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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 101, August 2006

 

Articoli

 

UNA PARROCCHIA IN MEZZO AL MARE* 

 

«La mia parrocchia è tra le più grandi: ogni giorno vedo oltre quattromila facce. Quale prete con i piedi per terra può permettersi tanto? E in chiesa da me vengono nei giorni feriali almeno trenta o quaranta persone, alla Messa festiva almeno 400. Certo, non siamo né in cielo né in terra, siamo in alto mare, ma siamo in tanti e di tutte le razze Â…». Può permettersi scherzi e giochi di parole, don Luca Centurioni, 39 anni, cappellano di bordo sulle navi da crociera della «Costa», compagnia che da sempre riserva uno spazio alla cappella e dota le sue navi della presenza di un religioso.

Ma da scherzare cÂ’è poco, se si va oltre la superficie e si scava nei ritmi di vita che scandiscono mesi e mesi di navigazione: lo stesso don Luca, coordinatore nazionale dei cappellani di bordo, in questi giorni è sbarcato per riposare qualche giorno in terraferma dopo nove mesi interrotti passati in mare. Riposare dopo mesi di crociera, don Luca? Non le sembra una contraddizione? «Ho scelto questa attività da due anni, invogliato da don Giacomo Martino, direttore nazionale dellÂ’Apostolato del Mare, ufficio della Fondazione Migrantes, che a sua volta era stato imbarcato per anni. Ed è una scelta legata allo spirito di missionarietà: in genere la situazione che si incontra a bordo è molto difficile. Io ho a che fare con 1.050 uomini e donne dellÂ’equipaggio, molti dei quali stranieri, di varie lingue e religioni, e con 3.400 passeggeri di media, anche loro spesso stranieri. Ma lÂ’attività del cappellano di bordo è principalmente rivolta proprio allÂ’equipaggio, un popolo in cammino che ha tanto bisogno di una guida, una spalla su cui appoggiarsi, un orecchio sempre in ascolto».

Già, perché la vita sul mare, per chi non è in vacanza ma al lavoro, è molto diversa da quella tutta lusso e riposo che noi immaginiamo: 11 ore di lavoro al giorno, per contratto, poi il riposo in cuccette che ospitano più persone, su letti a castello. E soprattutto la lontananza dalla famiglia, dagli affetti, dalla propria casa. «Chi naviga da molto rischia di essersi del tutto allontanato dalla fede, qualunque fosse la sua religione, e io mi trovo a dover lavorare su un “materiale umano” povero, oltre che su tempi molto ristretti. Sa, chi ha lavorato 11 ore non ha tanta voglia di meditare o discutere, vuole solo chiudere gli occhi e riposare».

Ma la sfida è il pane quotidiano di don Luca, che come «responsabile del welfare dellÂ’equipaggio» si sente un poÂ’ il padre di tutti loro: «A bordo nulla può avvenire senza autorizzazione dei superiori, nemmeno una festa di compleanno. Così per lÂ’animazione, la palestra, la qualità dei cibi, la manutenzione delle cuccette, ma anche la distribuzione dei pacchi che di tanto in tanto arrivano da casa, ci sono io. E ci sono anche tutte le volte che qualcuno ha un problema, che scoppia una lite, che la crisi esistenziale o claustrofobica è in agguato, cosa non difficile quando per mesi si convive in spazi ristretti, a contatto tra genti diverse». Sulla sua nave, la «Costa Magica», lÂ’80% del personale è composto da cattolici, in buona parte però dellÂ’India (nella zona del Goa vivono i cristiani), del Sudamerica e delle Filippine. «Per il resto si tratta di islamici e induisti – racconta don Centurioni –. Ma il problema non sono le confessioni diverse, il vero guaio semmai può celarsi dietro lÂ’agnosticismo, lÂ’indifferenza religiosa. Troppo spesso i ritmi serrati e un lavoro ripetitivo, privo di stimoli, spengono la voglia di pregare, di credere in qualcosa. Ma sono tante le occasioni in cui però basta una parola, una mano nel bisogno, un consiglio, e la scintilla si riaccende». EÂ’ successo anche nel dramma, quando un membro dellÂ’equipaggio è morto dÂ’infarto a soli 27 anni. «Tutti si sono raccolti attorno a me, attoniti, aspettavano da me una parola, una spiegazione, un perché della vita e della morte». Ma è successo anche nella gioia, quando grazie a don Luca un cameriere indiano induista e una cabinista russa ortodossa si sono incontrati e poi innamorati: «Per mesi ho raccolto le loro confidenze, ora mi hanno chiesto di sposarli. Ho detto loro che la soluzione giuridica non è certo facile, sa cosa mi hanno risposto? Che a loro basta avere la benedizione di Dio sulla loro unione». 

di Lucia BELLASPIGA



*Questa testimonianza di don Luca Centurioni, cappellano di bordo su una nave da crociera, è tratta da Avvenire, mercoledì 30 marzo 2005, p.16.

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LA DURA VITA DEI LAVORATORI STAGIONALI* 

 

Arrivano in genere sani, ma quasi tutti in pochi mesi si ammalano. Perché vivono in case abbandonate, dormono in due per materasso, non hanno acqua corrente, mangiano una volta al giorno e male. E anche se la metà ha un permesso di soggiorno, lavorano in nero. Tutti. Sono i lavoratori stagionali immigrati, i circa 12 mila braccianti che al Sud raccolgono ortaggi e frutta, forza-lavoro ormai indispensabile per lÂ’agricoltura. Una realtà drammatica. Fatta di sfruttamento feroce, soprusi, talvolta di violenza.

Ad accendere i riflettori è “Medici senza frontiere”, con il dossier I frutti dellÂ’ipocrisia, unÂ’inchiesta sul campo – 770 interviste e visite con una clinica mobile tra maggio e dicembre 2004 in Campania, Puglia, Basilicata, Sicilia e Calabria – che racconta in 131 pagine i «lavoratori “invisibili”, ignorati e privati dei diritti più essenziali, in una sorta di ipocrisia collettiva – afferma Msf – che coinvolge governo, enti locali, associazioni dei produttori, sindacati, Asl, enti di tutela fino ad arrivare ai consumatori che acquistano primizie e ortaggi probabilmente ignari dei gravi soprusi e violazioni di legge che stanno dietro alla raccolta».

Msf ha individuato un «circuito degli stagionali»: dÂ’inverno nelle serre in Campania, allÂ’inizio dellÂ’estate in Puglia (nel foggiano per i pomodori, ad Andria per le olive), a settembre in Sicilia (Alcamo) per la vendemmia, da febbraio a marzo in Calabria (Gioia Tauro) per le arance.

Per quanto riguarda i permessi di soggiorno, il 23% lo ha come richiedente asilo, il 6% ha lo status di rifugiato: due conferme su lÂ’assoluta carenza in Italia dellÂ’assistenza stabilita per legge, di queste categorie: ne gode meno del 7%. Quasi il 19% ha un permesso per studio, lavoro non stagionale, ricongiungimento familiare. Il 51% non ha alcun permesso. Ma tutti gli stranieri erano privi del contratto di lavoro previsto dalla legge per gli stagionali. Il 91% sono maschi. Di questi il 67% viene dallÂ’Africa subsahariana. Le donne sono soprattutto dellÂ’Est europeo.

Come vivono? Malissimo. Il 40% in case abbandonate, il 36% in spazi sovraffollati, il 70% deve condividere lo stesso giaciglio, più del 50% non ha acqua corrente, il 43% non ha servizi igienici, il 30% non ha elettricità. La maggior parte fa un solo pasto al giorno, anche lavorando tra le 8 e le 12 ore nei campi. Ed è una dieta «estremamente povera». La legge stabilisce che il datore di lavoro provveda agli alloggi: succede solo nel 3% dei casi. La paga? Fino a 25 euro al giorno, e il 30% deve pagarne 5 per il trasporto al “caporale” che li sceglie. Lavorano in media 3 giorni alla settimana, il 53% non può mandare soldi a casa. Il 30% dichiarar di aver subito violenze, abusi o maltrattamenti (46% in Campania), lÂ’82% da un italiano. Una vita che mina fisici sani e giovani (lÂ’età media è 30 anni). Entro sei mesi dallÂ’arrivo si ammalano: tra i 770 visitati, più del 95% ha patologie varie: il 51% malattie infettive (dermatologiche, intestinali, orali, respiratorie con 12 casi di Tbc). Il 73% ha patologie croniche. Pur potendo accedere allÂ’assistenza pubblica, otto volte su dieci non lo fanno.

Luca LIVERANI

 
*Da Avvenire, del 1° aprile 2005.

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MADONNA DI MAGGIO: 

 MADONNA DELLA STRADA*  

 

 

Una delle chiese più antiche dÂ’Italia è dedicata alla Madonna di Strada, la cui immagine in pietra dipinta risale a mille anni fa, ed era lÂ’ex voto di un castellano salvato dalle acque del fiume Colvera che scorre accanto. Sta a Fanna (Pordenone), intorno a essa si raccoglie una piccola Fraternità francescana. La festa del 31 maggio conclude il mese mariano con un rosario dai “misteri” dedicati a “Maria in strada”: verso Elisabetta, verso Betlemme, verso lÂ’Egitto, verso Gerusalemme, verso il Calvario. E in strada verso lÂ’umanità, con lo sguardo di protezione materna, con gli occhi del cuore che consolano.

di Franca ZAMBONI

 
*da Famiglia Cristiana, del 22 maggio 2005

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LA STORIA DI MAUCHAZA*

 

 

Accogliere lo straniero, per il cristiano non è certo unÂ’opzione, ad avere cara la coerenza di fede. Basterebbe ricordare il capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo: «ero straniero e mi avete accolto». 

A ben pensarci, in qualche modo, noi, tutti siamo stranieri agli altri. Eppure smettiamo di esserlo se entra in gioco la forza dellÂ’agape, di quel che Agostino dÂ’Ippona splendidamente definisce il peso dellÂ’anima.

Sul valore dellÂ’accoglienza e sul futuro che essa sa donare, ruota la storia che leggiamo sul Katolikku Shinbun (13 giugno 2004). La storia di Mauchaza, un giovane che con tenacia vuole formarsi una solida conoscenza da mettere a frutto per il futuro della sua terra, il Sudafrica.

«Il Sudafrica conosceva un periodo di crisi. Pensai che dovevo lavorare per il mio Paese, per lÂ’intero Continente africano. La famiglia mi diceva: Non puoi farcela. Ma io, avevo fiducia e sono stato aiutato da un bel numero di persone». Parole di Jof Mauchaza, oggi studente di «Scienze dellÂ’Università di Chiba».

Sorride di un contagioso sorriso, il giovane africano. La sua avventura comincia nel 2002, quando la rete televisiva Nihon TV realizza un programma sul Centro di accoglienza per malati terminali di Aids in Sudafrica gestita dal Padre francescano Remoto Akio. Mauchaza, allora diciottenne, svolse il ruolo di assistente in quel documentario. Nativo dello Zimbabwe, era cresciuto lì prima di trasferirsi con la famiglia in un luogo con maggiore stabilità, il Sudafrica. Finito il documentario, il giovane rimase a lavorare al Centro. Entrando in contatto con volontari giapponesi, finì con lÂ’interessarsi al lontano Estremo Oriente. Pensava seriamente di proseguire gli studi a livello universitario quando il Padre Remoto gli propose: «Che ne diresti di finire in Giappone?». Gli fu naturale annuire.

Da allora, ogni giorno, su un libro di testo redatto a mano dai volontari, prese a studiare il giapponese. LÂ’aiuto non veniva da una sola persona, ma da tutti i collaboratori del Centro. Presa forma come «Associazione di Padre Nemoto a sostegno degli studenti sudafricani», lÂ’iniziativa venne fatta conoscere in tutto lÂ’arcipelago.

Vennero però le difficoltà legate al visto. Il giovane africano tenne duro, grazie ad una rete di sostegno basata sulla condivisione dei valori e sulla reciproca fiducia. Vennero interessate personalità governative, presentati documenti che comprovavano lÂ’impegno non comune dei giovani nel campo dellÂ’istruzione. Malgrado le difficoltà, da lui stesso ammesse, del giapponese. A settembre dellÂ’anno scorso, finalmente, ecco Mauchaza in Giappone. Si iscrive alla scuola giapponese di Okayama e studia con tenace, ardente perseveranza, superando ogni aspettativa. Lo scorso aprile, viene ammesso alla locale università. Viene intanto seguito da una volontaria dellÂ’«Associazione di Padre Remoto a sostegno degli studenti sudafricani», Shibata Kiko della parrocchia di San Taddeo nel quartiere Setagaya di Tokyo. La Chiesa giapponese sostiene concretamente ogni iniziativa a favore dellÂ’accoglienza allo straniero. Con lÂ’aiuto dei fedeli della Chiesa Cristo Re della cittadina Choshi, nella prefettura di Chiba, la volontaria riesce a trovare per Mauchaza una camera in affitto vicina allÂ’Università, grazie allÂ’interessamento del Presidente di una Ditta di prodotti alimentari rimasto colpito dalla determinazione dimostrata dal giovani africano nel volersi preparare per aiutare a fronteggiare situazioni di crisi, lavorando in futuro in organismi governativi o in grandi compagnie. Il futuro dellÂ’Africa richiede impegno, competenze, passione.

Il direttore della Nihon TV è ammirato per la serietà, mai prima sperimentata così – ha dichiarato al Katolikku Shinbun – in un giovane africano.

Ma da dove viene tanta serietà?, è stato chiesto a Machauza. 

«Dalla famiglia, dalla fede ed anche dalla propria esperienza. Se ci si impegna a fondo, si finisce con il trovare corresponsione».

Disarmante, autentica risposta, tale da indurre riflessioni in molti giovani dei Paesi sviluppati. (i.i.)   



* La comunità ecclesiale impegnata nel sostegno verso gli stranieri, da LÂ’Osservatore Romano, N. 138 (43.975), del 12 Giugno 2005, p. 8

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LÂ’AMARO PANE DELLÂ’EMIGRANTE*

 

 

Per ogni zio dÂ’America – ormai lo sappiamo – ci sono stati migliaia di emigranti partiti poveri dal nostro Paese e tali rimasti oltre oceano, o tali ridiventati, con lÂ’aggravante dello spaesamento, dellÂ’estraneità, della difficoltà della lingua, dellÂ’assenza della famiglia, degli amici, dei luoghi cari. E altri innumerevoli, anche questo si sa, morirono già nel corso della traversata oppure poco dopo, falciati dagli incidenti sul lavoro, in quanto manodopera a basso prezzo – nelle miniere, soprattutto, e nei cantieri di strade e ferrovie – senza alcuna forma di protezione esposta ad angherie e soprusi di ogni sorta, spesso e volentieri anche da parte di connazionali giunti là prima.

Nello sterminato archivio delle storie di emigrazione, Elena Pianini Belotti ne ha colto una, così come, per una qualche ragione, si coglie un filo in particolare dentro una grossa matassa.

È quella di Gildo, sedicenne figlio di contadini impoveriti della zona di Albino, in val Seriana, provincia di Bergamo, costretto a partire, ai primi del secolo scorso, assieme al padre, per cercare fortuna in America. Della sua vicenda lÂ’autrice ha fatto romanzo, per cui non è dato di sapere se, al filo della vita di Gildo, ella ne abbia mescolato qualche altro: ciò non basta, tuttavia, a consolarci di fronte alla tristissima parabola del contadinello emigrato contro la sua volontà, in quanto i fatti narrati da Pane amaro (Rizzoli, pagine 388, € 18,50) sono comunque veri, né è possibile rincuorarsi – come capita di fare al cinema di fronte a certi film crudelissimi – pensando che soltanto di invenzione, in fondo, si tratta.

Il protagonista di una storia come quella narrata da Pane amaro può non chiamarsi Gildo, può non essere nato in Lombardia bensì in Trentino, Campania o Liguria, può non essere finito negli Stati Uniti bensì in Canada o in Argentina, ma non cÂ’è dubbio che sia esistito, che la sua vita sia andata allÂ’incirca come è riferito qui e che altri, simili a lui, fratelli, gemelli, anzi, suoi, ne siano esistiti centinaia. Come lui, costretti a partire dalla miseria e dalla mancanza di lavoro, convinti a tentare la fortuna dagli amici, dai familiari e, non raramente, dalle mitiche foto giunte dallÂ’America, raffiguranti compaesani vestiti elegantemente alla guida di qualche lustra macchinona: spesso e volentieri, come nellÂ’immagine di copertina del romanzo, un fotomontaggio con fondale di cartone dipinto, dove lÂ’unica cosa vera è la faccia del paesano, finta, ovviamente, lÂ’automobile e finti, a volte, perfino i begli abiti.

Tutto nel Nuovo Mondo andrà male a Gildo, timido, mite, impacciato, condannato a essere un eterno «perdente», come si direbbe oggi, e anche la musica, che, per un momento, sembra promettergli riscatto e vita diversa, grazie al suo talento per la fisarmonica, si rivelerà un buco nellÂ’acqua: non ultimo perché gli verrà rubata proprio la bella fisarmonica, acquistata a credito, per cui gli toccheranno anche il carcere e qualche anno di manicomio in sovrappiù.

Fin dallÂ’inizio, di un romanzo corale si tratta, nel senso che il pane è amaro per molti, e che allÂ’esistenza di Gildo si affiancarono e si mescolano quelle di numerosi altri come lui, a volte un poÂ’ più fortunati, ma, a volte, anche meno, e non difficile immaginare che questo significhi – per loro – la morte. Accanto al protagonista salgono, dunque, sul palcoscenico, alcuni per rimanerci fino alla fine, altri soltanto per un breve passaggio, i suoi familiari, i parenti, gli amici vecchi e i pochi nuovi, i datori di lavoro, gli intermediari, i preti, i rari personaggi buoni e i molti cattivi, i senza scrupoli, gli imbroglioni, gli sfruttatori e i taglieggiatori di ogni sorta.

Grande talento dellÂ’autrice è di far di una storia vera una narrazione, romanzo di un saggio, senza che il lettore noti mai le rugosità di una qualche giuntura, il passaggio da un genere allÂ’altro. La scrittura arrotonda gli angoli, smussa ogni cosa, amalgama il materiale di modo che le tante vicende scorrono come un fiume nel quale acque provenienti da sorgenti diverse si mescolano e si confondono perfettamente. E il dettaglio storico, accurato, sulla vita degli emigranti italiani in America ai primi del Novecento, nonché sui luoghi di provenienza, sullÂ’esistenza magra dei contadini di montagna, continua a rammentare – con forza – al lettore che lÂ’invenzione può al massimo riguardare i dialoghi. 

Elena Pianini BELOTTI 



*dal Corriere della Sera, 8 Maggio 2006

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LÂ’ATTENTE POUR HORIZON DES 

REFUGIES PALESTINIENS*

 

 

Avec Attente, le cinéaste palestinien Rashid Masharawi, auteur de Haifa (sélectionné en 1996 au Festival de Cannes) nÂ’a pas voulu livrer un documentaire et se défend dÂ’avoir réalisé un film politique, «même si, reconnaît-il, le seul fait dÂ’être palestinien est politique aux yeux du reste du monde». Avec un peu de fatalisme, beaucoup dÂ’humour et quelques scènes très intenses, lÂ’histoire évoque les aspiration des Palestiniens réfugiés au Liban, en Syrie et en Jordanie, se nourrissant depuis cinq décennies de lÂ’espoir dÂ’un hypothétique retour. Pas dÂ’activisme, ni de haine, mais la mise en scène de ce non-acte devenu presque consubstantiel aux Palestiniens des camps : «LÂ’attente fait partie intégrante de nos vies. Elle est à la racine de tout notre être», remarque Rashid Masharawi.

Le film embarque le spectateur dans un road-movie régional, à la suite dÂ’Ahmad, réalisateur, de Bissan, ancienne présentatrice du journal télévisé et dÂ’un cameraman, surnommé «Lumière» qui ne sait filmer que des explosions. Tous trois sont chargés de repérer les comédiens qui pourraient composer la troupe du «théâtre national palestinien», dont la construction subit de perpétuels retards.

La comédie et le symbole – et le symbole parfois un peu appuyé – se côtoient dans cette fiction, où le premier «casting» attire moins de prétendants à la scène que de réfugies désireux de profiter de la présence des cameras pour passer des messages à des proches. Cocasse, la scène dit aussi le drame des familles éclatées, victimes de la complexe géopolitique locale.

Excèdé, tenaillé par le désir de sÂ’inventer une vie ailleurs, Ahmad finit par demander aux candidats de mimer lÂ’attente et ses mille attitudes. Avant chaque séance, aidant le cameraman à régler le son, Bissan reprend ses réflexes de journaliste et débite les phrases types que les responsable politiques répètent depuis des décennies sur lÂ’impossible règlement du conflit, illustrant ainsi le cycle perpétuel de lÂ’espoir et du désespoir face à une solution introuvable.

Drôle et tragique, le film décrit un quotidien morcelé jusquÂ’à lÂ’absurde. Désireux de lui redonner un peu dÂ’unité, Rashid Masharawi, né à Gaza en 1962, ne sÂ’en tient pas à la réalisation. Il a lancé en 1996 un «Cinéma mobile» pour les camps de réfugiés. 



*Rahid Masharawi évoque la situation des Palestiniens des camps avec des accents de comédie, da La Croix, 10 mai 2006.

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Vélos en ville :

le « code de la rue » belge en vedette à Lille*

 

 

« Du code de la route au code de la rue », tel était lÂ’un des principaux thèmes du 16e congrès du Club des villes cyclables qui s'est achevé, vendredi 21 octobre, à Lille, sous la présidence de Denis Baupin, adjoint (Verts) au maire de Paris. Ce « Club » créé en 1989 par dix villes, en regroupe désormais 750, parmi lesquelles Bordeaux, le Grand Nancy et le Grand Lyon.

La localisation nordiste de ce congrès permettait de regarder aussi outre‑Quiévrain. En 2004, le code de la route belge a été enrichi d'un « code de la rue » définissant la place de chaque usager sur la chaussée et les priorités. Michèle Guillaume, de lÂ’Institut belge pour la sécurité routière (IBSR), attendait cette réforme depuis onze ans. « En 1993, mon fils a été gravement blessé à vélo par une voiture. Mais cÂ’est nous qui avons dû payer les réparations des dégâts de la voiture, en raison d'un constat mal rédigé par la police. »

Désormais, la nouvelle réglementation belge impose une obligation de prudence du poids lourd envers la voiture, de la voiture envers le cycliste, du cycliste envers le piéton. « LÂ’association des parents dÂ’enfants victimes d'accidents de la route a fait constater qu'ils étaient vulnérables mais négligés par le code de la route. Nous avons réuni les usagers les plus faibles, cyclistes, piétons, personnes âgées ou à mobilité réduite. Puis nous avons rencontré les « motorisés », y compris transporteurs routiers et taximen: nous ne voulions pas être le relais d'une seule catégorie dÂ’usagers. En concertation avec le gouvernement, le code de la route a ensuite été relu article par article... »

En France, la loi Badinter de 1985 rend la voiture responsable dans presque tous les cas. Mais Véronique Michaud, secrétaire générale du Club des villes cyclables, insiste: « LÂ’ennemi commun est la vitesse. Notre choix est de pacifier, de modérer. Ce nÂ’est pas le développement de la voiture que nous critiquons, mais le fait qu'il se soit fait dans les années 1970 au détriment du vélo bien difficile à réintroduire. Une étude suédoise a montré que le danger est aux intersections, quand la voiture et le vélo s'oublient. Nous sommes convaincus que la mixité de l`espace est idéale, car séparer vélos et voitures endort la vigilance. »

A lÂ’heure où la mairie de Metz choisit de verbaliser les cyclistes circulant à contre-sens, lÂ’un des points les plus spectaculaires de la réforme belge consiste en l'obligation d'autoriser les cyclistes à emprunter les sens interdits, marquage à l'appui. Un an après, cependant, une majorité de communes ne sont toujours pas prêtes et il nÂ’existe pas d'outil législatif pour les contraindre. 

Geoffroy Deffrennes



*da  Le Monde, 23-24/X/2005

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Brescia mescola il circo con lÂ’avanguardia*

 

Cambiare formula, e soprattutto per un Festival collaudato, poteva essere un rischio.Passare d'emblai da quella che era ormai da sei anni diventata, a Brescia, la grande Festa internazionale del circo, meglio del nouυeau cirque, a un mix di generi poteva essere un azzardo e far scadere la manifestazione a un banale contenitore di spettacoli. E invece più Festiυal (l'emozione del corpo), tale la nuova insegna, sta dimostrando che tra generi pur diversi e in apparenza distanti ci può essere affinità elettiva. Esserci naturalmente, quando si riesce a costruire (come è riuscito a fare con fiuto e intelligenza Gigi Cristoforetti direttore artistico della rassegna), un brillante mosaico di tessere di danza, di teatro, di spettacoli di marionette, di performance e, per non dimenticare lÂ’origine del Festival, di scampoli (dÂ’autore) di circo. Ed esserci beninteso, se gli spettacoli (trenta rappresentazioni nel giro di un mese) contengono un segno se non sempre inedito per lomeno originale. Come risulta dalle proposte offerte in queste sere. LÂ’una, e certo la più interessante, a venire dallÂ’australiano, ma residente in Olanda, Neville Tratter, un performer di gran talento (una sorpresa) che elabora un discorso dramma­turgico originalissimo servendosi di straordinari pupazzi da lui stesso creati (quasi un contraltare a quelli "pacifisti"d el famoso Breadand Puppet Thea­treche ha aperto più Festiυal); lÂ’altro dalla coreogra fa francese Anne De Mey. Figure dalle dimensioni quasi umane, dai visi di un grottesco che ferisce, bocche enormi e occhi scintillanti, mani gigantesche, quelli di Neville Trattersono i protagonisti di un Re: Frankenstein in cui il celebre romanzo di Mary Shelley viene rivisitato, anzi riscritto in una luce del tutto moderna e ancorpiù inquietante. E Tratter, quasi fosse il loro padre, anche carnale, le muove, le guida, le comanda, dà loro forza e anima, oltre che voce, con un gioco calibratissimo di movimenti. A nascerne uno spettacolo scioccante che tocca il profondo della nostra coscienza: il mostro creato da Frankenstein a diventare i mostri che possono allignare in noi stessi. 

Leggerezza e ironia contraddistinguono invece la coreografia della De Mey, ! 2 easy Waltzes., tutta basata su canzoni del Novecento. Sono, come accenna il titolo, dodici variazioni sul valzer giocate con spirito divertente e malizioso potremmo dire molto francese. Ma la pur esile coreografia interpretata dalla stessa De Mey e dal bravissimo e giovane collega Grégory Grosjeansi trasforma a poco a poco anche in una schermaglia amorosa. Diventa un toi etmoi alla Géraldу riscritto con la fantasia fumettistica di un Peynet. Se con Frankestein il pubblico è portato a meditare, qui gli basta unÂ’attenzione superficiale.

Domenico RIGOTTI



*Da Avvenire, 5 luglio 2006

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LUOGHI DELLÂ’INFINITO*

 

La Rivista “Luoghi dellÂ’infinito”, nel Numero 98, ci invita a fare un “viaggio” attraverso i deserti africani, le dune del Caucaso e i mari asiatici, per conoscere la condizione nomade dei popoli che vi vivono. Gli Autori, infatti, presentano alcuni gruppi nomadi - con una varietà di tratti caratteristici - che nellÂ’editoriale, vengono definiti “quei popoli che portano con sé lÂ’orizzonte”.

Il lettore viene introdotto allÂ’argomento con una breve presentazione, fatta appunto dallÂ’editoriale, sulle differenze fondamentali tra il mondo sedentario e quello nomade. I nomadi, visti da uno stanziale, appaiono sfuggenti, fuori luogo, sempre precari, come se mancasse loro qualcosa. Eppure il sedentario - spiega Marco Aime - ha bisogno del nomade per definire se stesso, e viceversa. Il nomade porta con sé, sempre, il suo passato e il suo presente, non lo delega a beni o oggetti da conservare, come succede al sedentario. Ciò che colpisce nei nomadi è la “leggerezza” che si contrappone al gravare pesante della ricca società di sedentari.

NellÂ’articolo intitolato Genti di strada, Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, ci offre un breve saggio biblico, con cui presenta la storia della fede dÂ’Israele, mettendo in evidenza il carattere errante delle cosiddette “vite in cammino” offerte dalla Bibbia, tra le quali spicca quella di Abramo, il padre dei credenti. La riflessione biblica porta lÂ’Autore a considerare il popolo eletto nel suo vagare nel deserto, la fuga della Sacra Famiglia in Egitto, la vita di Gesù che non aveva dove posare il capo e le testimonianze dei primi cristiani chiamati “quelli della via”, a motivo della loro itineranza.

Con Polvere di Sahel, Marco Aime, antropologo, ci introduce alla conoscenza della vita e della cultura dei Peul africani, il popolo di allevatori che vive nei territori di diversi Stati dellÂ’Africa occidentale. La forza di questi allevatori saheliani – sostiene lÂ’Autore – nasce proprio dalla flessibilità tipica delle società pastorali, che consente loro di adattarsi alle esigenze del bestiame. Flessibilità che si unisce, poi, a un incredibile spirito imprenditoriale. Ma, non sono certo liberi dai problemi! Infatti, la crescita demografica, la riduzione dei pascoli, lÂ’ideologia pro-sedentaria delle amministrazioni, che sta riducendo progressivamente la mobilità degli allevatori e dei loro animali, accrescono il numero delle difficoltà che i Peul africani devono affrontare.

Andrea Semplici, nel suo articolo Il teorema di Abele, riferendosi a vari antropologi e geografi, offre un quadro generale sul mondo nomade, descrivendone la realtà. Contrariamente agli stereotipi degli occidentali – spiega lÂ’Autore – il nomade non è un vagabondo: è un pastore, vive del bestiame, con il bestiame e per il bestiame. Abita terre di una bellezza struggente, dove lÂ’esistenza è una continua battaglia per riuscire a sopravvivere. Il nomadismo, poi, è unÂ’economia che tiene conto di parecchie variabili, o meglio, una strategia di sopravvivenza in terre difficili.

Adriano Penco ci presenta un altro gruppo di nomadi, quelli che vivono in barca a largo di Thailandia e Myanmar, i Moken, chiamati comunemente “Zingari del mare”. Secondo lÂ’etnologo Esteban Magannon, essi costituiscono uno dei tre gruppi che abitano il vasto arcipelago delle Indie orientali: gli altri sono Orang Laut degli Stretti, tra le isole Riau e Lingga, e i Bajaun delle Sulu, nelle Filippine. Vivono in completa sintonia con lÂ’oceano, conoscendo alla perfezione lÂ’ambiente marino. Non avendo alcuna cittadinanza riconosciuta, non possiedono terra e non hanno diritto ai servizi sociali, non possono mandare i figli a scuola né essere assunti in alcun posto di lavoro; in pratica, per la burocrazia, è come se non esistessero. Non conoscendo, poi, alcun tipo di organizzazione politica, questi nomadi del mare continuano a essere in balia di chi detiene il potere, e rischiano lÂ’estinzione.

Descrivendo in modo avvincente, pur se in poche pagine, i tratti caratteristici di questi gruppi e alcune attitudini che plasmano la loro vita, gli Autori riescono a trasmettere al lettore il desiderio di conoscerli più a fondo. I dromedari dei deserti africani, i pastori delle alture del Tibet, gli Zingari del mare, sono soltanto alcuni dei tanti volti del nomadismo. La bellezza della natura, la maestà dei deserti silenziosi e delle profonde acque marine, il fascino della quiete interrotta solamente dal rumore delle mandrie, i legami quasi di fratellanza che si installano tra allevatori e animali, i rischi della savana, formano invece gli aspetti esterni del mondo che li circonda.

Ricche di immagini e fotografie che rappresentano i nomadi nei momenti particolari della loro vita, le pagine di questa Rivista sembrano riprodurre a vivo i problemi, le gioie, la fatica e la bellezza della loro vita e del loro habitat.

Non è quindi soltanto una presentazione di vari gruppi nomadi, ma è davvero un bellissimo viaggio di conoscenza e di interesse.



* Mensile di Itinerari, Arte e Cultura, N. 98 - Anno X - luglio-agosto 2006

 

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