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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 98, August 2005 

 

 

Il Sacerdozio nell’Istruzione

“Erga migrantes caritas Christi” 

 

S.E. Mons.Csaba Ternyák

Segretario della Congregazione per il Clero

 

1. Il sacerdote ordinato nella pastorale delle migrazioni, epifania di Cristo sulle strade del mondo

La Chiesa ha “sete” di santità (cfr. Gv 19,28) che si manifesta, innanzitutto, nel ministro ordinato, scelto, consacrato ed inviato per far emergere la contemporaneità di Cristo, di cui diventa autentico rappresentante e messaggero (cfr. Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei Presbiteri, Tota Ecclesia, 31.1.1974, n. 7). Egli, infatti, è il primo ad essere chiamato da Dio a proclamare le ragioni della speranza che è in lui (cfr. 1 Pt 3,15). Gli uomini desiderano contemplare nel sacerdote il volto di Cristo, incontrare in lui la persona che, creata “a favore degli uomini in funzione delle cose che riguardano Dio” (Eb 5,1), possa dire con Sant’Agostino: “La nostra scienza è Cristo e la nostra sapienza è ancora Cristo. E’ lui che infonde in noi la fede riguardo alle realtà temporali ed è lui che ci rivela quelle verità che riguardano le realtà eterne” (Sant’Agostino, De Trinitate 13, 19,24: NBA 4, p. 555).

Si tratta di analizzare un tema molto amplio che nell’Istruzione include numerosi aspetti sia dottrinali che spirituali. Mi soffermerò solamente su quelli essenziali, soprattutto di ordine cristologico ed ecclesiologico, che emergono rispettivamente dalle quattro parti di cui è composto il Documento, e che trovano la loro espressione normativa nell’Ordinamento giuridico-pastorale posto a conclusione dell’Istruzione stessa: in primo luogo il ministero sacerdotale quale difesa e proclamazione della dignità della persona umana (cfr. Introduzione e I parte), successivamente l’inculturazione nell’opera di evangelizzazione del presbitero, autentico cammino di unione del Vangelo alla vita di ogni uomo e di tutti i popoli (cfr. II parte), in terzo luogo l’ecclesiologia di comunione nel sacerdozio a servizio dei migranti (cfr. III parte), ed infine la missionarietà dell’azione pastorale del ministro ordinato (cfr. IV parte e Conclusione). 

Ritengo che questi quattro aspetti siano fondamentali per ogni ulteriore considerazione teologico-dottrinale sulla pastorale delle migrazioni ed indispensabili per far chiarezza di fronte alle tendenze religiose sincretiste e secolarizzanti, foriere di relativismo etico ed esistenziale anche nella vita di molti cristiani, e così diffuse specialmente nella cultura europea ed americana, ma presenti anche in quella asiatica ed africana.

L’Istruzione può essere considerata, sotto questa prospettiva, come una sequenza delle interazioni tra il ministero sacerdotale e i summenzionati quattro elementi che manifestano molto adeguatamente sia la linea argomentale del Documento, sia la circolarità dell’esposizione dottrinale e teologica in esso contenuta con il suo ritorno al nucleo tematico centrale: la carità di Cristo. 

Tratterò brevemente il primo e terzo di detti aspetti che sono già stati oggetto di numerosi altri interventi del Pontificio Consiglio, per parlare un po’ più in profondità del secondo e quarto – vale a dire dell’inculturazione e della missionarietà – che ritengo costituiscano il nerbo della ministerialità sacerdotale nella pastorale dei migranti.  

2. Dimensione cristologica del ministero sacerdotale a servizio della dignità del migrante

Leggiamo nella Introduzione “Abbiamo pensato dunque a questa Istruzione, che intende rispondere soprattutto ai nuovi bisogni spirituali e pastorali dei migranti e trasformare sempre più l’esperienza migratoria in veicolo di dialogo e di annuncio del messaggio cristiano” (Introduzione, n. 3). 

Ci possiamo chiedere quali sono questi bisogni? Il Documento, nel fare riferimento al Magistero della Chiesa ed alla normativa canonica latina ed orientale, specifica innanzitutto la primaria esigenza della tutela dei diritti inalienabili del migrante: la sua dignità di persona, il suo diritto all’di persona, il suo diritto all’emigrazione, la necessità di superare le sperequazioni nello sviluppo economico e sociale dei popoli che stanno alla radice della maggior parte delle migrazioni e che causano gravi ingiustizie e divisioni tra gli uomini.

La Chiesa desidera servire quest’unico fine: che ogni uomo possa ritrovare la sua vera dignità in Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita, con la potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, con la potenza di quell’amore che da essa irradia.

Diciamo con parole del Papa Giovanni Paolo II: “Su questa via che conduce da Cristo all’uomo, su questa via sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo, la Chiesa non può essere fermata da nessuno. Questa è l’esigenza del bene temporale e del bene eterno dell’uomo”(Lett. enc. Redemptor hominis, n. 14). 

«La Chiesa ha sempre contemplato nei migranti l’immagine di Cristo, che disse: “Ero straniero e mi avete ospitato” (Mt 25,35)», leggiamo nella prima parte dell’Istruzione (n. 12), che prosegue: “La loro vicenda, per essa, è cioè una provocazione alla fede e all’amore dei credenti, sollecitati così a sanare i mali derivanti dalle migrazioni e a scoprire il disegno che Dio attua in esse, anche qualora fossero causate da evidenti ingiustizie” (Ibidem).

Dunque l’uomo, l’uomo vivente, costituisce la prima e fondamentale via della Chiesa, via che corre, in un certo modo, alla base di tutte quelle vie per le quali deve camminare la Chiesa stessa, perché l’uomo è stato redento da Cristo, perché con l’uomo Cristo è in qualche modo unito anche quando quell’uomo non ne è consapevole: “Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo (…) luce e forza per rispondere alla suprema sua vocazione”(Cost. past.Gaudium et spes, n. 10).

In questo evento di salvezza, infatti, si rivela all’umanità non solo l’amore sconfinato di Dio, ma anche il valore incomparabile di ogni persona umana. E la Chiesa scrutando assiduamente il mistero della Redenzione, coglie questo valore con sempre rinnovato stupore(cfr. Lett. enc. Redemptor hominis, n. 10) e si sente chiamata, soprattutto ed innanzitutto nei suoi ministri ordinati, ad annunciare agli uomini di tutti i tempi questo “vangelo”: il Vangelo dell’amore di Dio per l’uomo, il Vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita, che sono un unico e indivisibile Vangelo (cfr. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, n. 2). 

Il sacerdozio ordinato, in quanto configurazione ontologica alla Capitalità del Sacerdozio eterno di Cristo e partecipazione alla missione apostolica, fondata sulla missione redentrice e salvifica di Cristo stesso e trasmessa ai Vescovi (cfr. Cost. dog. Lumen gentium, n. 28; Decr. Presbyterorum ordinis, n. 2), non rimane insensibile a tutto ciò che serve al vero bene dell’uomo, così come non rimane indifferente a ciò che lo minaccia (cfr. Lett. enc. Redemptor hominis, n. 13). 

Il sacerdote, diocesano o religioso, chiamato ad essere Cappellano o Missionario dei migranti (cfr. Parte III: Operatori di una pastorale di comunione) per riguardo a Cristo ed in ragione del suo servizio all’unica missione della Chiesa, mistero dell’unione di Dio con gli uomini e sacramento universale di salvezza (cfr. Cost. dog. Lumen gentium nn. 1,9,48), esprime questa sua fondamentale sollecitudine affinché la vita del migrante e del rifugiato sia più conforme all’eminente dignità dell’uomo (cfr. Cost. past. Gaudium et spes, n. 91) in tutti i suoi aspetti, e così renderla sempre più umana (cfr. Ibid. 38).

Tale sollecitudine riguarda l’uomo intero, anima e corpo, materia e spirito, ed è incentrata su di lui in modo del tutto particolare, mediante l’esercizio della triplice funzione sacerdotale: di insegnare la Parola del Dio vivente, di collaborare con l’Ordinario diocesano o eparchiale nel governo della porzione di Popolo di Dio affidatogli, governo che è sempre servizio al sacerdozio comune dei fedeli nella carità di Cristo, e di santificare ogni uomo, amministrando i sacramenti, epifania del Verbo incarnato, segni di vittoria di Dio nel mondo. In tal senso si deve dire che ogni azione dell’Operatore pastorale dei migranti è sacerdotale ed anche che il sacerdozio ordinato, a servizio dei migranti, è continuazione della universale missione di Cristo. Ciò definisce in modo decisivo la posizione del sacerdote a servizio dei migranti in rapporto alla Chiesa particolare ed universale, e determina e chiarisce il suo stile di vita.   

Conseguentemente il ministero sacerdotale nella pastorale dei migranti, così come nello svolgimento di qualsiasi altra ministerialità ecclesiale – e lo ricordiamo con parole di Paolo VI – “non è un mestiere o un servizio qualunque esercitato in favore della comunità ecclesiale, ma un servizio che partecipa in una maniera assolutamente speciale e con un carattere indelebile alla potenza del sacerdozio di Cristo, grazie al sacramento dell’Ordine” (Paolo VI, Messaggio ai sacerdoti, 30.6.1968, alla chiusura dell’anno della Fede).

Il Documento pone in risalto che: «Essere Cappellano/Missionario dei migranti “eiusdem sermonis” non significa comunque rimanere prigioniero nei limiti di un unico, esclusivo, nazionale, modo di vivere ed esprimere la fede» (n. 77).In effetti, il ministero sacerdotale a servizio di una Parrocchia personale (cfr. CIC can. 518 e CCEO can. 280 § 1) o territoriale (cfr. CIC can. 529 §1), oppure di Missioni con cura d’anime (cfr. CIC can. 516), di Vicariati episcopali (cfr. CIC can. 476) e di Cappellanie per i migranti (cfr. CIC can. 568), non deriva mai dalla comunità dei credenti, come se essa potesse delegare ad un suo membro l’ufficio di presiedere o rappresentare se stessa, e neppure deriva da una partecipazione alla pienezza del sacerdozio del Vescovo, in questo caso dell’Ordinario di una Chiesa particolare o eparchiale. L’essere propriamente Guida e Pastore dei migranti è una qualità, un titolo, specificamente riservato al sacerdote.Senza la Ordinazione sacerdotale previa, non si può dare nessuna nomina valida di Cappellano o Missionario di essi.In tal senso l’Operatore pastorale in quanto sacerdote, come dice San Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi, èservitore della gioia degli uomini (cfr. 2 Cor 1,24), è servitore di quella azione redentrice di Cristo contenuta ed espressa nei sette sacramenti.La sua vita è interamente sacerdotale e ministeriale perché è chiamata a manifestare una costante disposizione di seguire con fedeltà la volontà fondante di Cristo (cfr. Lc 22, 26-27): servire gli altri propter Christum

Per tutto ciò, posso dire che al quesito “che cos’è il sacerdote per una comunità di migranti?”, rispondo: è la presenza di Cristo, Capo e Pastore della Chiesa, presenza che si attua in modo ordinario e quotidiano, e fa di quella comunità, sia essa Parrocchia o Missione, una autentica comunità di fedeli. Ecco l’essenziale e fondamentale contributo sacramentale del sacerdozio in ordine alla dignità dell’uomo: il ministro sacro della Chiesa riversa nella persona umana la forza salvifica della Redenzione operata da Cristo, che nel mistero del Battesimo e della Penitenza viene bagnata dal sangue redentore di Cristo per diventare partecipe della sua Risurrezione (cfr. Rm. 6, 3ss.). Ecco il contributo dell’Operatore pastorale dei migranti che è sollecitudine e servizio di Cristo stesso, il buon Pastore di tutti gli uomini. In nome di tale sollecitudine “la Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana” (Cost. past. Gaudium et spes, n. 76). 

3. L’ecclesiologia di comunione: radici sacramentali della universalità e dell’unità gerarchica dell’operatore pastorale dei migranti

Un nuovo presbitero è sempre un dono, non solo per una comunità particolare, ma anche per tutta la Chiesa, poiché i beni a cui è rivolto il suo ministero sono beni comuni per tutta l’umanità e primariamente per la Chiesa universale.

La parola di salvezza, che trasmette con la predicazione, non è un messaggio di una comunità limitata di fedeli, è la Parola di Dio depositata nella Chiesa universale della comunità dei dodici Apostoli. Una particolare comunità ecclesiastica non è titolare di una parola di salvezza propria che non sia patrimonio comune di tutto il Popolo di Dio. 

Certamente la inculturazione, di cui tratterremo nel successivo paragrafo, illumina e chiarisce la Buona Novella, la verità rivelata, dando soluzioni specifiche a concrete situazioni esistenziali. La vera inculturazione è icona della Incarnazione del Verbo e della sua azione salvifica nel tempo e nello spazio umani. Ma la Rivelazione, così come la Tradizione e l’insegnamento del Magistero, non sono un deposito “privato” di una parte della Chiesa.

Parimenti i sacramenti, che sono celebrati ed amministrati dall’operatore pastorale dei migranti, sono un bene comune della Chiesa universale. Nel Decreto conciliare Sacrosanctum Concilium troviamo questa espressione: “Le azioni liturgiche appartengono all’intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano” (n. 46).

Questi beni comuni caratterizzano il ministero del parroco e missionario e manifestano la dimensione universale del suo ministero. È però soprattutto il sacrificio eucaristico che determina più radicalmente la sua relazione con la Chiesa universale. L’Eucaristia è fonte e culmine della vita ecclesiale, e il pane consacrato e custodito nel tabernacolo è “come il cuore spirituale della comunità religiosa e parrocchiale“ (Paolo VI, Lettera enc. Mysterium fidei, AAS 1965, 722). Per questa ragione il Concilio Vaticano II raccomanda che “i parroci abbiano cura che la celebrazione del sacrificio Eucaristico sia il centro ed il culmine di tutta la vita della comunità cristiana” (Decr. Christus Dominus, n. 30).

“Senza il culto eucaristico, come proprio cuore pulsante – ricordava il Santo Padre – la parrocchia inaridisce” (Giovanni Paolo II, Allocuzione ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Clero, 23.11.2001).

Anche la comunità dei migranti può divenire una scuola eucaristica, una scuola dell’eternità divina. Nell’Eucaristia, infatti, è già presente l’ottavo giorno, l’eternità irrompe nel presente, facendo pregustare quello che ci sarà nell’eternità. Per questo, afferma san Basilio, i primi cristiani pregano in piedi durante la celebrazione dell’Eucaristia “non soltanto perché, come risorti con Cristo e cercando le cose di lassù, ci ricordiamo, stando in piedi in preghiera nel giorno dedicato alla Risurrezione, della grazia che ci è stata donata; ma perché quel giorno sembra essere in qualche modo l’immagine dell’eternità futura … l’ottavo giorno …, il giorno eterno senza sera e senza domani, il secolo senza fine che non invecchierà” (Lo Spirito Santo XXVII, 66). 

Possiamo dire riassuntivamente che il legame intrinseco con la comunità diocesana e con il suo Vescovo, in comunione gerarchica con il Successore di Pietro, assicura alla comunità dei migranti l’appartenenza alla Chiesa universale. Si tratta di una pars dioecesis animata da uno stesso spirito di comunione, da ordinata corresponsabilità battesimale, da una stessa vita liturgica, centrata nella celebrazione dell'Eucaristia, e da uno stesso spirito di missione, che connota l’intera comunità. 

Ogni comunità parrocchiale, afferma Giovanni Paolo II, “è fondata su di una realtà teologica, perché essa è una comunità eucaristica. Ciò significa che è una comunità idonea a celebrare l'Eucaristia, nella quale stanno la radice viva del suo edificarsi e il vincolo sacramentale del suo essere in piena comunione con tutta la Chiesa. Tale idoneità si radica nel fatto che la parrocchia è una comunità di fede e una comunità strutturata organicamente, ossia costituita dai ministri ordinati e dagli altri cristiani, nella quale il parroco – che rappresenta il Vescovo diocesano – è il vincolo gerarchico con tutta la Chiesa particolare” (Giovanni Paolo II, Esortazione ap. post-sinodale Christifideles laici, 30.12.1988, n. 26)

In tal senso, anche la parrocchia personale o la missione, che è come una cellula della diocesi, deve offrire “un luminoso esempio di apostolato comunitario, fondendo insieme tutte le diversità umane che vi si trovano e inserendole nell'universalità della Chiesa” (Concilio Vaticano II, Decreto Apostolicam actuositatem, n. 10).

A conclusione di questo terzo elemento essenziale del ministero sacerdotale–la ecclesiologia di comunione–possiamo dire che, in quanto partecipe dell’azione direttiva di Cristo Capo e Pastore sul suo Corpo, il sacerdote dei migranti è specificamente abilitato ad essere, sul piano pastorale, l’“uomo della comunione”(Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, 31.1.1994, n.30), della guida e del servizio a tutti. Egli è chiamato a promuovere e a mantenere l’unità delle membra col Capo e di tutti tra loro. Per vocazione egli unisce e serve, duplice dimensione della stessa funzione pastorale del Cristo (cfr. Mt 20,28; Mc 10,45; Lc 22,27).

4. Quando l’azione pastorale del sacerdote a servizio dei migranti si fa efficace inculturazione 

“Sacramento di unità, la Chiesa vince le barriere e le divisioni ideologiche o razziali e a tutti gli uomini e a tutte le culture proclama la necessità di tendere alla verità…L’inculturazione comincia con l’ascolto, con la conoscenza, cioè, di coloro a cui si annuncia il Vangelo”. Queste parole poste all’inizio della II parte dell’Istruzione (nn. 34, 36) bene possono introdurre il tema della inculturazione, quale promozione umana ed azione ecclesiale del ministero sacerdotale a servizio dei migranti.   

“Non è vero che l’uomo, come talvolta si sente dire, non possa organizzare la terra senza Dio. È vero che, senza Dio, non può in fin dei conti che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano” (P. Henri de Lubac, Le drame de l’humanisme athée, Spes, 1944, p. 12). A sei decenni di distanza, ogni sacerdote può completare questa riflessione premonitrice di Padre de Lubac, riferendosi agli eventi tragici della nostra recente storia mondiale.

Viviamo in un momento decisivo di transizione culturale e religiosa: siamo passati da un umanesimo ateo, professato dal materialismo marxista, a nuovi tipi di umanesimi spiritualisti, celebrati da religiosità esoteriche di stampo panteista. 

È compito del munus docendi del sacerdote, chiamato alla pastorale dei migranti, interrompere la triste traiettoria dell’attuale pensiero, che dall’Occidente si diffonde in Oriente e che passa dal falso gnosticismo al falso umanesimo: esso nega, tra l’altro, tutto il contenuto della dottrina della creazione e della Redenzione, la responsabilità dell’agire personale dinanzi a Dio ed agli uomini, la esistenza del peccato originale e di quello personale, e la necessità dei sacramenti.

 «Pensare, sentire Dio come “l’Altro” immenso e schiacciante – scriveva il noto pensatore cristiano Romano Guardini – è in primo luogo un errore dell’intelligenza e una deformazione del sentimento» (“Le monde et la personne”, Seuil, Paris 1959, p. 43). 

La funzione sacerdotale di insegnamento, che l’Operatore pastorale svolge a favore di migranti non cristiani in Paesi di antica tradizione cristiana e a favore di migranti cristiani in terra di missione o comunque in Paesi non cristiani, è vera inculturazione del Vangelo: annunciare e testimoniare il mistero di Cristo, sapendo che esso è il criterio fontale di ogni autentica inculturazione. La Incarnazione del Verbo è, infatti, il risanamento radicale della natura umana e della sua cultura attraverso l’opera della grazia che agisce per mezzo dei sacramenti.

Per questo, come ricorda l’Istruzione (cfr. n. 36), la prima legge di ogni inculturazione è far abitare il Vangelo in una determinata cultura. Si tratta di un cammino che riflette la vita di Cristo ed il mistero pasquale. È un processo che implica l’esperienza del Venerdì Santo – della persecuzione e dell’apparente annientamento del messaggio evangelico –, ma anche della Domenica di Risurrezione – della nascita e crescita della Parola di Dio in una cultura. Come Cristo, anche l’annuncio del Vangelo può subire un processo doloroso di incomprensione, di rigetto e di morte, perché ritenuto scandaloso e folle: “I Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi invece predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1 Cor 1,22-23).

Ma da questo misterioso processo del chicco di grano che muore, Dio fa sorgere una nuova cultura rinnovata in Cristo e vissuta da nuove creature, rigenerate dal Padre nello Spirito di Cristo. Bisogna saper attendere con fiducia, avere speranza! Dio è fedele! “A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio” (Gv 1,11). 

Si tratta di favorire un processo profondo di assimilazione della integrità della fede cristiana nelle diversità delle culture; pertanto, esso richiede tempi che possiamo chiamare “giusti”, vale a dire quelli “voluti da Dio”: noi, a volte, li giudichiamo lenti o “troppo lunghi”, perché viviamo contagiati dalla idolatria dell’efficientismo e dei risultati immediati, e dalla cultura dei risultati appariscenti e a tutti i costi. Sono, lo ripeto, i tempi “giusti secondo Dio” e anche “secondo gli uomini” che responsabilmente esercitano il dono divino della libertà. Perché la inculturazione, come ogni azione evangelizzatrice e missionaria, non coarta la libertà, ma piuttosto la favorisce. 

“Nelle Chiese particolari – si legge nel Documento del Pontificio Consiglio – va dunque ripensata e programmata la pastorale per aiutare i fedeli a vivere una fede autentica nel nuovo contesto multiculturale e plurireligioso. Con l’aiuto di operatori sociali e pastorali, è così necessario far conoscere agli autoctoni i complessi problemi delle migrazioni e contrastare sospetti e pregiudizi offensivi verso gli stranieri” (n. 41).Ricordiamo in tal senso che la Chiesa cattolica propone e non impone nulla! (cfr. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio, 39). Il munus docendi del sacerdote rispetta sempre le persone e le culture e si ferma davanti al sacrario della coscienza, proponendosi ad essa come luce che rischiara e conforta, come sale che sana e conserva la Verità che in essa vi abita.

Nella teologia pastorale, anche recentemente, si è dato da alcuni una accezione negativa al termine proselitismo. Nel suo ministero di insegnamento, il sacerdote è sempre missionario e proselitista, perché vive della Verità che è di per sé diffusiva, diremmo contagiosa di ogni bene, apportatrice di unità e di pace (cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Dichiarazione sulla libertà religiosa, Dignitatis humanae, 3-4; Paolo VI, Esort. Ap. Evangelii nuntiandi, 79-80). Perciò Papa Giovanni Paolo II ha scritto: “A coloro che si oppongono con i più vari pretesti all’attività missionaria, la Chiesa ripete: Aprite le porte a Cristo!” (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio, 39). Il Suo Vangelo nulla toglie alla libertà dell’uomo, al dovuto rispetto delle culture, a quanto c’è di buono in ogni religione. 

Non posso dilungarmi qui sulla inculturazione quale “promozione umana”: sappiamo che essa è portatrice di salvezza per la persona nella integrità della sua natura. “Dio non fa preferenze di persone… e Gesù Cristo è il Signore di tutti” (At 10,34.36). Di fronte e dentro le innumerevoli situazioni di ingiustizia in ogni parte del mondo, con la sua parola, il sacerdote deve essere difensore dei diritti dell’uomo, creato a immagine e somiglianza. “Egli predica la dottrina morale della Chiesa – diciamo con parole del Papa – in difesa del diritto della vita, dal concepimento sino alla naturale conclusione; predica pure la dottrina sociale della Chiesa, fondata sul Vangelo, e prende a cuore la difesa di chiunque è debole, rendendosi voce di chi non ha voce, per farne valere i diritti” (Giovanni Paolo II, Esort. Ap. Pastores gregis, n. 67).“Per l’oppressione dei miseri e il gemito dei poveri io sorgerò, dice il Signore” (Sal 12,6). 

5. E promuove nella missionarietà il dialogo interreligioso.

“Nel nome di Gesù Cristo il Nazareno,…in nessun altro c’è salvezza: non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,10.12). Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini (cfr. Eb 1, 1-2; Gv 14,6). La autorivelazione definitiva di Dio, quale unico salvatore in Cristo Gesù (cfr. 1 Tim 2,5-7; Eb 4,14-16), è il motivo fondamentale per cui noi sacerdoti esistiamo, per cui la Chiesa è per sua natura missionaria ed evangelizzatrice, ed anche il motivo essenziale perché noi possiamo parlare ora, a conclusione di queste riflessioni, del munus docendi del sacerdote ordinato quale dialogo interreligioso

Alla luce della Sacra Scrittura, nel fecondo alveo tracciato dalla Tradizione e dal perenne Magistero della Chiesa, il ministro di Cristo non vede un contrasto fra l’annuncio del Verbo incarnato ed il dialogo interreligioso; non sono incompatibili, anzi l’uno è conseguenza dell’altro. Cristo ha espressamente proclamato la necessità della fede e del battesimo e ha confermato simultaneamente la necessità della Chiesa “nella quale gli uomini entrano mediante il battesimo come per una porta” (Cost. dog. Lumen gentium, 14; cfr. Decr. Ad gentes, 3). 

Nella IV Parte dell’Istruzione leggiamo: “In tal modo la Chiesa particolare contribuirà alla fondazione, nello spirito della Pentecoste, di una nuova società nella quale le diverse lingue e culture non costituiranno più confini insuperabili, come dopo Babele, ma in cui, proprio in tale diversità, è possibile realizzare un nuovo modo di comunicazione e di comunione” (n. 89)

Il dialogo del sacerdote sarà foriero di crescita e di mutuo arricchimento per il cristiano ed il non cristiano, se sarà da lui condotto ed attuato con la convinzione che la Chiesa è la via ordinaria di salvezza e che solo essa possiede la pienezza dei mezzi di salvezza (cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Decreto Unitatis redintegratio, 3).“Dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale” (Cost. past. Gaudium et spes, 2), perché il disegno divino è di “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,10).  

Scrisse Papa Giovanni Paolo II ai Vescovi dell’Asia: “Anche se la Chiesa riconosce volentieri quanto c’è di vero e di santo nelle tradizioni religiose del Buddismo, dell’Induismo e dell’Islam – riflessi di quella verità che illumina tutti gli uomini –, ciò non diminuisce il suo dovere e la sua determinazione a proclamare senza esitazioni Gesù Cristo…Il fatto che i seguaci di altre religioni possano ricevere la grazia di Dio ed essere salvati da Cristo indipendentemente dai mezzi ordinari che egli ha stabilito, non cancella affatto l’appello alla fede e al battesimo che Dio vuole per tutti i popoli” (Giovanni Paolo II, Lettera ai Vescovi dell’Asia, in occasione della V Assemblea Plenaria della Federazione delle Conferenze Episcopali d’Asia, 23.6.1990: in L’O.R. del 18.7.1990). 

In un mondo che si è fatto spiritualmente vecchio, spetta ad ogni cristiano di testimoniare la forza della novità del Vangelo: con San Tommaso d’Aquino possiamo ripetere “Christus initiavit nobis viam novam” (Prima secundae, q. 106, art 4, ad primum). Come ricorda il Documento del Pontificio Consiglio (cfr. n. 89), spetta in particolare ai Pastori della Chiesa, al Vescovo diocesano/eparchiale, formare bene i laici affinché si facciano lievito della società per la salvaguardia di quei valori, insieme umani e cristiani, sui quali si gioca il futuro della società: il rispetto della vita insidiata dalla cultura della morte, l’integrità della famiglia disgregata dall’individualismo edonista, l’impegno sociale nella solidarietà ostacolato dalla ricerca del mero profitto economico anche a scapito della dignità della persona umana. 

Al di là della rilevanza ed insostituibilità del nostro ministero episcopale, che è fondamentale per la vita e la crescita della Chiesa, bisogna nutrire profonda consapevolezza che la sfida di una evangelizzazione efficace non può essere affrontata senza fare leva anche sul compito profetico, sacerdotale e regale proprio di tutti i battezzati. È ora che i fedeli laici vivano profondamente la loro vocazione alla santità “trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio” (Cost. dogm. Lumen gentium, n. 31).  

No, l’uomo non è una passione inutile, come tragicamente sosteneva Jean Paul Sartre. Sappiamo invece che “il mistero dell’uomo non si chiarisce veramente che nel mistero del Verbo incarnato” (Cost. past. Gaudium et spes, n. 22,1).

Riusciremo noi Pastori ed i nostri più stretti collaboratori, i sacerdoti, a realizzare tutto ciò innanzitutto nell’Eucaristia e per mezzo dell’Eucaristia. Sì, nella nostra Eucaristia, quella che tutti i giorni celebriamo: a volte nel silenzio delle Cappelle dei nostri Episcopi, altre volte nelle storiche Cattedrali o nelle piccole e modeste “capanne” delle nuove terre di missione. Porteremo così all’Altare tutte le nostre preoccupazioni pastorali, i desideri missionari, affinché si facciano realtà, le difficoltà delle nostre comunità ecclesiali, ma anche gli abbondanti frutti di santità dei nostri fedeli ed in particolare il lavoro pastorale nascosto e a volte sofferto dei tanti sacerdoti che onorano le nostre Diocesi, facendo risplendere nella loro parola la Verità salvifica.

Al termine di questo commento dell’Istruzione, mi sia consentito invocare la Vergine Maria, Regina degli Apostoli e Madre dei sacerdoti in unione di sentimenti e di affetti con il Papa, che “presiede la comunità universale nell’amore” (Ignazio di Antiochia, Ad Rom., Proemio), come supremo “Vicario della carità di Cristo” (Sant’Ambrogio, Expositio in Luc., lib. X). A Lei affidiamo noi stessi, il ministero episcopale e tutti i presbiteri, affinché possiamo trovare costante protezione e aiuto per la nostra fedeltà e per un salutare rinnovamento apostolico e missionario del nostro sacro ministero, e far scaturire dal nostro presente e futuro servizio a favore dei migranti e degli itineranti una più vibrante spinta evangelizzatrice.

 

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