The Holy See
back up
Search
riga

 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 98, August 2005 

 

 

I fondamenti biblici dellÂ’Istruzione

“Erga migranteS caritas Christi”

 

 

Rev. P. Albert Vanhoye, S.J.

Pontificio Istituto Biblico

Roma

 

Sin dalle sue prime parole la recente Istruzione del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti manifesta la sua ispirazione biblica. Infatti, subito dopo la menzione dei migranti, “Erga migrantes”, viene citata una frase della Seconda Lettera dellÂ’apostolo Paolo ai Corinzi: “Caritas Christi urget nos” (2Cor 5,14). Questa frase esprime ottimamente lÂ’impulso che ispira la pastorale per i migranti, un impulso di amore che proviene dal Cuore di Cristo e si preoccupa di aiutare persone che vivono in condizioni di vita disagiate. Tutta lÂ’Istruzione manifesta una viva sollecitudine per i migranti, una perspicace attenzione ai loro problemi in tutta la loro complessità e uno sforzo continuo per contribuire a risolverli.

Nella sua Parte I, lÂ’Istruzione comincia con il proporre una “visione di fede del fenomeno migratorio”, visione basata evidentemente sulla rivelazione biblica. Ne dà subito testimonianza la prima frase: «La Chiesa ha sempre contemplato nei migranti lÂ’immagine di Cristo, che disse: “Ero straniero e mi avete ospitato” (Mt 25,35)». Viene poi ricordato il posto importante delle migrazioni nella storia della salvezza, fino al suo compimento in Cristo e al suo prolungamento nella “Chiesa della pentecoste”. 

I. I migranti nellÂ’Antico Testamento

LÂ’Antico Testamento parla spesso di migranti, sia individuali che a gruppi. Per designarli usa un termine specifico, gher, dalla radice gur[1].

Varie erano le ragioni che spingevano le persone a diventare migranti.

La storia di Abramo dimostra che si può diventare migrante per vocazione. È Dio infatti che ordina ad Abramo: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che ti indicherò” (Gn 12,1). Abramo si incamminò “verso il paese di Canaan” (Gn 12,5), e vi condusse una vita itinerante da “immigrato” (gher: Gn 23,4), perché Dio non gli diede il paese, ma promise soltanto di darlo alla sua discendenza (Gn 12,6). Si può dire che la storia del Patriarca getta una luce molto positiva sulla condizione dei migranti, anche se è eccezionale.

Le ragioni che provocavano le migrazioni erano abitualmente più materiali. Quella che appare più spesso è la carestia, la fame. Il primo esempio, nel Libro della Genesi, è quello di Abramo: “Venne una carestia nel paese e Abramo scese in Egitto per soggiornarvi (gur), perché la fame gravava sul paese” (Gn 12,10). La storia si ripete poi con Isacco: “Venne una carestia nel paese oltre la prima che era avvenuta ai tempi di Abramo” (Gn 26,1). Isacco, però, riceve dal Signore lÂ’ordine di “non scendere in Egitto”, perciò “andò a Gerar presso Abimelech, re dei Filistei” e “dimorò in Gerar” (Gn 26,1-6). Nella storia di Giacobbe, una carestia generalizzata ha una parte decisiva: “La carestia dominava su tutta la terra [Â…]. E da tutti i paesi venivano in Egitto per acquistare grano da Giuseppe, perché la carestia infieriva su tutta la terra” (Gn 41,56.57). In un primo tempo, Giacobbe mandò i suoi figli a comprare grano in Egitto, ma poiché “la carestia continuava a gravare sul paese” (Gn 43,1) e si prevedeva che sarebbe durata ancora (cf. Gn 45,6), Giuseppe fece venire in Egitto suo padre con tutta la famiglia (Gn 45,9-11.46). Al faraone dissero: “Siamo venuti per soggiornare (gur) come forestieri nel paese, perché non cÂ’è più pascolo per i tuoi servi; infatti è grave la carestia nel paese di Canaan” (Gn 47,4). In Egitto i discendenti di Giacobbe “prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto potenti e il paese ne fu ripieno” (Es 1,17), ma non smisero di essere considerati degli immigrati e quando “sorse sullÂ’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe” (Es 1,8), la loro sorte diventò penosissima, perché “si cominciò a sentire come un incubo la presenza dei figli dÂ’Israele. Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli dÂ’Israele trattandoli duramente. Resero loro amara la vita” (Es 1,12-14). LÂ’Esodo pose fine a questa dura esperienza, ma essa rimase radicata nella memoria del popolo dÂ’Israele.

Altri esempi di migrazioni provocate dalla carestia vengono riferiti nei periodi successivi. Il Libro di Rut, ad esempio, incomincia col raccontare che “ci fu nel paese una carestia e un uomo di Betlemme di Giuda emigrò (gur) nella campagna di Moab con la moglie e i due figli. [Â…] Giunti nella campagna di Moab, vi si stabilirono” (Rt 1,1.2). Il ciclo di Elia incomincia similmente con un tempo di carestia, che spinge il profeta a cercare rifugio fuori della terra dÂ’Israele, in Zarepta di Sidone, e a rimanervi a lungo (1Re 17). In un altro tempo di carestia, il profeta Eliseo spinge allÂ’emigrazione “la donna a cui aveva risuscitato il figlio”, perché prevedeva che la carestia sarebbe durata sette anni (cf. 2Re 8,1-2).

Altre circostanze potevano provocare migrazioni, in particolare le situazioni di pericolo o di conflitto. Per essere intervenuto con estremo vigore contro “un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli” (Es 2,11-12), Mosè si trovò in pericolo di condanna a morte e perciò fuggì in un altro paese: “Si allontanò dal faraone e si stabilì nel paese di Madian” (Es 2,14-15). Perseguito da Saul, Davide non trovò altra soluzione che il rifugiarsi dai Filistei per molto tempo. Era, però, un rifugiato politico di genere particolare, giacché portava con sé una truppa di “seicento uomini” (1Sam 27,2), con la quale partiva a fare razzie fuori del territorio dei Filistei (27,8-11). Un altro caso è quello di Geroboamo, che Salomone cercava di uccidere, perché era divenuto suo rivale; “trovò rifugio in Egitto [Â…] fino alla morte di Salomone” (1Re 11,40). Anche le guerre provocano migrazioni. Un oracolo dÂ’Isaia parla dei rifugiati di Moab dopo una offensiva di un “devastatore”, probabilmente un re di Assiria. Il profeta invita i suoi connazionali ad accoglierli come immigrati: “Siano i tuoi ospiti (gur) i dispersi di Moab; sii loro rifugio di fronte al devastatore” (Is 16,4). Nel Libro di Geremia, un passo parla dei Recabiti, un clan rimasto fedele alle usanze della vita nel deserto e deciso a “vivere da forestieri (ger) sulla terra” (Ger 35,7). Dichiarano: “Quando Nabucodonosor re di Babilonia è venuto contro il paese, ci siamo detti: Venite, entriamo in Gerusalemme per sfuggire allÂ’esercito dei Caldei e a quello degli Aramei. Così siamo venuti ad abitare in Gerusalemme” (Ger 35,11).

I migranti costituiscono una categoria sociale molto vulnerabile. Non fanno parte del popolo in mezzo al quale vivono. Perciò sono facilmente disprezzati, sospettati, oppressi. La situazione degli Israeliti in Egitto è paradigmatica in proposito. Però dopo lÂ’insediamento nella terra della promessa, gli stessi Israeliti erano tentati dÂ’infliggere agli stranieri immigrati in mezzo a loro la sorte che essi stessi avevano subito in Egitto. E soccombettero talvolta a questa tentazione. Nella sua diatriba contro Gerusalemme, città sanguinaria, Ezechiele le rivolge questo rimprovero: “In te si maltratta lÂ’immigrato” (Ez 22,7). Questo comportamento non era una esclusività della città; il rimprovero valeva ugualmente per la campagna: “Gli abitanti della campagna commettono violenze e si danno alla rapina, [Â…] maltrattano lÂ’immigrato, contro ogni diritto” (Ez 22,29). Nel suo decisivo discorso alla porta del tempio, Geremia indicava, tra altre condizioni da adempiersi per evitare la distruzione, il “non opprimere lÂ’immigrato” (Ger 7,6; 22,3). Similmente, il profeta Zaccaria trasmetteva al popolo la messa in guardia di Dio contro il “frodare lÂ’immigrato” nonché il rimprovero di Dio dÂ’indocilità in materia (Zc 7,10-11). In un oracolo di Malachia, Dio annuncia: “Io mi accosterò a voi per il giudizio e sarò un testimone pronto [Â…] contro chi fa torto allÂ’immigrato” (Ml 3,5).

La legge di Mosè si preoccupa di assicurare allÂ’immigrato una protezione giuridica. Nel primo capitolo del Deuteronomio, Mosè ricorda che sin dallÂ’inizio aveva dato questÂ’ordine ai giudici: “Giudicate con giustizia le questioni che uno può avere con il fratello o con lo straniero che sta presso di lui (letteralmente: “con il gher di lui”)” (Dt 1,16). La legge vieta di “defraudare il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno degli immigrati che stanno nel tuo paese, nelle tue città. Gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, [Â…] così egli non griderà contro di te al Signore e tu non sarai in peccato” (Dt 24,14-15). Regolarmente la Legge mette insieme, per proteggerle, tre categorie sfavorite: lÂ’immigrato, lÂ’orfano e la vedova: “Non lederai il diritto dellÂ’immigrato o dellÂ’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova” (Dt 24,17). “Maledetto chi lede il diritto dellÂ’immigrato, dellÂ’orfano e della vedova” (Dt 27,19).

Positivamente, la Legge riserva a queste tre categorie certi diritti, in particolare il diritto di spigolare dopo la mietitura. La Legge si prende cura di dare precisazioni in proposito: “Quando, facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mannello, non tornerai indietro a prenderlo; sarà per lÂ’immigrato (gher), per lÂ’orfano e per la vedova” (Dt 24,19). La stessa prescrizione viene data a proposito della raccolta delle olive (“non tornerai indietro a ripassare i rami”) e a proposito della vendemmia (“non tornerai indietro a racimolare”); ogni volta la destinazione è la stessa: “sarà per lÂ’immigrato, per lÂ’orfano e per la vedova” (Dt 24,20.21).

I motivi che appoggiano le prescrizioni della Legge a favore degli immigrati sono di genere e di valore diversi. Un motivo spesso invocato è il ricordo della propria esperienza storica: “Non molesterai lÂ’immigrato né lo opprimerai, perché voi siete stati immigrati nel paese dÂ’Egitto” (Es 29,20), “Non opprimerai lÂ’immigrato; anche voi conoscete lÂ’anima dellÂ’immigrato, perché siete stati immigrati nel paese dÂ’Egitto” (Es 23,9), “Ti ricorderai che sei stato schiavo nel paese dÂ’Egitto; perciò ti comando di fare questa cosa” (Dt 24,22). A causa di questa esperienza storica, gli Israeliti debbono essere propensi a immedesimarsi negli immigrati. Perciò la Legge non esita ad estendere agli immigrati il precetto dellÂ’amore del prossimo, “amerai il tuo prossimo come te stesso”, il quale, nel suo contesto, si applica direttamente ai “figli del tuo popolo” (Lv 19,18). “LÂ’immigrato dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu lÂ’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati immigrati nel paese dÂ’Egitto” (Lv 19,34).

A questo motivo storico alcuni testi aggiungono la considerazione della situazione presente. La condizione da immigrati non era soltanto, per gli Israeliti, una situazione di un lontano passato; era anche una realtà sempre presente. Lo dichiara Dio: “La terra è mia e voi siete presso di me come immigrati e inquilini” (Lv 25,23). Questa dichiarazione non rimane teorica ma si traduce nei fatti: “Perciò, in tutto il paese che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per quanto riguarda il suolo” (Lv 25,24). La legislazione del giubileo poggia su questa base. Nel salmo 39 (38), lÂ’orante riconosce che la sua situazione non è diversa da quella dei Patriarchi, che non possedevano una terra: “io sono un immigrato, uno straniero come tutti i miei padri” (Sal 39,13). Egli si presenta così a Dio per implorare la sua pietà e fa quindi intendere nel contempo che la sorte dellÂ’immigrato è pietosa. Anche nel salmo 119 (118) il salmista dichiara: “Io sono un immigrato sulla terra” (119,19). Chi si riconosce immigrato ha tutti i motivi di comprensione, compassione e solidarietà per gli altri immigrati.

Un motivo più profondo ancora viene dato nel Deuteronomio, cioè lÂ’amore di Dio stesso per lÂ’immigrato. “Il Dio grande, forte e terribile [Â…] ama lÂ’immigrato e gli dà pane e vestito. Amate dunque lÂ’immigrato” (Dt 10,17.19). LÂ’amore di Dio per lÂ’immigrato si era manifestato nei fatti. A proposito dei Patriarchi, infatti, un salmo ricorda che “erano in poco numero, pochi e immigrati in quella terra”, ma Dio “non permise che alcuno li opprimesse” (Sal 105/104,12-14). Il salmo richiama poi dettagliatamente gli interventi divini dellÂ’Esodo per liberare gli Israeliti immigrati dallÂ’oppressione che subivano in Egitto (Sal 105,26-37). 

II. I migranti nel Nuovo Testamento

LÂ’Antico Testamento ci offre dunque molte prospettive sulla situazione dei migranti e sullÂ’accoglienza loro dovuta. Il Nuovo Testamento accoglie queste prospettive e le approfondisce. Negli Atti degli Apostoli, il discorso di Stefano ricorda dettagliatamente parecchi episodi di migrazione. Il primo episodio è quello di Abramo. Ai Giudei Stefano dichiara: “Dio lo fece emigrare in questo paese dove voi ora abitate, ma non gli diede alcuna proprietà in esso” (At 7,5). Subito dopo viene citata la predizione di Gn 15,13-14 che annunciava il soggiorno della discendenza di Abramo “in terra straniera” in qualità di “paroikos”, cioè di immigrato, annunciava anche la conseguente oppressione, nonché lÂ’intervento divino di liberazione (At 7,6-7). Il discorso continua con la storia di Giuseppe, immigrato forzato, lÂ’arrivo di Giacobbe in Egitto, lÂ’oppressione, la fuga di Mosè nella terra di Madian, lÂ’episodio del roveto ardente, gli eventi dellÂ’Esodo. La catechesi cristiana non poteva dimenticare tutte queste migrazioni attraverso le quali Dio adempiva il suo disegno di salvezza. Questo tanto meno che Gesù stesso, secondo il vangelo, aveva vissuto, nella sua fanciullezza, un riassunto dellÂ’emigrazione in Egitto e del ritorno in Terra promessa. A Giuseppe un angelo apparso in sogno aveva detto: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”. Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre, e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode» (Mt 2,13-15). LÂ’evangelista mette esplicitamente questi eventi in relazione con lÂ’oracolo di Osea in cui Dio ricordava lÂ’Esodo dÂ’Israele: “DallÂ’Egitto ho chiamato il figlio mio” (Os 11,1; Mt 2,15). LÂ’Istruzione “Erga migrantes” non manca di ricordare, nel suo n. 15, tutto questo.

Nel suo capitolo sulla fede degli “antichi”, la Lettera agli Ebrei, dal suo canto, sÂ’interessa specialmente della situazione dei migranti, che costituisce una prova per la fede, ma anche una situazione favorevole a un progresso della fede. “Per fede [Abramo] soggiornò nella terra promessa come in terra altrui, abitando in tende, come Isacco e Giacobbe, coeredi della stessa promessa” (Eb 11,9). Secondo lÂ’autore, questa situazione da immigrato distaccò il Patriarca dai possedimenti terreni e lÂ’orientò verso le realtà più stabili: “Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio” (Eb 11,10). Ispirandosi a una dichiarazione di Abramo che presentava se stesso come “immigrato e pellegrino” (Gn 23,4), lÂ’autore estende questi appellativi ai Patriarchi, dicendo che “avevano riconosciuto di essere stranieri e pellegrini sulla terra” (Eb 11,13). Di nuovo lÂ’autore interpreta questa dichiarazione come il segno di un orientamento spirituale verso le realtà definitive, quelle escatologiche. Egli scrive: “Chi dice così, infatti, dimostra di essere alla ricerca di una patria” (Eb 11,14), poi aggiunge: “Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; in realtà, essi aspirano a una migliore, cioè a una celeste” (Eb 11,15-16). Soltanto un tale orientamento spirituale li poteva rendere degni di Dio e del suo progetto: “Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio” (Eb 11,16), dicendo cioè a Mosè: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6.15.16; Mt 22,32 e par.; At 3,13). Per loro Dio attuò il suo progetto: “egli preparò per loro una città” (Eb 11,16), la “Gerusalemme celeste” (Eb 12,22).

NellÂ’ultimo capitolo della Lettera, lÂ’autore mostra che la situazione dei cristiani è analoga a quella dei patriarchi: non hanno “quaggiù una città stabile”, ma vanno “in cerca di quella futura” (Eb 13,14). Questa situazione da migranti viene messa in rapporto con la Passione di Cristo, la quale ebbe un aspetto di esilio: “egli soffrì fuori della porta [della città]” (Eb 13,12). Effettivamente, la Passione segnò una rottura radicale con la patria terrena, rottura imposta a Gesù con la più crudele delle ingiustizie. Ne segue che, per essere suoi discepoli, bisogna accettare spiritualmente non solo una situazione da migranti, “uscendo verso di lui fuori dellÂ’accampamento” (Eb 13,13), ma una situazione peggiore, quella delle persone bandite, proscritte, una situazione di “obbrobrio”. I cristiani sono chiamati a “portare lÂ’obbrobrio” di Cristo (Eb 13,13).

Questo li spinge a sentirsi fratelli dei migranti, che sono spesso disprezzati e oppressi. LÂ’autore invita i cristiani a “non dimenticare la philoxenia” (Eb 13,2), la quale è lÂ’esatto contrario della xenofobia, atteggiamento ostile agli stranieri, del quale sono spesso vittime gli immigrati. Il cristiano deve, invece, essere “amico (philos) dello straniero (xenos)”, accogliente quindi allÂ’immigrato. Deve ricordarsi dei carcerati, come se fosse loro compagno di carcere, e di quelli che sono maltrattati, consapevole della propria condizione corporale (Eb 13,3).

Bisogna, tuttavia, osservare che, tra la situazione dei cristiani e quella dei Patriarchi, lÂ’analogia non è completa. La situazione dei cristiani, infatti, deriva dal mistero di Cristo, il quale comprende, con la passione, la risurrezione, che è lÂ’inaugurazione del mondo futuro, della città futura. Ne risulta per i cristiani una situazione paradossale, che sta in stretta relazione, simultaneamente, con la passione e con la risurrezione. La città futura esiste ormai. Nel mistero pasquale di Cristo, Dio ha preparato la città alla quale aspiravano i patriarchi. Ai cristiani lÂ’autore non esita a dire: “Voi vi siete accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste” (Eb 12,22). Altrove dice: “Noi entriamo nel riposo [di Dio], noi che siamo venuti alla fede” (Eb 4,3). Nondimeno i cristiani sono sottoposti a molte prove e sofferenze e hanno bisogno di coraggiosa “sopportazione” (Eb 10,36; cf. 12,1-12) per poter entrare definitivamente nella Gerusalemme celeste. Questa situazione li apre alla compassione (cf. Eb 10,33). Vengono invitati a praticare generosamente la “solidarietà” (koinonia: Eb 13,16). Non possono rimanere insensibili alla sorte, spesso pietosa, dei migranti.

Nel vangelo, con la parabola del Buon samaritano Gesù insegna che il precetto dellÂ’amore per il prossimo ha unÂ’apertura universale e si applica ad ogni persona umana che si trova in una situazione di necessità (Lc 10,30-37). LÂ’uomo che “scendeva da Gerusalemme a Gerico” poteva benissimo essere un migrante. La parabola, comunque, va senzÂ’altro applicata ai migranti nella loro situazione disagiata. Bisogna “aver compassione” di loro e “farsi vicino” (Lc 10,33-34) per accoglierli ed aiutarli.

DÂ’altronde la dichiarazione divina di Lv 25,23 vale per i cristiani in un modo ancora più radicale che per gli Israeliti: “La terra è mia e voi siete presso di me come immigrati e inquilini.” Infatti, per poter essere discepolo di Gesù, bisogna “rinunciare a tutti i propri averi” (Lc 14,33), considerarsi, dÂ’altra parte, cittadino del cielo (cf. Fil 3,20) e quindi residente temporaneo sulla terra. Nella sua Prima Lettera, san Pietro si rivolge ai cristiani con lÂ’appellativo parepidemoi, cioè “stranieri residenti temporanei” (1Pt 1,1), applicato da Abramo a se stesso in Gn 20,4 (LXX) e ai Patriarchi nella Lettera agli Ebrei (Eb 11,13); Pietro vi aggiunge la precisazione “di diaspora”, “di dispersione”, il che aggrava ancora la situazione. Più avanti, aggiunge lÂ’appellativo paroikos, cioè “straniero residente” (1Pt 2,11) che si trova similmente in Gn 20,4 (LXX). Per la relazione con gli immigrati, questa situazione spirituale dei cristiani ha normalmente due effetti: il primo è una capacità di migliore comprensione grazie a una somiglianza di situazione, il secondo è una più grande prontezza ad aiutare; infatti, chi vive nel distacco dai propri averi è disposto a servirsene per venire in aiuto ai bisognosi.

Pietro raccomanda di praticare lÂ’ospitalità “senza mormorare” (1Pt 4,9). In questo egli sÂ’incontra con la Lettera agli Ebrei, come abbiamo visto (Eb 13,2), e con la Lettera di Paolo ai Romani, che invita a “perseguire la philoxenia” (Rm 12,13), e con le Lettere Pastorali. La Prima a Timoteo dichiara: “Bisogna che lÂ’episkopos sia [Â…] ospitale (philoxenos)” (1Tm 3,2). La Lettera a Tito lo ribadisce (Tt 1,7-8).

È vero che si tratta anzitutto di accogliere generosamente gli stranieri che sono fratelli nella fede, ma la carità non può escludere nessuno, perché Cristo “è morto per tutti”, come dice lÂ’apostolo Paolo precisamente nel passo in cui proclama che “la carità di Cristo ci spinge” (2Cor 5,14; cf. Rm 5,18).

Il passo del Nuovo testamento che spinge maggiormente a una carità generosa verso tutti i bisognosi e, in particolare, verso i migranti, è senzÂ’altro la scena del giudizio universale quale viene descritta nel vangelo di Matteo, perché in questa scena Cristo si immedesima con loro. Tra i bisognosi, Gesù ha cura di nominare gli stranieri. “Tutte le genti” (Mt 25,32) verranno giudicate in base al loro comportamento verso di loro. Agli uni il Re dirà: “Ero straniero (xenos) e mi avete ospitato” (Mt 25,35), agli altri, al contrario: “Ero straniero e non mi avete ospitato” (Mt 25,43). “E se ne andranno, questi al castigo eterno, e i giusti alla vita eterna” (Mt 25,46). Non era possibile esprimere con maggior vigore lÂ’esigenza divina di effettiva solidarietà con i bisognosi e, in particolare, con i migranti. Dopo lÂ’incarnazione del Figlio di Dio, che si è fatto solidale con tutti gli uomini, e in modo speciale con gli emarginati, lÂ’urgenza della solidarietà è diventata estrema. I fondamenti biblici dell'Istruzione “Erga migrantes caritas Christi” hanno quindi la più grande saldezza.

 
[1] Cf. lÂ’articolo di D. KELLERMANN in Theologisches Wörterbuch zum Alten Testament, Kohlhammer, Stuttgart 1973, Band I, 979-991.

 

top