande “Giubileo” (I parte della N.M.I). Contempliamo l’incarnazione (siamo abituati, purtroppo, a questo mistero: come l’acqua scorre sulle vetrate – noi - senza penetrarle) .

E la storia? Il Cristianesimo è religione calata nella storia (disegnamo una elisse fantastica, con tutti gli avvenimenti storici… e al centro sta la croce gloriosa di Cristo). “Cristo è il fondamento e il centro della storia, ne è il senso e la meta ultima”. Al centro è la sua Incarnazione, culminante nel “mistero pasquale e nel dono dello Spirito Santo” (N.M.I. n.5)

Ripeto: Il nucleo essenziale della grande eredità dell’Anno Santo è nella contemplazione del volto di Cristo: Lui considerato nei suoi lineamenti storici  e nel suo mistero, accolto nella sua molteplice presenza nella Chiesa e nel mondo, confessato come senso della storia e luce del nostro cammino.

Così anche noi “vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,12) come richiesto a Filippo da alcuni Greci recatisi a Gerusalemme per il pellegrinaggio pasquale. “Un volto da contemplare, dunque (cosa vuol dire contemplare? Non solo guardare, ma intrattenerci a osservare con amore), per essere sale della terra.

Cristo presente nell’assemblea cristiana, nella Chiesa, nella comunità, (v. i testi del Concilio Vaticano II a questo riguardo) nell’amicizia. La Chiesa casa e scuola di comunione (N.M.I. n. 43) e di preghiera e di missione. Cristo nei sacramenti, specialmente nella comunione. Cristo in chi soffre.

Giornata Mondiale della Gioventù, incontro con Cristo, allora, per rendere testimonianza della sua presenza nella società contemporanea e diventare costruttori della civiltà dell’Amore e della Verità (v. Messaggio del Papa), per essere sale della terra.

Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, quindi, dovremmo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” (Mt 25, 35-36).

“Questa pagina evangelica non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce  sul mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante dell’ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo.

Certo, non va dimenticato che nessuno può essere escluso dal nostro amore, dal momento che ‘con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo’. Ma stando alle inequivocabili parole del Vangelo, nella persona dei poveri c’è una sua presenza speciale, che impone alla Chiesa un’opzione preferenziale per loro. Attraverso tale opzione, si testimonia lo stile dell’amore di Dio, la sua provvidenza, la sua misericordia, e in qualche modo si seminano ancora nella storia quei semi del Regno di Dio che Gesù stesso pose nella sua vita terrena, venendo incontro a quanti ricorrevano a lui per tutte le necessità spirituali e materiali.

In effetti sono tanti, nel nostro tempo, i bisogni che interpellano la solidarietà cristiana. Il nostro mondo comincia il nuovo millennio carico delle contraddizioni di una crescita economica, culturale, tecnologica, che offre a pochi fortunati grandi possibilità, lasciando milioni e milioni di persone non solo ai margini del progresso, ma alle prese con condizioni di vita ben al di sotto del minimo dovuto alla dignità umana. E’ possibile che, nel nostro tempo, ci sia ancora chi muore di fame? Chi resta condannato all’analfabetismo? Chi manca delle cure mediche più elementari? Chi non ha una casa in cui ripararsi?

Lo scenario della povertà può allargarsi indefinitamente, se aggiungiamo alle vecchie le nuove povertà, che investono spesso anche gli ambienti e le categorie non prive di risorse economiche, ma esposte alla disperazione del non senso della vita, all’insidia della droga, all’abbandono nell’età avanzata o nella malattia, all’emarginazione o alla discriminazione sociale. Il cristiano, che si affaccia su questo scenario, deve imparare a fare il suo atto di fede in Cristo, decifrandone l’appello che egli manda da questo mondo della povertà. Si tratta di continuare una tradizione di carità che ha avuto già nei due passati millenni tantissime espressioni, ma che oggi forse richiede ancora maggiore inventiva. E’ l’ora di una nuova “fantasia della carità”, che si dispieghi non tanto e non solo nell’efficacia dei soccorsi prestati, ma nella capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione (“Farsi perdonare di dare l’elemosina” diceva S. Vincenzo de’ Paoli).

Dobbiamo per questo fare in modo che i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come a casa loro. Non sarebbe, tale stile, la più grande ed efficace presentazione della buona novella del Regno? Senza questa forma di evangelizzazione, compiuta attraverso la carità e la testimonianza della povertà cristiana, l’annuncio del Vangelo, che pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci espone. “La carità delle opere assicura una forza inequivocabile alla carità delle parole.”

Le sfide odierne

“E come poi tenerci in disparte di fronte alle prospettive di un dissesto ecologico, che rende inospitali e nemiche dell’uomo vaste aree del pianeta? O rispetto ai problemi della pace, spesso minacciata con l’incubo di guerre catastrofiche? O di fronte al vilipendio dei diritti umani fondamentali di tante persone, specialmente dei bambini? Tante sono le urgenze, alle quali l’animo  cristiano non può restare insensibile”, specialmente quello di voi giovani.

“Un impegno speciale deve riguardare alcuni aspetti della radicalità evangelica che sono spesso meno compresi, fino a rendere impopolare l’intervento della Chiesa, ma che non possono per questo essere meno presenti nell’agenda ecclesiale della carità. Mi riferisco al dovere di impegnarsi per il  rispetto della vita di ciascun essere umano dal concepimento fino al suo naturale tramonto. Allo stesso modo, il servizio all’uomo ci impone di gridare, ‘opportunamente e importunamente’, che quanti s’avvalgono delle nuove potenzialità della scienza, specie sul terreno delle biotecnologie, non possono mai disattendere le esigenze fondamentali dell’etica, appellandosi magari a una discutibile solidarietà, che finisce per discriminare tra vita e vita, in spregio della dignità propria di ogni essere umano.

Per l’efficacia della testimonianza cristiana, specie in questi ambiti delicati e controversi, è importante fare un grande sforzo per spiegare adeguatamente i motivi della posizione della Chiesa, sottolineando soprattutto che non si tratta di imporre ai non credenti una prospettiva di fede, ma di interpretare e difendere i valori radicati nella ‘natura’ stessa dell’essere umano. La carità si farà allora necessariamente servizio alla cultura, alla politica, all’economia, alla famiglia, perché dappertutto vengano rispettati i principi fondamentali dai quali dipende il destino dell’essere umano e il futuro della civiltà.

Tutto questo ovviamente dovrà essere realizzato con uno stile specificamente cristiano: saranno soprattutto i laici a rendersi presenti in questi compiti di adempimento della vocazione loro propria, senza mai cedere alla tentazione di ridurre le comunità cristiane ad agenzie sociali.

In particolare, il rapporto con la società civile dovrà configurarsi in modo da rispettare l’autonomia e le competenze di quest’ultima, secondo gli insegnamenti proposti dalla dottrina sociale della Chiesa. E’ noto infatti lo sforzo che il Magistero ecclesiale ha compiuto, soprattutto nel secolo XX°, per leggere la realtà sociale alla luce del Vangelo ed offrire in modo sempre più puntuale ed organico il proprio contributo  alla soluzione della questione sociale, divenuta ormai una questione planetaria.

Questo versante etico-sociale si propone come dimensione imprescindibile della testimonianza cristiana: si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica  e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell’Incarnazione e, in definitiva, con la stessa tensione escatologica del cristianesimo. Se quest’ultima ci rende consapevoli del carattere relativo della storia, ciò non vale a disimpegnarci in alcun modo dal dovere di costruirla. (es. dell’impalcatura per la costruzione). Rimane più che mai attuale, a tal proposito, l’insegnamento del Concilio Vaticano II: ‘Il messaggio cristiano, lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dall’incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna piuttosto a tutto ciò con un obbligo ancora più stringente’ (v. N.M.I. n. 49-52).

Leggendovi questi testi bellissimi ho ascoltato anch’io l’invito del Papa ad approfondire la “Novo Millennio Ineunte”.

Però forse qualcuno, a questo punto, potrebbe obiettare “ma il tema nostro era: “voi siete il sale della terra” (Mt 5,13). Così rispondo: vi pare che fin qui non abbiamo parlato di sale, anche se non esplicitamente, illustrando quella che dovrebbe essere la vostra presenza nella Chiesa e nel mondo contemporaneo?

Una delle funzioni primarie del sale - come ben sappiamo - è quella di condire, di dar gusto e sapore agli elementi e anche di conservarli, impedendone la putrefazione (v. il santificare il mondo e santificarsi nel mondo di Christifideles laici n. 15-17).

Come il sale dà sapore così la santità dà senso pieno alla vita rendendola riflesso della gloria di Dio (v. Messaggio del Santo Padre). “Il sale è la grazia battesimale, seme della gloria nostra in Dio, che ci ha rigenerati, facendoci vivere in Cristo”. Vivere per Iddio, vivere per gli altri, in Cristo, come realizzazione del nostro essere, nella Chiesa e nel mondo. Voi siete sale! Siate sale, o giovani! E’ l’ora della missione, della vostra missione!

Orbene il Cristo contemplato e amato ci invita ora a metterci ancora una volta in cammino: “andate… ammaestrate… battezzando…” (cfr. Mt 28,19). “Il mandato missionario – come attesta Giovanni Paolo II (N.M.I. n. 58) – ci introduce nel III millennio invitandoci allo stesso entusiasmo che fu proprio dei cristiani della prima ora: possiamo contare sulla forza dello stesso Spirito, che fu effuso a Pentecoste e ci spinge oggi a ripartire, sorretti ‘dalla speranza che non delude’ (Rm 5,5).

Il nostro passo, all’inizio di questo nuovo secolo, deve farsi più spedito nel ripercorrere le strade del mondo. Le vie sulle quali ciascuno di noi, e ciascuna delle nostre Chiese (particolari), cammina, sono tante, ma non v’è distanza tra coloro che sono stretti insieme dall’unica comunione, la comunione che ogni giorno si alimenta alla mensa del Pane eucaristico e della Parola della vita.  Ogni domenica il Cristo risorto ci ridà come un appuntamento nel Cenacolo, dove la sera del ‘primo giorno dopo il sabato’  (Gv 20,19) si presentò ai suoi per ‘alitare’ su di loro il dono  vivificante dello Spirito e iniziarli alla grande avventura dell’evangelizzazione”.

Ed è per questo legame tra missione e Spirito che celebreremo tra breve la Messa votiva dello Spirito Santo per invocarlo su di noi e su tutta la Chiesa, per una rinnovata Pentecoste, che Papa Giovanni XXIII indicava nella realizzazione del Concilio Vaticano II. Ad esso si riferiva ancora Giovanni Paolo II (N.M.I. n. 57) con queste parole. ”A Giubileo concluso sento più che mai il dovere di additare il Concilio, come la grande grazia di cui la Chiesa ha beneficiato nel secolo XX: in esso ci è offerta una sicura bussola per orientarci nel cammino del secolo” che si è da poco aperto.

Se potessi, alla fine di questa Catechesi, vi consegnerei la Bibbia, i testi del Concilio Vaticano II, il Catechismo della Chiesa Cattolica e la “Novo Millennio Ineunte”. Non lo posso materialmente compiere questa consegna, ma che nella vostra bibliotechina personale questi testi non manchino.

A fra poco per la celebrazione della S. Messa!

 

III ª Catechesi: “Lasciatevi riconciliare con Dio”  

(2 Cor. 5,20)**

Ricordo ancora – come fosse oggi – una catechesi di un grande pedagogo-sacerdote a un gruppo di giovanissimi e le immagini d’inizio. Per questo le riprendo per voi, per fissare anche la vostra attenzione, nel nostro mondo così mediatizzato. In paradiso – egli esordì – ciascuno di noi ha due orologi che segnano il tempo. Uno fa…tic-tac ed  inizia a batterlo con la nascita. Segna il tempo della vita umana, fisica. L’altro… tic-tac, inizia a battere col nostro Battesimo. Alla fine della vita, se potessimo andare a vedere per Antonio, per es., ecco troviamo segnati 80 anni e nell’altro 60. Come è possibile? Eh sì! Antonio quando aveva 25 anni si è messo insieme a Giovanna, (e trascuriamo i precedenti) e fino a 45 anni è convissuto, senza pensare a mettere Cristo (col sacramento del matrimonio) nel mezzo, per unire lui stesso a  Giovanna. Era una situazione di peccato grave. L’orologio della grazia santificante, dell’amicizia con Dio, si era fermato… durante 20 anni, fino cioè al loro matrimonio cristiano. Potremmo fare altri paragoni…ma li tralasciamo. Quello però che  desidero presentare a voi, in questa giornata della riconciliazione, è l’ideale nostro che vita umana e vita cristiana, tempo di amicizia piena con Dio, coincidano, indipendentemente dal fatto - e  voi  l’avete capito - che in cielo… non ci sono orologi. E’ stata un’immagine che ho usata per farvi capire cosa sta sotto ad essa.

In effetti noi abbiamo esperienza purtroppo del peccato grave, mortale, o ancora di più di quello veniale. Sappiamo che con il Battesimo siamo nati a vita nuova, il peccato originale è stato cancellato, ma le sue conseguenze, l’inclinazione al male, la ferita della nostra natura rimane, per cui abbiamo bisogno del “secondo Battesimo”, come lo indicavano i Padri della Chiesa, del sacramento cioè della riconciliazione, o penitenza, detto anche confessione, che toglie i peccati commessi dopo il primo Battesimo.

La base necessaria, peraltro, del sacramento è la virtù della penitenza, il nostro cammino di conversione con Dio e verso gli altri. Si tratta cioè di riconoscere personalmente i propri peccati e chiederne perdono a Dio. Questo è l’atto di dolore, vale a dire il dispiacere, non  necessariamente sensibile, per aver offeso Dio  “infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa”, con il proposito di emendazione: “propongo, con la Vostra Santa Grazia, con il Vostro aiuto, di non offenderVi mai più e di fuggire le occasioni prossime del peccato”.

E’ questo un atto di contrizione, di dolore perfetto, che già riconcilia, anche se abbiamo peccato gravemente contro Dio, se non è possibile confessarsi, ma avendo l’intenzione di farlo al più presto possibile. Per questo è importante  che ci abituiamo, direi almeno prima di addormentarci, la sera, a pronunciare sinceramente,  con il cuore, questo atto di dolore.

L’attrizione, cioè il pentimento solo per la paura dei castighi divini, a causa delle nostre colpe, a volte gravi, è invece sufficiente quando ci confessiamo, ma non dovremmo arrestarci qui: “Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i Vostri castighi” - diciamo -. Dobbiamo però andar oltre e così continuare: “e molto  più perché ho offeso Voi infinitamente buono”.

Può sorgere qui una difficoltà che esperimenta in genere chi è più sincero, più sensibile. Così si esprime: “Quante volte mi sono confessato e non ne ho visto dei benefici! Ho cioè commesso ancora dei peccati, anche gravi. Non  sto prendendo in giro il Signore con le mie promesse non mantenute?

Vi racconto, a risposta, un episodio che riprendo da “Illustrissimi” del Cardinale Luciani, poi Papa Giovanni Paolo I. Un “Lord” inglese trova un mattino che i suoi stivali non erano stati puliti dal suo domestico. E gli chiede il perché. La risposta? “Tanto, Sir, fra poco saranno sporchi di nuovo. Non vale dunque la pena di pulirli”. Quel Lord disse allora: Ebbene partiamo! E al domestico che protestava per non aver ancora fatto colazione, rispose: “Perché farla se poi avrai ancora fame?”. Venendo a noi e applicando: Non mi confesso, tanto poi mi sporco di nuovo! Se anche così fosse, il paragone non calza. Bisogna pulirsi, bisogna lavarsi il viso, anche se polvere e sudore ritorneranno ad imbrattarlo.

E poi nel sacramento della riconciliazione che molti di voi riceveranno oggi, non solo il Signore rimette i peccati, ma Egli vi  fa anche crescere nelle virtù. Pensate all’umiltà. Nel riconoscervi peccatori (oggi in molti manca però il senso del peccato) forse un po’ della cresta del galletto vanitoso e superbo che siamo si abbassa. E riconoscendomi bisognoso del perdono del Signore forse crescerà la mia comprensione per gli altri e il mio spirito di tolleranza e di perdono. Diciamo infatti: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

V’è un’altra difficoltà – direi –: il proposito. Bisogna proporre di non peccare più in avvenire. E’ in quel momento della confessione che ci dev’essere tale proposito: contempliamo il volto doloroso di Cristo e ci dispiace di averlo offeso. Abbiamo preso una “botta”, in una caduta spirituale, e non vorremmo inciampare e ruzzolare di nuovo… Eppure  sappiamo che dobbiamo scendere la china di una montagna ghiacciata (immagine della nostra vita), che l’equipaggiamento è quello che è (scarpe da ginnastica, per esempio, senza ramponi), per cui prevediamo di cadere di nuovo, ma non vorremmo. Su questa distinzione vale la pena di continuare la discesa e rifare i propositi, con pazienza, generosità ed umiltà.

Nel sacramento, oltre all’aspetto personale, vi è quello ecclesiale e diremmo anche sociale: il perdono va concesso anche agli altri. Qui sta, nella dimensione ecclesiale, una delle maggiori difficoltà oggi, quando cioè vi è in molti la mentalità che possiamo così esprimere: “con Dio me la vedo io, ed io solo”. Questo tipo di atteggiamento lo possiamo incontrare anche nei giovani, si tratta di una ritrosia nei confronti della mediazione tra Dio e gli uomini, esenziale nella visione cattolica dell’incontro con Dio, perché Cristo (come mysterium pietatis), è il Mediatore, e la Chiesa lo è per partecipazione e  i sacramenti partecipano alla stessa realtà, appunto sacramentale. Del resto è un principio che ben s’accorda con la nostra corporeità, con l’Incarnazione del Verbo e coll’essere la Chiesa veramente umano-divina. Un rafforzamento a tale visione lo troviamo nel fatto che il nostro peccato non è solo offesa a Dio, ma anche va contro la Chiesa e tutta l’umanità. V’è, cioè, quasi un principio spirituale di applicazione di quello che in natura è detto dei vasi comunicanti, per cui: “un’anima che s’innalza, porta in alto il mondo e un’anima che si abbassa, tira giù, in basso, il mondo intero. Il perdono dev’essere quindi ecclesiale, direi “sociale”. Del resto anche ecclesiale è il “mea culpa” della purificazione della memoria, “un linguaggio” che Giovanni Paolo II ci ha reso familiare. Infatti “perché il nostro occhio potesse essere più puro, per contemplare il mistero, l’Anno Giubilare del 2000 fu fortemente caratterizzato dalla richiesta di perdono. E ciò è stato vero non solo per i singoli…ma per l’intera Chiesa, che ha voluto ricordare  la infedeltà con cui tanti suoi figli, nel corso della storia, hanno gettato ombra sul suo volto di sposa di Cristo…La Chiesa (in effetti), comprendendo nel suo seno i peccatori, è santa e sempre  bisognosa di purificazione”.

Incentrata nella riconciliazione (con Dio, in Cristo, con la Chiesa e gli altri) questa catechesi, che teniamo  nel giorno della Via Crucis, particolarmente consacrato al sacramento della penitenza, deve anche ricordarvi che essa ha 5 elementi essenziali: esame di coscienza, - seguire i comandamenti, nella prospettiva dell’amore a Dio e al prossimo, fondamentalmente - contrizione (di cui abbiam già detto), confessione dei peccati, assoluzione del sacerdote e soddisfazione o penitenza. Penso conosciate poi il modo concreto di confessarvi (altrimenti dite al sacerdote di aiutarvi). In ogni caso siate sinceri, non temete, e se c’è qualcosa di nascosto e brutto nel passato, questa è l’occasione buona per rivelare la vostra pena nascosta e mettere una pietra sul passato, guardando avanti. Il Signore è il nostro medico e non si tratta poi di fare la pittura dei peccati. La gioia verrà, anche se sobriamente, poiché diventiamo un esperimento nuovo (scusate!) nelle mani di Dio.

Il perdono al prossimo e finanche ai nemici, (ne è segno minimo il fatto che preghiamo per essi) aspetto specifico del cristianesimo, ne è uno dei più belli e più difficili. Esso deve tradursi in atteggiamenti e azioni concrete tese a favorire la riconciliazione, l’unità e la pace. Solo una Chiesa riconciliata e riconciliatrice può infatti contribuire alla costruzione della pace, così necessaria nell’attuale contesto mondiale e per la quale il Santo Padre non cessa di domandare ai cristiani, anche a voi, dunque, di impegnarsi concretamente mediante il digiuno, la preghiera, la penitenza e la carità attiva.

Entra qui - credo bene - l’ultimo aspetto della riconciliazione che desidero presentarvi oggi e che è anche la conclusione, direi logica, di quanto fin qui delineato nella visione della  Chiesa come comunione, una sua dimensione essenziale, messa in rilievo dal Concilio Vaticano II e ancor più dal Sinodo straordinario dei Vescovi del 1985, ed altresì dalla N.M.I., che proprio intende “promuovere una  spiritualità della comunione” (n. 43). “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida” che il Papa ci addita nel millennio appena iniziato, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alla attese profonde del mondo.  

“Che cosa significa questo, in concreto?” si domanda il Papa. E risponde: “Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità di comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti  i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano…spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato nel mistero della Trinità, che abita in noi e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del corpo mistico, dunque, come ‘uno che mi appartiene’ per sapere condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia.

Spiritualità della comunione che è pure capacità di vedere anzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un ‘dono per me’, oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità di comunione è infine saper ‘fare spazio’ al fratello ‘portando i pesi gli uni degli altri’ (Gal. 6,2), e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano  e   generano  competizione,  carrierismo,  diffidenza,  gelosie.  Non ci   facciamo  illusioni,   - raccomanda il Santo Padre - senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli  strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione, più che sue vie di espressione e di crescita” (N.M.I. n. 43).

Via le maschere, dunque, sia lo slogan conclusivo della nostra catechesi! Investiamo quindi sulla spiritualità della comunione per riconciliarci con Dio, con la Chiesa, con i fratelli e le sorelle di fede cattolica o in umanità, per riconciliarci anche all’interno delle famiglie, fra generazioni diverse e pure all’interno della famiglia chi crede in Gesù, vero Dio e vero uomo, all’interno di quel grande slancio verso l’unità di tutti i cristiani che si chiama movimento ecumenico.

Sono due temi di preghiera e di riflessione che affronteremo nella celebrazione eucaristica di oggi.


*Toronto, 24 luglio 2002

** Toronto 26 luglio 2002

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