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Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 90,  December 2002, p. 211-219.

Donne e famiglie  nelle migrazioni

introduzione del Rev. P. Angelo NEGRINI, C.S.,

Officiale del Pontificio Consiglio

della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

I vescovi e i direttori nazionali incaricati per la pastorale delle migrazioni delle Conferenze episcopali europee si sono incontrati a Smirne (Turchia) dal 9 al 13 ottobre 2002 per il loro sesto congresso, che quest'anno ha avuto come tema "Donne e famiglie nelle migrazioni". I lavori, ai quali ha partecipato anche un rappresentante del Pontificio Consiglio per la pastorale dei Migranti e Itineranti,  sono stati aperti dal presidente del CCEE,  Mons. Amédée Grab, vescovo di Coira, e coordinati dal vescovo Mons. Louis Pelâtre, Vicario apostolico di Istanbul.

Il congresso si è tenuto in Turchia sia perché i turchi costituiscono oggi in Europa un gruppo tra i più numerosi di migranti, sia perché in questo Paese c'è un'esperienza secolare di convivenza tra cristiani e musulmani, pur con i noti limiti, specialmente per la Chiesa cattolica.

A Smirne, dove i delegati sono stati accolti dal vescovo locale Mons. Giuseppe Bernardini, vi è stata l'opportunità di ascoltare nella prima giornata tre docenti dell'Università del luogo (Ayse Lahur Kirtunc, Nese Ozge e Onal Sayin) sui temi della migrazione e della donna in Turchia. Il loro contributo è stato molto apprezzato dai partecipanti.

Sono seguite le relazioni di Gabriele Erpenbeck, Incaricata per gli stranieri del Governo regionale della Bassa Sassonia (Germania) e di Ina Siviglia Sammartino, della Pontificia facoltà teologica di Sicilia.

Si è constato che negli ultimi vent'anni è aumentato il numero delle donne che lasciano i loro Paesi alla ricerca di una vita più degna, di maggiore libertà o di superiori prospettive professionali, e ciò  indipendentemente dalle loro famiglie, dai mariti o dai genitori. La situazione più drammatica e preoccupante è naturalmente quella delle donne vittime del traffico della prostituzione. Ma sono proprio le donne e le famiglie che, con il loro stretto legame sociale, hanno un significato determinante per la comprensione delle migrazioni e svolgono un ruolo importante per il successo del loro inserimento nelle nostre società.

La "nuova" migrazione femminile porta con sé anche rinnovate sfide pastorali e richiede un'attenzione particolare a contesti in cui vivono e da cui provengono i migranti.

I convegnisti hanno sottolineato alcune istanze pastorali, vale a dire:

  • I cristiani devono sentirsi coinvolti nella vita del migrante in tutte le loro necessità e    dimensioni materiali, linguistiche, culturali, religiose:
  • l processo di inserimento del migrante nella vita sociale e civile dei nostri Paesi e nelle nostre comunità ecclesiali è efficace quando i migranti stessi diventano corresponsabili e attori della vita sociale ed ecclesiale in cui vivono.
  • Fa parte della missione della Chiesa difendere la dignità e i diritti delle persone e offrire la sua voce a coloro che non hanno voce.
  • Le donne, in particolare le religiose, svolgono un ruolo importante di mediazione - nel contesto della migrazione femminile - che deve essere maggiormente apprezzato e valorizzato.
  • La formazione teologica e l'azione pastorale devono portare una maggiore attenzione al fenomeno migratorio e a tutte le sue conseguenze e ripercussioni per la vita delle comunità cristiane.

Le migrazioni, è stato più volte riaffermato al Congresso, è una sfida e una possibilità, non solo per il migrante e la sua famiglia, ma anche per le comunità ecclesiali dei Paesi di partenza e di arrivo.

Il congresso si è concluso con una visita all'antica Efeso e una solenne concelebrazione eucaristica, presieduta dal Vescovo Grab, fra le rovine della Chiesa dove si svolse il Concilio Ecumenico che nel 431 proclamò  Maria, Madre di Dio.

L'immigrazione familiare e femminile in Europa

e problemi pastorali

(Contributo del Pontificio Consiglio per la Pastorale per i Migranti e gli Itineranti)

1. La famiglia immigrata

La famiglia immigrata da "paesi cristiani"

La situazione

La dimensione familiare, all'interno della problematica migratoria, costituisce un soggetto di studio e di dibattito che, pur avendo radici lontane, ha assunto negli ultimi anni un'importanza particolare in Europa, soprattutto a livello sociale, culturale e pastorale.

Il processo di ricongiungimento familiare infatti è stato accompagnato da una importante percentuale di matrimoni di mista nazionalità e di nascite da genitori stranieri, nonché da alte percentuali di alunni, figli di immigrati, nelle scuole elementari e secondarie.

Tali fattori hanno messo in evidenza l'insediamento permanente di una parte importante della popolazione straniera e la scomparsa progressiva del carattere provvisorio o di "rotazione" dell'immigrazione a dominante operaia, che aveva prevalso fino alla fine degli anni '70.

La stabilizzazione degli immigrati in Europa, attraverso la dimensione familiare, ha messo in evidenza il peso crescente della dimensione sociale e culturale in rapporto a quella economica.

Il peso crescente del "sociale" si esprime: nella tendenza (legata alla riunificazione della famiglie), alla diminuzione della mobilità geografica della popolazione immigrata (i lavoratori singoli infatti sono molto più mobili); nel cambiamento qualitativo della domanda di alloggio sociale (in considerazione soprattutto del volume medio più elevato della famiglia immigrata); e nella crescente propensione dei figli degli immigrati, scolarizzati in Europa, a esprimere aspirazioni professionali (socialmente più gratificanti ed economicamente più redditizie) differenti da quelle dei loro genitori.

Anche il  peso  del versante culturale è sempre più evidente: l'immigrazione permanente dell'intero nucleo familiare infatti - se rapportata all'immigrazione temporanea di individui isolati - introduce sul territorio urbano nel quale generalmente si insedia, degli spazi di vita comunitaria e di espressione delle proprie identità collettive (coesione etnica e culturale) che producono dinamiche che esigono a loro volta capacità e attitudini di apertura, di accoglienza alle diversità (siano esse linguistiche, etniche, religiose) e alle relazioni intercomunitarie.

Dopo il blocco delle frontiere decretato da diversi Paesi europei negli anni 1973-1974, abbiamo assistito ad un passaggio storico, tuttora in corso - da "una classe specifica di lavoratori" (quali erano gli immigrati) a una "popolazione straniera" o di origine straniera -  che comincia a presentare alle politiche sociali, educative e culturali dei Paesi di immigrazione, delle pesanti "fatture" da pagare.

Negli ultimi decenni si è verificata una lenta ma progressiva metamorfosi dell'immigrazione introdotta dall'immigrazione familiare: l'estensione del pluralismo culturale dallo spazio dell'impresa e dell'economia  a quello della vita quotidiana. La stabilizzazione ha determinato un contesto dove la sola integrazione funzionale e parziale dei lavoratori immigrati nel settore economico, pur conservando un ruolo chiave, è divenuta insufficiente. Si tratta infatti di un contesto in cui la popolazione immigrata non può più essere "gestita" solo da qualche istituzione statale specifica (Ministero dell'Interno, Ministero del Lavoro, Dipartimenti di Polizia) ma dall'insieme delle componenti pubbliche e private della società. Nella misura in cui, tra la popolazione immigrata, la realtà "generazione" o "ricambio generazionale" prende corpo in rapporto alla realtà "classe sociale", sono gli aspetti educativi e culturali che diventano determinanti, insieme a quelli economici: molti giovani, nati e cresciuti in Europa infatti non conoscono ancora la realtà dell'impresa e del lavoro, ma sono coinvolti di fatto in tutte le altre realtà sociali e culturali.

Le nuove generazioni discendenti dall'immigrazione familiare, unicamente per la loro presenza nella scuola e negli altri spazi pubblici, hanno già prodotto un avvenimento culturale importante in diverse società europee. Non indirizzandosi infatti più, come i loro genitori, a delle istituzioni specifiche incaricate della gestione dei loro bisogni (se ne esistono, la maggior parte li diserta), essi hanno messo in evidenza la difficoltà delle istituzioni di diritto comune a prendere in conto le trasformazioni sociali e culturali di cui le nuove generazioni (sia autoctone che  di origine straniera) sono rivelatrici e portatrici. L'etnocentrismo culturale delle istituzioni quindi è messo in causa. L'istituzione scolastica e socio-educativa, quella della giustizia, della polizia, dell'alloggio sociale, del tempo libero, della gioventù, della cultura, della comunicazione, della sanità, degli affari sociali e della famiglia, sono tutte obbligate, di fronte alle nuove generazioni dell'immigrazione, a "rivisitare" radicalmente i modelli sui quali avevano istituzionalizzato, codificato e normalizzato i rapporti sociali. E questo, tanto più che la riunificazione familiare e la crescita endogena (nascite) riguardano comunità originarie di paesi, di civiltà e religioni differenti da quelle insediate e praticate in Europa.

Problemi pastorali

E delle Missioni etnico-linguistiche, di queste istituzioni specifiche, che ne sarà in un futuro più o meno prossimo? Il "pendant" di quella che, nella società civile si chiama "integrazione sociale" corrisponde nella comunità cristiana, alla "comunione ecclesiale". E' dunque nella  direzione  di quella "pastorale di comunione", auspicata dal Concilio Vaticano II,  che saremo chiamati ad elaborare le nostre linee pastorali.

Sono molti ormai i condizionamenti strutturali e i riferimenti culturali, che esigono oggi una sempre più profonda integrazione pastorale delle Missioni linguistiche nella Chiesa particolare, data la prospettiva della formazione di società sempre più plurietniche e pluriculturali, che consentono di realizzare nella Chiesa locale l'unità nella pluralità: quell'unità che non è uniformità ma armonia, nella quale tutte le diversità sono assunte nella comune tensione unitaria.

In questa realtà della Chiesa particolare si collocano le Missioni linguistiche, le quali svolgono all'interno della storia concreta della Chiesa, un ruolo sì specifico, ma sempre orientato verso quell'unità più vasta e profonda che nasce dalla molteplicità dei contributi delle diverse componenti della stessa Chiesa particolare. Esse si situano dunque come una vera e propria valorizzazione delle collettività straniere, in vista di un loro specifico contributo alla costruzione di una Chiesa, chiamata ad essere segno e strumento di unità.

La famiglia emigrata ha bisogno di uscire dal suo isolamento elaborando nuove forme di partecipazione all'interno della Chiesa di accoglienza e formando con i cristiani del luogo una comunità aperta e attenta ai problemi delle persone.

Tra i documenti finora elaborati dalle varie Chiese particolari sull'immigrazione, sembra mancare una precisa presa di posizione sui gruppi etnici,  intesi come "luoghi" dove possono fermentare crescite culturali e irrobustimento di identità, in vista di un apporto più costruttivo al dialogo ecclesiale. E' un problema che va approfondito perché è su un punto così importante che sorgono spesso tensioni tra parrocchie autoctone e missioni straniere. Ma qui si gioca soprattutto l'indifferenza o meno degli immigrati e delle loro famiglie nei confronti della Chiesa di accoglienza, la quale è chiamata a inserirsi  nella loro vita ed esperienza storica,  contrapponendo alla famiglia emigrata, che vive nell'insicurezza e marginalità, la testimonianza di una comunità cristiana, che diventi vero segno di carità,  di servizio  e di comunione.

La famiglia immigrata da “Paesi islamici”

La situazione

La famiglie musulmane sono centrate soprattutto sulla figura dell'uomo. Le donne dei Paesi islamici puntano generalmente al ricongiungimento con il marito, una volta che questo si sia adeguatamente sistemato. Differenti sono, di conseguenza, le strategie di inserimento (e relative esigenze)  di uomini e donne in seguito al ricongiungimento dei loro congiunti. L'immigrato  singolo tende generalmente alla invisibilità sociale, anche quando fa parte di una associazione o di un gruppo della sua etnia. L'arrivo del coniuge e dei figli lo obbliga invece a riscoprire ed assumere la sua propria identità  destinata  immancabilmente  a  rimettere in gioco i modelli culturali del gruppo di appartenenza e confrontarli con quelli della Nazione che lo ospita.

Le differenze tra i gruppi di immigrati e quindi la varietà delle famiglie che ne derivano, denotano tutta la complessità del fenomeno, ci fanno intravedere le difficoltà di un approccio che non tenga conto delle diversità e ci dicono anche che le famiglie etnicamente e religiosamente miste costituiscono il nodo più delicato del fenomeno e il vero crocevia dove si incontrano (e si scontrano) le diverse appartenenze, etniche e culturali. Si aggiunga infine la difficoltà di vivere la propria esperienza religiosa in un mondo che non riconosce le stesse modalità di espressione, anzi spesso è in aperto contrasto con esse.

Vi sono ovviamente anche tante opportunità, che la presenza di famiglie di diversa religione offre alla società ospitante. Le nostre comunità cristiane hanno così l'occasione per riscoprire e testimoniare la loro fede e una vita cristiana più autentica e più coerente  con le esigenze del Vangelo nel momento stesso in cui si confrontano con la religiosità di altri gruppi etnici. Nella famiglia musulmana tradizionale il senso religioso è alto, la vita è messa nelle mani di Dio e si cerca di vivere in un atteggiamento di sottomissione e obbedienza a Dio. La preghiera cinque volte al giorno, il rispetto per il nome di Dio, la pratica del Ramadan come momento di rigenerazione e riproposizione del proprio rapporto con Dio sono generalmente valori profondi e fortemente radicati  nella famiglia musulmana tradizionale e tutto questo  dovrebbe suscitare nei cristiani l'esigenza di una testimonianza ugualmente autentica  della loro fede.

Problemi pastorali

In una società, come quella dell'Europa occidentale, in cui gli immigrati di religione musulmana sfiorano ormai i venti milioni, diventerà sempre più acuto il problema dei matrimoni tra cattolici e musulmani:  alle differenze linguistiche e culturali, si aggiungono infatti quelle giuridiche e quelle propriamente religiose. L'islam e il cristianesimo considerano diversamente il patto d'amore tra l'uomo e la donna e dunque la sua unicità e indissolubilità; diversi sono i rapporti tra le generazioni e diversa è la missione della famiglia nella società, civile ed ecclesiale.

Per questo motivo, rappresentanti di entrambe le religioni sconsigliano generalmente simili matrimoni, senza tuttavia tralasciare i consigli più opportuni verso coloro che già vi sono coinvolti. La Chiesa cattolica, da parte sua, ritiene doveroso richiamare i suoi fedeli sulle difficoltà cui potrebbero andare incontro in ordine alla espressione della loro fede, al rispetto (peraltro doveroso) delle reciproche convinzioni, all'educazione dei figli. Tali matrimoni presentano generalmente  notevoli difficoltà connesse con gli usi, i costumi, la mentalità e le leggi islamiche circa la posizione della donna nei confronti dell'uomo e circa il matrimonio stesso, la cui natura monogamica e indissolubile è per un cattolico una nota fondamentale.

2. La donna immigrata

La situazione

La condizione della donna immigrata evidenzia l'esistenza di difficoltà specifiche, connesse alla condizione femminile e all'appartenenza a sistemi culturali e familiari in genere poco sensibili al processo di emancipazione della donna.

Emigrare, per una donna, comporta generalmente problemi più complessi e scelte più difficili che per un uomo: significa per essa soprattutto il distacco da quell'insieme di relazioni che, se  da una parte la tenevano in una situazione di dipendenza, la proteggevano, dall'altra, e le garantivano sicurezza per sé e per i propri figli. Ma non solo: nei Paesi occidentali essa trova modelli - di coppia, di vita coniugale e di ruolo del capofamiglia - completamente diversi da quelli del suo Paese di origine. Aspetti questi che assumono spesso una rilevanza decisiva per quanto riguarda l'educazione dei figli. Le donne, soprattutto quelle già sposate e che emigrano per il ricongiungimento familiare, sono chiamate a farsi carico anche della comunicazione e del legame tra due mondi completamente diversi, impedendo nello stesso tempo sia la chiusura nel proprio gruppo etnico, sia la perdita della loro identità culturale. Si ritrovano indubbiamente in una situazione di più accentuata contraddizione e di minore libertà personale.

L'organizzazione familiare inoltre - in un contesto culturale profondamente diverso da quello di provenienza - obbliga in un certo senso la donna immigrata a  mantenere e seguire, nella sfera privata, modelli di comportamento propri della cultura e della religione del paese di origine, trasformandosi quasi necessariamente in elementi di mediazione tra tradizione e modernità, tra ripiegamento in se stessa e l'apertura e integrazione nella società ospitante. E tutto questo comporta una serie indefinita di adattamenti, di conflitti e contraddizioni e non raramente di lacerazioni interiori.

L'invisibilità sociale, la marginalità nel mercato del lavoro, la solitudine affettiva, il desiderio di emancipazione sociale e  di indipendenza economica, le barriere linguistiche e culturali, sono altrettanti motivi di difficoltà dal punto di vista psicologico. Le donne musulmane inoltre sono spesso oggetto di forti condizionamenti a causa della loro appartenenza religiosa e, ancora più spesso,  di pregiudizi e di percezioni chiaramente distorte da parte della popolazione autoctona. In genere la condizione della donna immigrata  è legata a tutta una serie di fattori che vanno dall'età  della stessa, alla sua condizione sociale,  professionale, economica e scolastica.

Una nota particolare merita infine il problema  dell'intervento educativo nei confronti dei figli, considerato il cambiamento dei ruoli familiari e delle modalità di trasmissione dei valori tradizionali, in un contesto completamente nuovo, come quello dell'immigrazione. Le problematiche ad esempio relative all'inserimento di bambini di altre culture negli asili e nella scuola dell'obbligo, vengono oggi poste con urgenza da educatori e insegnanti, in particolare per quanto riguarda il vissuto (personale e familiare) dell'esperienza migratoria, del cambiamento (sociale e culturale), dell'appartenenza a due mondi spesso tra loro molto distanti. Occorrono, in proposito, nuovi strumenti di conoscenza e di analisi per una lettura più adeguata e  approfondita del fenomeno migratorio infantile,  in modo da progettare e garantire una accoglienza e un processo di integrazione  a partire dalle reali  necessità  dei soggetti. In tutto questo il ruolo della donna-madre immigrata è reso ancor più difficile, dovendo essa tessere continuamente i legami tra il mondo del bambino, proiettato verso il futuro, e quello del marito, ancorato spesso alla memoria del passato.

Problemi pastorali

a. Verso la donna immigrata da “Paesi musulmani”

Nei confronti della donna di religione musulmana, la comunità cristiana è chiamata  ad una accoglienza  veramente  fraterna.  Il compito che ci spetta è quello, semplicemente, di essere coerenti con il messaggio evangelico. Molti musulmani infatti sono sensibili ai valori delle Beatitudini e, dunque, del Regno di Dio. Si tratta di "gareggiare nelle opere di bene", come afferma il Corano (5,48), di emulazione spirituale.

E' poi necessario cercare di praticare la giustizia verso le famiglie e le persone singole, specie quelle di passaggio, che più spesso delle altre rischiano di essere dimenticate. E' necessario infine formare e organizzare una scuola interetnica, nella quale gli alunni possano venire a conoscenza della cultura dell'altro e  prepararsi a una società futura sempre più integrata e multiculturale. 

b. Verso la donna immigrata da "Paesi cattolici"

Nei confronti della donna immigrata da "Paesi cattolici", rimane aperto il problema della sua valorizzazione nelle comunità di accoglienza. Nel passato il suo silenzio era accettato come naturale e più congeniale alla donna stessa, in un contesto sociale, in cui anche  sul piano civile tale silenzio era la regola. Al giorno d'oggi  le donne hanno chiesto e ottenuto in genere la parola nella società civile ma non ancora pienamente, secondo molti, nella comunità ecclesiale.

Nella prospettiva di una Chiesa ministeriale, missionaria e più attenta al laicato, dovrà essere meglio approfondita, riconosciuta e valorizzata una presenza adeguata e una giusta ministerialità della donna. Si  tratta di riconoscere ad essa un suo specifico ruolo dentro un progetto di Chiesa, in cui uomo e donna godano di una effettiva uguaglianza-parità, pur con doni e incombenze peculiari e complementari, secondo il progetto di Dio in Cristo.

Se in proposito non mancano  segni positivi di sviluppo, rimangono tuttavia ancora molti limiti da superare, pregiudizi da vincere, principi e intenti da attuare, aspetti operativi  da approfondire e sviluppare. La ancora insufficiente possibilità concreta di partecipazione sociale, politica, culturale che la società civile garantisce oggi alla donna, ha un riflesso anche nelle nostre comunità cristiane, chiamate pure a valorizzare sempre più i valori di riferimento, il vissuto quotidiano e la cultura della donna immigrata. Si tratta di sviluppare alcuni criteri di fondo, da tutti del resto ampiamente ribaditi in sede teorica  - quali l'uguaglianza, la parità, la diversità-specificità, la reciprocità-corresponsabilità - ma di cui è così difficile fare una traduzione pratica,  operativa, coerente, promuovendo altresì un più completo sviluppo  della ministerialità femminile.

Se le comunità sapranno diventare luogo e spazio in cui uomini e donne sono riconosciuti in tutte le loro peculiarità e accolti nella loro diversità, offriranno un segno concreto di speranza e un contributo di  una nuova umanità nella società attuale, dove coppie, famiglie, donne sole, bambini e anziani cercano affannosamente punti di riferimento autenticamente evangelici, veri spazi di accoglienza e nuovi motivi per vivere, sperare, credere e amare.

Conclusione

Gli immigrati e in particolare le loro famiglie, fanno parte ormai della nostra vita quotidiana. La società civile e le comunità cristiane sono interpellate dai complessi problemi e difficoltà,  ma anche dai valori e dalle risorse di questa nuova realtà. Certamente, a partire dai bisogni di queste persone e dall'aiuto che noi sapremo offrire loro, riusciremo a costruire rapporti di vera amicizia. A partire da questa certezza è necessario sviluppare delle relazioni che si traducano, da una parte, in aiuti per l'inserimento nella società e, dall'altra, in occasioni di crescita - personale, sociale ed ecclesiale - basata sul rispetto delle culture, delle religioni e sul reciproco scambio di valori. 

E' auspicabile in particolare moltiplicare centri di ascolto e altre iniziative atte ad approfondire la conoscenza dei mondi e delle culture (in particolare del mondo islamico) da cui provengono gli immigrati, nonché moltiplicare le esperienze di condivisione per migliorare la convivenza  tra ospiti e autoctoni. L'educazione alla mondialità - rispettivamente alla cattolicità, che è già universalità - contribuirà certamente a sviluppare una nuova sensibilità atta a instaurare più amichevoli rapporti tra singoli individui e tra famiglie, nonché nell'ambito della scuola e negli ambienti di vita e di lavoro.

Un pericolo da evitare, in proposito, è certamente l'omologazione culturale rispetto ai modelli occidentali,  per evitare il dissolversi della cultura dei vari gruppi etnici di immigrati, in particolare di quella islamica, nonché l'assimilazione delle peggiori manifestazione della cultura occidentale. E' impensabile infatti costruire un rapporto  utile e fecondo a partire dalle macerie e dal dissolvimento delle culture e religioni diverse dalla nostra.

Una crescita comune, nel rispetto reciproco delle differenze culturali e religiose, rimane la condizione indispensabile per assicurare un pacifico sviluppo e un futuro sereno alle nostre società civili e comunità ecclesiali.

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