Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People People on the MoveN° 98, August 2005
I fondamenti biblici dellÂÂIstruzioneÂÂErga migranteS caritas ChristiÂÂ
Rev. P. Albert Vanhoye, S.J. Pontificio Istituto Biblico Roma
Sin dalle sue prime parole la recente Istruzione del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti manifesta la sua ispirazione biblica. Infatti, subito dopo la menzione dei migranti, ÂÂErga migrantesÂÂ, viene citata una frase della Seconda Lettera dellÂÂapostolo Paolo ai Corinzi: ÂÂCaritas Christi urget nos (2Cor 5,14). Questa frase esprime ottimamente lÂÂimpulso che ispira la pastorale per i migranti, un impulso di amore che proviene dal Cuore di Cristo e si preoccupa di aiutare persone che vivono in condizioni di vita disagiate. Tutta lÂÂIstruzione manifesta una viva sollecitudine per i migranti, una perspicace attenzione ai loro problemi in tutta la loro complessità e uno sforzo continuo per contribuire a risolverli. Nella sua Parte I, lÂÂIstruzione comincia con il proporre una ÂÂvisione di fede del fenomeno migratorioÂÂ, visione basata evidentemente sulla rivelazione biblica. Ne dà subito testimonianza la prima frase: «La Chiesa ha sempre contemplato nei migranti lÂÂimmagine di Cristo, che disse: ÂÂEro straniero e mi avete ospitato (Mt 25,35)». Viene poi ricordato il posto importante delle migrazioni nella storia della salvezza, fino al suo compimento in Cristo e al suo prolungamento nella ÂÂChiesa della pentecosteÂÂ. I. I migranti nellÂÂAntico Testamento LÂÂAntico Testamento parla spesso di migranti, sia individuali che a gruppi. Per designarli usa un termine specifico, gher, dalla radice gur[1]. Varie erano le ragioni che spingevano le persone a diventare migranti. La storia di Abramo dimostra che si può diventare migrante per vocazione. È Dio infatti che ordina ad Abramo: ÂÂVattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che ti indicherò (Gn 12,1). Abramo si incamminò ÂÂverso il paese di Canaan (Gn 12,5), e vi condusse una vita itinerante da ÂÂimmigrato (gher: Gn 23,4), perché Dio non gli diede il paese, ma promise soltanto di darlo alla sua discendenza (Gn 12,6). Si può dire che la storia del Patriarca getta una luce molto positiva sulla condizione dei migranti, anche se è eccezionale. Le ragioni che provocavano le migrazioni erano abitualmente più materiali. Quella che appare più spesso è la carestia, la fame. Il primo esempio, nel Libro della Genesi, è quello di Abramo: ÂÂVenne una carestia nel paese e Abramo scese in Egitto per soggiornarvi (gur), perché la fame gravava sul paese (Gn 12,10). La storia si ripete poi con Isacco: ÂÂVenne una carestia nel paese oltre la prima che era avvenuta ai tempi di Abramo (Gn 26,1). Isacco, però, riceve dal Signore lÂÂordine di ÂÂnon scendere in EgittoÂÂ, perciò ÂÂandò a Gerar presso Abimelech, re dei Filistei e ÂÂdimorò in Gerar (Gn 26,1-6). Nella storia di Giacobbe, una carestia generalizzata ha una parte decisiva: ÂÂLa carestia dominava su tutta la terra [ ]. E da tutti i paesi venivano in Egitto per acquistare grano da Giuseppe, perché la carestia infieriva su tutta la terra (Gn 41,56.57). In un primo tempo, Giacobbe mandò i suoi figli a comprare grano in Egitto, ma poiché ÂÂla carestia continuava a gravare sul paese (Gn 43,1) e si prevedeva che sarebbe durata ancora (cf. Gn 45,6), Giuseppe fece venire in Egitto suo padre con tutta la famiglia (Gn 45,9-11.46). Al faraone dissero: ÂÂSiamo venuti per soggiornare (gur) come forestieri nel paese, perché non cÂÂè più pascolo per i tuoi servi; infatti è grave la carestia nel paese di Canaan (Gn 47,4). In Egitto i discendenti di Giacobbe ÂÂprolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto potenti e il paese ne fu ripieno (Es 1,17), ma non smisero di essere considerati degli immigrati e quando ÂÂsorse sullÂÂEgitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe (Es 1,8), la loro sorte diventò penosissima, perché ÂÂsi cominciò a sentire come un incubo la presenza dei figli dÂÂIsraele. Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli dÂÂIsraele trattandoli duramente. Resero loro amara la vita (Es 1,12-14). LÂÂEsodo pose fine a questa dura esperienza, ma essa rimase radicata nella memoria del popolo dÂÂIsraele. Altri esempi di migrazioni provocate dalla carestia vengono riferiti nei periodi successivi. Il Libro di Rut, ad esempio, incomincia col raccontare che ÂÂci fu nel paese una carestia e un uomo di Betlemme di Giuda emigrò (gur) nella campagna di Moab con la moglie e i due figli. [ ] Giunti nella campagna di Moab, vi si stabilirono (Rt 1,1.2). Il ciclo di Elia incomincia similmente con un tempo di carestia, che spinge il profeta a cercare rifugio fuori della terra dÂÂIsraele, in Zarepta di Sidone, e a rimanervi a lungo (1Re 17). In un altro tempo di carestia, il profeta Eliseo spinge allÂÂemigrazione ÂÂla donna a cui aveva risuscitato il figlioÂÂ, perché prevedeva che la carestia sarebbe durata sette anni (cf. 2Re 8,1-2). Altre circostanze potevano provocare migrazioni, in particolare le situazioni di pericolo o di conflitto. Per essere intervenuto con estremo vigore contro ÂÂun Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli (Es 2,11-12), Mosè si trovò in pericolo di condanna a morte e perciò fuggì in un altro paese: ÂÂSi allontanò dal faraone e si stabilì nel paese di Madian (Es 2,14-15). Perseguito da Saul, Davide non trovò altra soluzione che il rifugiarsi dai Filistei per molto tempo. Era, però, un rifugiato politico di genere particolare, giacché portava con sé una truppa di ÂÂseicento uomini (1Sam 27,2), con la quale partiva a fare razzie fuori del territorio dei Filistei (27,8-11). Un altro caso è quello di Geroboamo, che Salomone cercava di uccidere, perché era divenuto suo rivale; ÂÂtrovò rifugio in Egitto [ ] fino alla morte di Salomone (1Re 11,40). Anche le guerre provocano migrazioni. Un oracolo dÂÂIsaia parla dei rifugiati di Moab dopo una offensiva di un ÂÂdevastatoreÂÂ, probabilmente un re di Assiria. Il profeta invita i suoi connazionali ad accoglierli come immigrati: ÂÂSiano i tuoi ospiti (gur) i dispersi di Moab; sii loro rifugio di fronte al devastatore (Is 16,4). Nel Libro di Geremia, un passo parla dei Recabiti, un clan rimasto fedele alle usanze della vita nel deserto e deciso a ÂÂvivere da forestieri (ger) sulla terra (Ger 35,7). Dichiarano: ÂÂQuando Nabucodonosor re di Babilonia è venuto contro il paese, ci siamo detti: Venite, entriamo in Gerusalemme per sfuggire allÂÂesercito dei Caldei e a quello degli Aramei. Così siamo venuti ad abitare in Gerusalemme (Ger 35,11). I migranti costituiscono una categoria sociale molto vulnerabile. Non fanno parte del popolo in mezzo al quale vivono. Perciò sono facilmente disprezzati, sospettati, oppressi. La situazione degli Israeliti in Egitto è paradigmatica in proposito. Però dopo lÂÂinsediamento nella terra della promessa, gli stessi Israeliti erano tentati dÂÂinfliggere agli stranieri immigrati in mezzo a loro la sorte che essi stessi avevano subito in Egitto. E soccombettero talvolta a questa tentazione. Nella sua diatriba contro Gerusalemme, città sanguinaria, Ezechiele le rivolge questo rimprovero: ÂÂIn te si maltratta lÂÂimmigrato (Ez 22,7). Questo comportamento non era una esclusività della città; il rimprovero valeva ugualmente per la campagna: ÂÂGli abitanti della campagna commettono violenze e si danno alla rapina, [ ] maltrattano lÂÂimmigrato, contro ogni diritto (Ez 22,29). Nel suo decisivo discorso alla porta del tempio, Geremia indicava, tra altre condizioni da adempiersi per evitare la distruzione, il ÂÂnon opprimere lÂÂimmigrato (Ger 7,6; 22,3). Similmente, il profeta Zaccaria trasmetteva al popolo la messa in guardia di Dio contro il ÂÂfrodare lÂÂimmigrato nonché il rimprovero di Dio dÂÂindocilità in materia (Zc 7,10-11). In un oracolo di Malachia, Dio annuncia: ÂÂIo mi accosterò a voi per il giudizio e sarò un testimone pronto [ ] contro chi fa torto allÂÂimmigrato (Ml 3,5). La legge di Mosè si preoccupa di assicurare allÂÂimmigrato una protezione giuridica. Nel primo capitolo del Deuteronomio, Mosè ricorda che sin dallÂÂinizio aveva dato questÂÂordine ai giudici: ÂÂGiudicate con giustizia le questioni che uno può avere con il fratello o con lo straniero che sta presso di lui (letteralmente: ÂÂcon il gher di luiÂÂ) (Dt 1,16). La legge vieta di ÂÂdefraudare il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno degli immigrati che stanno nel tuo paese, nelle tue città. Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, [ ] così egli non griderà contro di te al Signore e tu non sarai in peccato (Dt 24,14-15). Regolarmente la Legge mette insieme, per proteggerle, tre categorie sfavorite: lÂÂimmigrato, lÂÂorfano e la vedova: ÂÂNon lederai il diritto dellÂÂimmigrato o dellÂÂorfano e non prenderai in pegno la veste della vedova (Dt 24,17). ÂÂMaledetto chi lede il diritto dellÂÂimmigrato, dellÂÂorfano e della vedova (Dt 27,19). Positivamente, la Legge riserva a queste tre categorie certi diritti, in particolare il diritto di spigolare dopo la mietitura. La Legge si prende cura di dare precisazioni in proposito: ÂÂQuando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lÂÂimmigrato (gher), per lÂÂorfano e per la vedova (Dt 24,19). La stessa prescrizione viene data a proposito della raccolta delle olive (ÂÂnon tornerai indietro a ripassare i ramiÂÂ) e a proposito della vendemmia (ÂÂnon tornerai indietro a racimolareÂÂ); ogni volta la destinazione è la stessa: ÂÂsarà per lÂÂimmigrato, per lÂÂorfano e per la vedova (Dt 24,20.21). I motivi che appoggiano le prescrizioni della Legge a favore degli immigrati sono di genere e di valore diversi. Un motivo spesso invocato è il ricordo della propria esperienza storica: ÂÂNon molesterai lÂÂimmigrato né lo opprimerai, perché voi siete stati immigrati nel paese dÂÂEgitto (Es 29,20), ÂÂNon opprimerai lÂÂimmigrato; anche voi conoscete lÂÂanima dellÂÂimmigrato, perché siete stati immigrati nel paese dÂÂEgitto (Es 23,9), ÂÂTi ricorderai che sei stato schiavo nel paese dÂÂEgitto; perciò ti comando di fare questa cosa (Dt 24,22). A causa di questa esperienza storica, gli Israeliti debbono essere propensi a immedesimarsi negli immigrati. Perciò la Legge non esita ad estendere agli immigrati il precetto dellÂÂamore del prossimo, ÂÂamerai il tuo prossimo come te stessoÂÂ, il quale, nel suo contesto, si applica direttamente ai ÂÂfigli del tuo popolo (Lv 19,18). ÂÂLÂÂimmigrato dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu lÂÂamerai come te stesso, perché anche voi siete stati immigrati nel paese dÂÂEgitto (Lv 19,34). A questo motivo storico alcuni testi aggiungono la considerazione della situazione presente. La condizione da immigrati non era soltanto, per gli Israeliti, una situazione di un lontano passato; era anche una realtà sempre presente. Lo dichiara Dio: ÂÂLa terra è mia e voi siete presso di me come immigrati e inquilini (Lv 25,23). Questa dichiarazione non rimane teorica ma si traduce nei fatti: ÂÂPerciò, in tutto il paese che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per quanto riguarda il suolo (Lv 25,24). La legislazione del giubileo poggia su questa base. Nel salmo 39 (38), lÂÂorante riconosce che la sua situazione non è diversa da quella dei Patriarchi, che non possedevano una terra: ÂÂio sono un immigrato, uno straniero come tutti i miei padri (Sal 39,13). Egli si presenta così a Dio per implorare la sua pietà e fa quindi intendere nel contempo che la sorte dellÂÂimmigrato è pietosa. Anche nel salmo 119 (118) il salmista dichiara: ÂÂIo sono un immigrato sulla terra (119,19). Chi si riconosce immigrato ha tutti i motivi di comprensione, compassione e solidarietà per gli altri immigrati. Un motivo più profondo ancora viene dato nel Deuteronomio, cioè lÂÂamore di Dio stesso per lÂÂimmigrato. ÂÂIl Dio grande, forte e terribile [ ] ama lÂÂimmigrato e gli dà pane e vestito. Amate dunque lÂÂimmigrato (Dt 10,17.19). LÂÂamore di Dio per lÂÂimmigrato si era manifestato nei fatti. A proposito dei Patriarchi, infatti, un salmo ricorda che ÂÂerano in poco numero, pochi e immigrati in quella terraÂÂ, ma Dio ÂÂnon permise che alcuno li opprimesse (Sal 105/104,12-14). Il salmo richiama poi dettagliatamente gli interventi divini dellÂÂEsodo per liberare gli Israeliti immigrati dallÂÂoppressione che subivano in Egitto (Sal 105,26-37). II. I migranti nel Nuovo Testamento LÂÂAntico Testamento ci offre dunque molte prospettive sulla situazione dei migranti e sullÂÂaccoglienza loro dovuta. Il Nuovo Testamento accoglie queste prospettive e le approfondisce. Negli Atti degli Apostoli, il discorso di Stefano ricorda dettagliatamente parecchi episodi di migrazione. Il primo episodio è quello di Abramo. Ai Giudei Stefano dichiara: ÂÂDio lo fece emigrare in questo paese dove voi ora abitate, ma non gli diede alcuna proprietà in esso (At 7,5). Subito dopo viene citata la predizione di Gn 15,13-14 che annunciava il soggiorno della discendenza di Abramo ÂÂin terra straniera in qualità di ÂÂparoikosÂÂ, cioè di immigrato, annunciava anche la conseguente oppressione, nonché lÂÂintervento divino di liberazione (At 7,6-7). Il discorso continua con la storia di Giuseppe, immigrato forzato, lÂÂarrivo di Giacobbe in Egitto, lÂÂoppressione, la fuga di Mosè nella terra di Madian, lÂÂepisodio del roveto ardente, gli eventi dellÂÂEsodo. La catechesi cristiana non poteva dimenticare tutte queste migrazioni attraverso le quali Dio adempiva il suo disegno di salvezza. Questo tanto meno che Gesù stesso, secondo il vangelo, aveva vissuto, nella sua fanciullezza, un riassunto dellÂÂemigrazione in Egitto e del ritorno in Terra promessa. A Giuseppe un angelo apparso in sogno aveva detto: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderloÂÂ. Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre, e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,13-15). LÂÂevangelista mette esplicitamente questi eventi in relazione con lÂÂoracolo di Osea in cui Dio ricordava lÂÂEsodo dÂÂIsraele: ÂÂDallÂÂEgitto ho chiamato il figlio mio (Os 11,1; Mt 2,15). LÂÂIstruzione ÂÂErga migrantes non manca di ricordare, nel suo n. 15, tutto questo. Nel suo capitolo sulla fede degli ÂÂantichiÂÂ, la Lettera agli Ebrei, dal suo canto, sÂÂinteressa specialmente della situazione dei migranti, che costituisce una prova per la fede, ma anche una situazione favorevole a un progresso della fede. ÂÂPer fede [Abramo] soggiornò nella terra promessa come in terra altrui, abitando in tende, come Isacco e Giacobbe, coeredi della stessa promessa (Eb 11,9). Secondo lÂÂautore, questa situazione da immigrato distaccò il Patriarca dai possedimenti terreni e lÂÂorientò verso le realtà più stabili: ÂÂEgli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio (Eb 11,10). Ispirandosi a una dichiarazione di Abramo che presentava se stesso come ÂÂimmigrato e pellegrino (Gn 23,4), lÂÂautore estende questi appellativi ai Patriarchi, dicendo che ÂÂavevano riconosciuto di essere stranieri e pellegrini sulla terra (Eb 11,13). Di nuovo lÂÂautore interpreta questa dichiarazione come il segno di un orientamento spirituale verso le realtà definitive, quelle escatologiche. Egli scrive: ÂÂChi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria (Eb 11,14), poi aggiunge: ÂÂSe avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; in realtà, essi aspirano a una migliore, cioè a una celeste (Eb 11,15-16). Soltanto un tale orientamento spirituale li poteva rendere degni di Dio e del suo progetto: ÂÂPer questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio (Eb 11,16), dicendo cioè a Mosè: ÂÂIo sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe (Es 3,6.15.16; Mt 22,32 e par.; At 3,13). Per loro Dio attuò il suo progetto: ÂÂegli preparò per loro una città (Eb 11,16), la ÂÂGerusalemme celeste (Eb 12,22). NellÂÂultimo capitolo della Lettera, lÂÂautore mostra che la situazione dei cristiani è analoga a quella dei patriarchi: non hanno ÂÂquaggiù una città stabileÂÂ, ma vanno ÂÂin cerca di quella futura (Eb 13,14). Questa situazione da migranti viene messa in rapporto con la Passione di Cristo, la quale ebbe un aspetto di esilio: ÂÂegli soffrì fuori della porta [della città] (Eb 13,12). Effettivamente, la Passione segnò una rottura radicale con la patria terrena, rottura imposta a Gesù con la più crudele delle ingiustizie. Ne segue che, per essere suoi discepoli, bisogna accettare spiritualmente non solo una situazione da migranti, ÂÂuscendo verso di lui fuori dellÂÂaccampamento (Eb 13,13), ma una situazione peggiore, quella delle persone bandite, proscritte, una situazione di ÂÂobbrobrioÂÂ. I cristiani sono chiamati a ÂÂportare lÂÂobbrobrio di Cristo (Eb 13,13). Questo li spinge a sentirsi fratelli dei migranti, che sono spesso disprezzati e oppressi. LÂÂautore invita i cristiani a ÂÂnon dimenticare la philoxenia (Eb 13,2), la quale è lÂÂesatto contrario della xenofobia, atteggiamento ostile agli stranieri, del quale sono spesso vittime gli immigrati. Il cristiano deve, invece, essere ÂÂamico (philos) dello straniero (xenos)ÂÂ, accogliente quindi allÂÂimmigrato. Deve ricordarsi dei carcerati, come se fosse loro compagno di carcere, e di quelli che sono maltrattati, consapevole della propria condizione corporale (Eb 13,3). Bisogna, tuttavia, osservare che, tra la situazione dei cristiani e quella dei Patriarchi, lÂÂanalogia non è completa. La situazione dei cristiani, infatti, deriva dal mistero di Cristo, il quale comprende, con la passione, la risurrezione, che è lÂÂinaugurazione del mondo futuro, della città futura. Ne risulta per i cristiani una situazione paradossale, che sta in stretta relazione, simultaneamente, con la passione e con la risurrezione. La città futura esiste ormai. Nel mistero pasquale di Cristo, Dio ha preparato la città alla quale aspiravano i patriarchi. Ai cristiani lÂÂautore non esita a dire: ÂÂVoi vi siete accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste (Eb 12,22). Altrove dice: ÂÂNoi entriamo nel riposo [di Dio], noi che siamo venuti alla fede (Eb 4,3). Nondimeno i cristiani sono sottoposti a molte prove e sofferenze e hanno bisogno di coraggiosa ÂÂsopportazione (Eb 10,36; cf. 12,1-12) per poter entrare definitivamente nella Gerusalemme celeste. Questa situazione li apre alla compassione (cf. Eb 10,33). Vengono invitati a praticare generosamente la ÂÂsolidarietà (koinonia: Eb 13,16). Non possono rimanere insensibili alla sorte, spesso pietosa, dei migranti. Nel vangelo, con la parabola del Buon samaritano Gesù insegna che il precetto dellÂÂamore per il prossimo ha unÂÂapertura universale e si applica ad ogni persona umana che si trova in una situazione di necessità (Lc 10,30-37). LÂÂuomo che ÂÂscendeva da Gerusalemme a Gerico poteva benissimo essere un migrante. La parabola, comunque, va senzÂÂaltro applicata ai migranti nella loro situazione disagiata. Bisogna ÂÂaver compassione di loro e ÂÂfarsi vicino (Lc 10,33-34) per accoglierli ed aiutarli. DÂÂaltronde la dichiarazione divina di Lv 25,23 vale per i cristiani in un modo ancora più radicale che per gli Israeliti: ÂÂLa terra è mia e voi siete presso di me come immigrati e inquilini. Infatti, per poter essere discepolo di Gesù, bisogna ÂÂrinunciare a tutti i propri averi (Lc 14,33), considerarsi, dÂÂaltra parte, cittadino del cielo (cf. Fil 3,20) e quindi residente temporaneo sulla terra. Nella sua Prima Lettera, san Pietro si rivolge ai cristiani con lÂÂappellativo parepidemoi, cioè ÂÂstranieri residenti temporanei (1Pt 1,1), applicato da Abramo a se stesso in Gn 20,4 (LXX) e ai Patriarchi nella Lettera agli Ebrei (Eb 11,13); Pietro vi aggiunge la precisazione ÂÂdi diasporaÂÂ, ÂÂdi dispersioneÂÂ, il che aggrava ancora la situazione. Più avanti, aggiunge lÂÂappellativo paroikos, cioè ÂÂstraniero residente (1Pt 2,11) che si trova similmente in Gn 20,4 (LXX). Per la relazione con gli immigrati, questa situazione spirituale dei cristiani ha normalmente due effetti: il primo è una capacità di migliore comprensione grazie a una somiglianza di situazione, il secondo è una più grande prontezza ad aiutare; infatti, chi vive nel distacco dai propri averi è disposto a servirsene per venire in aiuto ai bisognosi. Pietro raccomanda di praticare lÂÂospitalità ÂÂsenza mormorare (1Pt 4,9). In questo egli sÂÂincontra con la Lettera agli Ebrei, come abbiamo visto (Eb 13,2), e con la Lettera di Paolo ai Romani, che invita a ÂÂperseguire la philoxenia (Rm 12,13), e con le Lettere Pastorali. La Prima a Timoteo dichiara: ÂÂBisogna che lÂÂepiskopos sia [ ] ospitale (philoxenos) (1Tm 3,2). La Lettera a Tito lo ribadisce (Tt 1,7-8). È vero che si tratta anzitutto di accogliere generosamente gli stranieri che sono fratelli nella fede, ma la carità non può escludere nessuno, perché Cristo ÂÂè morto per tuttiÂÂ, come dice lÂÂapostolo Paolo precisamente nel passo in cui proclama che ÂÂla carità di Cristo ci spinge (2Cor 5,14; cf. Rm 5,18). Il passo del Nuovo testamento che spinge maggiormente a una carità generosa verso tutti i bisognosi e, in particolare, verso i migranti, è senzÂÂaltro la scena del giudizio universale quale viene descritta nel vangelo di Matteo, perché in questa scena Cristo si immedesima con loro. Tra i bisognosi, Gesù ha cura di nominare gli stranieri. ÂÂTutte le genti (Mt 25,32) verranno giudicate in base al loro comportamento verso di loro. Agli uni il Re dirà: ÂÂEro straniero (xenos) e mi avete ospitato (Mt 25,35), agli altri, al contrario: ÂÂEro straniero e non mi avete ospitato (Mt 25,43). ÂÂE se ne andranno, questi al castigo eterno, e i giusti alla vita eterna (Mt 25,46). Non era possibile esprimere con maggior vigore lÂÂesigenza divina di effettiva solidarietà con i bisognosi e, in particolare, con i migranti. Dopo lÂÂincarnazione del Figlio di Dio, che si è fatto solidale con tutti gli uomini, e in modo speciale con gli emarginati, lÂÂurgenza della solidarietà è diventata estrema. I fondamenti biblici dell'Istruzione ÂÂErga migrantes caritas Christi hanno quindi la più grande saldezza.
[1] Cf. lÂÂarticolo di D. KELLERMANN in
Theologisches Wörterbuch zum Alten Testament, Kohlhammer, Stuttgart 1973, Band I, 979-991.
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