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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 93,  December 2003, pp. 31-37

Rifugiati e migrazioni internazionali.

Analisi e proposte di intervento

Prof. Stefano ZAMAGNI

Presidente ICMC, Ginevra

Una delle più intricate “vexatae quoestiones” di questi tempi relativa alle politiche di asilo è stata lÂ’accusa che i richiedenti asilo sono, in realtà, migranti economici che abusano delle norme vigenti. In conseguenza di ciò parecchie e crescenti sono le voci di coloro che propongono di considerare superata la classica distinzione tra rifugiati e migranti per lavoro. Il caso dellÂ’Albania è interessante a tale riguardo, perché è il caso di un paese che ha generato flussi sia di genuini richiedenti asilo sia di migranti lavoratori e la cui recente esperienza è in grado di suggerire come la distinzione fra rifugiati e migranti abbia ancora senso e dunque vada conservata a livello di policy-making. Invero, è errata lÂ’assimilazione di povertà e di insicurezza: la fuga dalla fame è cosa diversa dalla fuga dalla persecuzione. La confusione tra le due tipologie ha avuto lÂ’effetto che è sotto gli occhi di tutti: il rifiuto dei governi del Nord di accogliere le richieste di asilo con la giustificazione che trattasi di richieste provenienti da persone che scappano dal loro paese per cercare “la bella vita” a spese di altri ha condotto alla crisi dellÂ’istituto dellÂ’asilo politico, un istituto che – come si sa – è unÂ’invenzione tipicamente europea avvenuta agli inizi degli anni Â’50. Al tempo stesso, però, occorre resistere alla tentazione di considerare i rifugiati come caso separato e a sé, solo per via dello speciale status legale di cui godono ovvero della natura particolare dei problemi da cui i rifugiati sono afflitti. La tesi qui difesa è che rifugiati e richiedenti asilo devono essere considerati parte integrante della nuova diaspora di migranti, una parte, tuttavia, dotata di una sua propria specificità e dunque meritevole di speciale attenzione.

Come la stessa UNHCR ha dichiarato, “i flussi migratori e di rifugiati per parecchi anni sono stati considerati fenomeni discreti, e il compito di distinguere gli uni dagli altri non aveva mai presentato grosse difficoltà agli stati... Oggi, sempre più, i rifugiati sono parte di un complesso fenomeno migratorio in cui fattori politici, etnici, economici, ambientali, etici si combinano tra loro per condurre ai movimenti di popolazione”.(“Managing migration in the wider Europe”, UNHCR, Strasbourg, Oct. 1998).Sulla medesima linea si muove un recente rapporto delle NU dove si legge: “Molte persone sono indotte a lasciare il loro paese da una miscela di paure, speranze e aspirazioni che può essere assai difficile, se non impossibile, distinguere”.(Technical symposium on international migration and development, The Hague, July 1998, UNFPA, New York, 1999, p.70).

Come opportunamente scrive Crisp (1999), la più parte dei rifugiati in Europa Occidentale e in Nord America abitano un universo sociale eterogeneo, condividendo una comune situazione di vita con migranti, dello stesso e di altri paesi, che non sono rifugiati. In termini di reti sociali è dunque assai più profittevole focalizzare lÂ’attenzione su queste comunità come un tutto, piuttosto che su coloro che sono stati ammessi come rifugiati. E ciò anche in vista del fatto che una proporzione sostanziale di richiedenti asilo è formata da persone che già sono state, per qualche tempo, nel paese cui si rivolgono in qualità di studenti, diplomatici, uomini dÂ’affari, immigrati irregolari, visitatori. Inoltre, va menzionato il fatto che le reti globali e le comunità transnazionali di cui i rifugiati sono parte non sono formate di soli rifugiati. Al contrario, esse includono una gran varietà di categorie di migranti, una caratteristica questa che aiuta a capire come avvenga, nella realtà, che certi richiedenti asilo, piuttosto che altri, ottengano il riconoscimento dello status di rifugiato.

In effetti, scarsa attenzione è stata dedicata al ruolo svolto dalle reti sociali nel facilitare, sostenere e dirigere il movimento dei richiedenti asilo. Come spiegare una tale lacuna? Una prima ragione è che il dibattito sullÂ’asilo in Europa è stato polarizzato, per un verso, da coloro che cinicamente parlano dei richiedenti asilo come di persone “furbe” che cercano di abusare delle norme vigenti e, per lÂ’altro verso, dai difensori della causa dellÂ’asilo che cercano di dimostrare come il richiedente asilo sia un soggetto la cui unica motivazione è quella di sfuggire ad un pericolo certo e immediato. Ebbene, occorre riconoscere che anche quei richiedenti asilo che meritano lo status di rifugiati hanno chiare preferenze circa il luogo della loro ultima destinazione e che la loro fuoriuscita dal paese di origine è spesso facilitata dalle reti sociali transnazionali di cui sopra si è detto.

Una seconda ragione è che la ricerca, sia teorica sia empirica, sui richiedenti asilo è terribilmente scarsa. Pochissimo sappiamo sul modo in cui costoro arrivano alla decisione di lasciare il loro paese; quali informazioni sono disponibili al momento in cui prendono quella decisione; il modo in cui viene finanziato il loro viaggio; né si sa se costoro in precedenza avevano stabilito o meno contatti con il paese di destinazione. Il fatto è che mentre lÂ’informazione disponibile sui cosiddetti migranti economici è oggi abbondante e soprattutto credibile, non altrettanto si può dire sulle strategie migratorie seguite dai richiedenti asilo. In particolare, non si conosce il modo specifico di operare delle reti sociali transnazionali che pure svolgono un ruolo di primo piano nel processo delle migrazioni per ragioni di asilo. Si pensi al loro ruolo nel trasmettere lÂ’informazione attraverso canali informali e nel mobilizzare le risorse finanziarie necessarie per lasciare il paese. Come fanno i richiedenti asilo a ottenere il liquido necessario per pagarsi il viaggio, il cui prezzo è andato aumentando nel tempo a seguito dellÂ’incremento dei costi associati alle migrazioni irregolari? Queste risorse arrivano al potenziale rifugiato dalle rimesse inviate dai membri della diaspora dei migranti oppure questi ultimi pagano direttamente i trafficanti e i loro agenti locali per consentire la fuga dei loro parenti, amici, co-etnici? E ancora, come si concretizza lÂ’aiuto delle reti sociali nel sostenere, psicologicamente e finanziariamente, il rifugiato una volta che questi ha ottenuto lo status? Sappiamo che in Europa Occidentale i rifugiati vengono esclusi dai mercati del lavoro regolari e dai sistemi di sicurezza sociale. Di che cosa e come vivono costoro una volta giunti alla loro destinazione finale? Non ci vuole tanto per comprendere che le domande sopra poste sono veramente centrali; eppure lÂ’evidenza empirica sui punti sollevati è sostanzialmente nulla. Sappiamo abbastanza su tutto quanto accade nel momento in cui il richiedente asilo si presenta alla frontiera del paese che dovrebbe ospitarlo; ma nulla sappiamo sulla fase precedente e su quella successiva.

Si tratta di una lacuna molto grave. Per apprezzarne le conoscenze, si consideri quanto segue. Quando il numero delle domande di asilo ai paesi dellÂ’Europa Occidentale ha cominciato ad aumentare a partire dai primi anni 1980, le risposte immediate degli stati europei è stata quella di introdurre pratiche sempre più restrittive. Si pensi allÂ’introduzione del visto di ingresso; allÂ’applicazione della regola del “paese terzo sicuro” (safe third country) e del “paese di origine sicuro” (safe country of origin); alla interpretazione della Convenzione di Ginevra del 1951 secondo cui vengono esclusi dallÂ’ambito della sua applicabilità coloro che sono perseguitati da soggetti non statali; la detenzione, anche per lunghi periodi, dei richiedenti asilo in appositi campi; lÂ’introduzione di accordi di riammissione, in base ai quali i richiedenti asilo vengono inviati ai paesi dove sono transitati in precedenza. E così via (Crisp, 1999).

Quale il risultato? Che attivando opportunamente i canali della reti sociali transnazionali, un numero considerevole di richiedenti asilo è stato in grado di superare gli ostacoli eretti dagli stati europei. Al tempo stesso, però, il successo così ottenuto sul fronte dei rifugiati ha indotto i vari governi a rafforzare le misure repressive e restrittive, talvolta persino in violazione degli obblighi legali internazionali. LÂ’impatto di queste misure è stato bene descritto da Crisp e Van Hear (1998): non solamente è peggiorato il benessere dei richiedenti asilo e dei rifugiati, ma quel che più rileva è che il “problema dei rifugiati” è stato rimosso in quanto tale, per diventare un aspetto del più ampio problema dellÂ’ordine pubblico. Con la conseguenza che, per un verso, gli standard di protezione dei rifugiati sono andati progressivamente diminuendo e, per lÂ’altro verso, che sono andati aumentando le opportunità di guadagno di unÂ’altra comunità internazionale, quella dei trafficanti professionisti. Perché, come Salt (1997) ha bene messo in evidenza, la novità di oggi è che le migrazioni sono diventate un affare molto lucrativo. Ma in un mondo in cui i richiedenti asilo possono attraversare i confini dellÂ’Europa o del Nord America solamente con lÂ’assistenza di trafficanti, lÂ’affare in questione è uno di quelli in cui il “cliente” non ha certo libertà di scelta.

A partire dagli anni 1980, si può osservare lÂ’emergenza di un nuovo modello nel modo di considerare le varie categorie di migranti: mentre i migranti lavoratori hanno visto unÂ’estensione dei loro diritti sociali e politici, i richiedenti asilo sono stati oggetto di politiche sempre più restrittive. Certamente, ciò è in parte conseguenza della crescita ragguardevole del numero di richiedenti asilo. Ma la ragione principale è in verità unÂ’altra: per un verso, i rifugiati non sono funzionali al mercato del lavoro dei paesi ospitanti; per lÂ’altro verso, i richiedenti asilo, non avendo la possibilità di organizzarsi a livello collettivo, non sono in grado di esercitare quella pressione politica e quel ruolo di advocacy che è invece possibile alle altre tipologie di migranti. La tendenza ad abbassare progressivamente i diritti e i benefici dei richiedenti asilo è stata favorita dalla retorica della figura dellÂ’abusivo o del falso migrante lavoratore. Questa concettualizzazione del problema dellÂ’asilo ha prodotto due conseguenze. Primo, quella di legittimare lÂ’erosione degli impegni nei confronti dei richiedenti asilo. Se la più parte di costoro non sono veri rifugiati ma migranti economici, tanto vale abolire le leggi per i rifugiati e i sistemi di asilo, dal momento che questi non servono più allo scopo per il quale vennero creati. La seconda conseguenza è stata quella di dipingere le politiche restrittive come non discriminatorie sotto il profilo razziale, così da non cadere nella critica del politicamente non corretto. In tal modo, si sono potuti “chiudere” i problemi delle relazioni inter-etniche senza passare per coloro che discriminano in base alla razza. 

Ciò posto, come conciliare i controlli dellÂ’immigrazione e la protezione dei rifugiati? Come fare a tenere assieme il principio della sovranità dello Stato-principio che si estrinseca nella capacità di questo di controllare i suoi confini – e il rispetto dei diritti umani dei richiedenti asilo? Quali sono i principali obiettivi che una politica dei controlli ai confini persegue in generale? Certamente quello del mantenimento dellÂ’ordine pubblico e della prevenzione del crimine; ma anche quello della protezione dei mercati nazionali del lavoro e delle abitazioni. Vi è poi la grossa questione riguardante la difesa del sistema di welfare dal rischio della non sostenibilità finanziaria. Per conseguire questi obiettivi, in sé leciti, si sono introdotte regole di ammissibilità sempre più stringenti. Con quale esito? Per un verso, di vanificare, annullandolo di fatto, lÂ’esercizio del diritto di movimento delle persone; per lÂ’altro verso, di alimentare una vera e propria industria specializzata nel traffico di persone. EÂ’ così accaduto che la richiesta di per sé legittima degli stati di conservare una giurisdizione sovrana sui propri cittadini ha finito con il mettere a repentaglio la protezione internazionale del diritto delle persone di lasciare il proprio paese.(Cfr. Vedsted-Hansen, 1999).

Ora, mentre è andata aumentando, nel corso dellÂ’ultimo ventennio, la consapevolezza da parte delle varie espressioni della società civile, e in special modo delle organizzazioni non governative, dell'importanza di assicurare a tutti i cittadini il diritto di uscire e di rientrare al proprio paese, gli stati hanno accresciuto le difficoltà per rendere fruibile tale diritto, innalzando barriere di vario tipo e natura per scoraggiare le richieste di asilo. Questa posizione prevalse fermamente alla Conferenza delle NU sullÂ’asilo territoriale del 1977, nel corso della quale venne affermato il diritto sovrano degli Stati di concedere o rifiutare lÂ’asilo. (Goodwin-Gill, 1996). Eppure, gli obblighi internazionali, derivanti dal diritto internazionale, pongono limiti allÂ’esercizio del potere di uno Stato di escludere i non cittadini. Se così non fosse, quale il senso di una Convenzione come quella di Ginevra del 1951 la quale sancisce che lo status di rifugiato non deriva, né dipende, da un qualche riconoscimento formale da parte di uno Stato, quanto piuttosto dal fatto che una persona ricada nellÂ’ambito di applicabilità dellÂ’art.1?  

Recita, infatti, lÂ’art.1: “[Rifugiato è chi] a causa di un fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica, si trova al di fuori del paese di cui ha cittadinanza e non può o non vuole avvalersi della protezione di tale paese”. Si noti come tale definizione restringa alquanto la portata del concetto di rifugiato che, nel linguaggio comune, è sinonimo di profugo, di chi cioè è costretto ad abbandonare la propria residenza a prescindere dalla causa specifica dellÂ’esodo. Neppure il Protocollo Aggiuntivo di New York del 1967 ha modificato la situazione, anche se esso è valso a rimuovere la cosiddetta riserva geografica, la quale limitava lÂ’applicazione della Convenzione di Ginevra ai soli rifugiati provenienti dallÂ’Est europeo. LÂ’OUA (Organizzazione Unità Africana) nel 1969 ad Addis Abeba accoglie una definizione più estensiva di rifugiato, proprio per tener conto della realtà dei paesi africani. Anche il Colloquio di Cartagena (Colombia) del 1984 finirà con lÂ’includere, tra le cause dellÂ’esodo, “la massiccia violazione dei diritti dellÂ’uomo”. Ma tali innovazioni mai sono state recepite dai paesi del Nord. (Iovino, 1999). Ed ancora, quale portata riconoscere allÂ’art.1 della Dichiarazione Universale dei Diritti dellÂ’Uomo che espressamente riconosce il diritto di ciascun essere umano di chiedere asilo?

Come si può comprendere non è agevole sciogliere il dilemma ora illustrato; ma è altrettanto ovvio che non è possibile continuare a restare in questa sorta di limbo normativo. La via di uscita è quella di giungere, possibilmente in tempi brevi, al disegno di procedure di asilo che assurgano al ruolo di vere e proprie specifiche norme internazionali. Come lÂ’UNHCR ha più volte ribadito, poiché la Convenzione di Ginevra non indica quale tipo di procedure seguire per la determinazione dello status di rifugiato, il risultato è stato che ogni Stato si è dato quelle procedure che considerava maggiormente appropriate alla sua struttura amministrativa e costituzionale. Di qui lÂ’anarchia che ancora oggi contraddistingue questo settore. Un esempio interessante che bene descrive lo stato dellÂ’arte è, per un verso, lÂ’approvazione di standard da parte dellÂ’Unione Europea per accelerare le procedure di asilo e per lÂ’altro verso lÂ’affermazione che le restrizioni nazionali da parte degli Stati membri sono pienamente compatibili con tali standard!

Andando al concreto, quali misure adottare al fine di conciliare i controlli sullÂ’immigrazione con lÂ’esigenza improcrastinabile di proteggere i diritti dei rifugiati? 

Un primo punto da fissare è che lÂ’introduzione dei visti di ingresso, se può servire alle esigenze di controllo dei flussi dei migranti per lavoro oppure per le riunificazioni familiari, certamente genera effetti negativi sui potenziali rifugiati dal momento che nessuno Stato ha mai introdotto un sistema di visti per rifugiato.

Secondo, occorre procedere ad una valutazione dei costi diretti e indiretti causati dallÂ’inasprimento delle misure di controllo e ciò al fine di prevenire effetti perversi. Nella misura in cui i controlli allÂ’immigrazione bloccano di fatto lÂ’accesso alla procedura di asilo, occorre predisporre misure ad hoc per i richiedenti asilo.

Terzo, nella revisione delle procedure di asilo, occorre bilanciare le ragioni dellÂ’efficienza e quella dellÂ’equità. In particolare, va evitato lÂ’uso di metodiche di accertamento che violano la sfera di autonomia personale del richiedente asilo e soprattutto la sua dignità umana. Ad esempio, le linee guida e i protocolli di azione devono tener conto della sensibilità di genere e della specifica matrice culturale delle persone coinvolte.

Quarto, i benefici del regime della protezione sussidiaria devono includere tutti coloro che, pur non rientrando nei criteri fissati della Convezione di Ginevra del 1951, necessitano comunque di protezione internazionale. Si tratta di coloro che fuggono dagli effetti indiscriminati della violenza e dei disordini sociali che ne derivano, anche se violenza e disordini provengono da agenti non statali. Gli standard da riconoscere ai beneficiari della protezione sussidiaria devono essere gli stessi di quelli riconosciuti a coloro che godono dello status di rifugiato in base alla Convenzione di Ginevra. (UNHCR, 2002).

Quinto, una procedura formale per la determinazione dello status di rifugiato è lo strumento migliore per distinguere i rifugiati dagli altri migranti. In tal modo, si rende giustizia a chi realmente ha titolo per ricevere lo status di rifugiato e, al tempo stesso, gli Stati si pongono al riparo da arrivi non desiderati, né programmati.

Sesto, va affrontata la questione del ritorno di color che si sono visti respingere la richiesta di asilo. Il problema principale è che alcuni paesi di origine non cooperano affatto per facilitare il ritorno dei loro connazionali. In casi del genere, chi si è visto rifiutare lo status di rifugiato finisce con il cadere nella rete di coloro che si dedicano al traffico di esseri umani. Occorre dunque rendere operativo il principio del “non refoulement” (non respingimento): i richiedenti asilo, durante il periodo nel corso del quale avvengono gli accertamenti per definire il loro status giuridico, devono essere considerati presunti rifugiati, con tutto ciò che questo comporta.

Settimo, allo scopo di impedire il cosiddetto “asylum shopping”, che è causa di ingiustizie, oltre che di inefficienze, è necessario definire regole per lÂ’allocazione di responsabilità allo Stato che è tenuto a decidere in merito allÂ’attribuzione dello status di rifugiato. Relativamente allÂ’Europa, la Convenzione di Dublino del 1990 (entrata in vigore il 1/9/1997) ha adottato il principio della responsabilità esclusiva: per ogni singola richiesta di asilo, proveniente da persona residente in un paese non dellÂ’UE, vi deve essere un solo stato responsabile cui spetta di esaminare la domanda.

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