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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 101, August 2006

 

 

Linguaggio e Linguaggi del pellegrinaggio*

(Omelia)

 

 

S.E. Mons. Agostino MARCHETTO

Segretario del Pontificio Consiglio

della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

 

Carissimi,

Non so se vi sorprende che in un Convegno teologico-pastorale, riguardante “Linguaggio e linguaggi del pellegrinaggio”, celebriamo la Santa Messa, questa sera, “per l’evangelizzazione dei popoli”. Credo di no, ma io vi dico che ne sono rimasto gratamente sorpreso. Non perché non siamo ormai coscienti che più o meno viviamo tutti in Paesi di missione (la Francia lo aveva scoperto più di mezzo secolo fa. Ricordate quel “France, Pays de Mission”?), ma poiché il nostro Convegno ci attesta un necessario legame tra pellegrinaggio ed evangelizzazione, tra mobilità umana ed evangelizzazione, tra linguaggio e linguaggi del pellegrinaggio e nuova evangelizzazione. È una conferma di quanto illustrato ampiamente, del resto, dall’Istruzione Erga migrantes caritas Christi, che apre al dialogo ecumenico, interreligioso e culturale il fenomeno delle migrazioni, il quale investe in modo strutturale il mondo contemporaneo. Le Missioni, geograficamente lontane di una volta, arrivano a noi, qui in Europa, in Paesi di antica tradizione cristiana, ma schiaffeggiati dal secolarismo, dal laicismo. Permettete, dunque, al Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti questa digressione che mette in contesto pure migratorio quanto voi state analizzando dal punto di vista della itineranza, di cui fa parte il pellegrinaggio.

* * *

Abbiamo pregato nella colletta, con respiro universale, dilatando il nostro cuore alle dimensioni del mondo, con queste parole: “O Dio, che hai stabilito la tua Chiesa, sacramento universale di salvezza per continuare l’opera del Cristo sino alla fine dei secoli, risveglia il cuore dei fedeli…”. Che bello navigare in preghiera, fratelli, nell’universale, nel globale e mondiale, nel cattolico, in quella “Cattolica” di S. Agostino, sacramento di salvezza, la Chiesa, che continua l’opera di Cristo! E v’è richiamo a una sola famiglia di popoli e al sorgere di un’umanità nuova. Anche qui andiamo al largo, nel desiderio di unità del genere umano, che i mezzi di comunicazione sociale, e non solo, oggi ci fanno intravedere. Tutto questo “sa” di Concilio Vaticano II, di cui abbiamo appena festeggiato i 40 anni (dalla chiusura), risposta provvidenziale a quanti si e ci chiedono: “Chiesa che dici di te stessa? Qual è la coscienza che hai, di te, ad intra e ad extra, come si è detto in Concilio? Ora, dopo il discorso del 22 dicembre 2005, abbiamo un faro di luce per l’interpretazione conciliare, necessariamente “corretta”, perché vi possa essere la giusta ricezione. Abbiate la bontà di leggerlo – vi prego – tale discorso di Benedetto XVI.

* * *

Ma la luce conciliare, in cui rifulge il consenso praticamente unanime dei Padri che vi parteciparono, è riflesso della Parola di Dio, nella sua bellezza anche poetica, oltre che profetica, nell’espressione di Isaia: “Alzati, rivestiti di luce, o Gerusalemme, perché viene la tua luce … su te risplende il Signore”, viene l’atteso d’Israele, l’atteso delle genti, il Messia.

Ecco il particolarismo che sboccia e si apre all’universalismo, in cui respiriamo a pieni polmoni, per l’aria frizzante e buona che ci porta, ci sana e ci salva. “Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere” proclama il Profeta. È un sogno? No! Oltre a tutti i problemi che abbiamo, che ci furono in 20 secoli di storia cristiana, guardiamo al diffondersi, nel corso di due millenni, dello splendore di Dio in Cristo, per opera dello Spirito Santo, nel fulgore che vince “le tenebre che ricoprono la terra, la nebbia fitta che avvolge le nazioni”. E la Gerusalemme concreta terrestre porterà “le sue tende” fino ai confini della terra, superando quel residuo di particolarismo che ancora possiamo scorgere in Isaia.

E alla Chiesa verranno le ricchezze, “i beni dei popoli”, il genio di ciascuno, la cultura di ogni nazione, in uno scambio ammirabile di doni. La veste ecclesiale è variopinta, è l’eco e l’adempimento della Parola di Gesù nel Vangelo appena proclamato: “Andate, dunque, e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.

Vi fu, carissimi, un’epopea missionaria – e permettete di evocarla a chi ha passato in Africa vent’anni della sua vita –. Ricordo solo un particolare, una mia visita al cimitero di Tete in Mozambico, un ricordo delle tombe di numerosi missionari/e falciati dalla malaria giovanissimi, appena arrivati magari nel continente nero, spinti da quell’ “andate e ammaestrate” di Gesù, il Divino Maestro, l’Agnello immolato sulla croce, che suscita, in chi lo ama fino a morirne, lo zelo di comunicare l’annuncio lieto, la buona notizia: “Deus caritas est”! Con questo spirito, con questa ammirazione per tanti testimoni del Vangelo, conosciuti o ignoti, riprendiamo anche noi il cammino di santità: “Se questi e quelli, perché non io?” Ricordate S. Agostino? Lui è con noi fino al giungere la fine del mondo!

* * *

Concludiamo con un pensiero sul linguaggio, oggetto della vostra riflessione di questi giorni, nel contesto del pellegrinaggio.

Riconosciamo anzitutto che è uno dei problemi più gravi da affrontare oggi, legato all’inculturazione del messaggio che portiamo lontano ai confini della terra, tenendo presenti culture, mentalità, religioni, filosofie, ideologie le più diverse. Anche qui deve realizzarsi il mistero pasquale di morte e vita. Qualcosa deve morire, tutto quello che si oppone ai comandamenti di Gesù (Cristo Signore raccomanda nel Vangelo: insegnate “loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato”). Non possiamo infatti costruire se non su questa pietra angolare. Eppure quanto cammino dobbiamo fare in materia di linguaggio, per essere capiti, senza infedeltà del resto al tesoro che abbiamo ricevuto, in una parola a Gesù Cristo.

D’altra parte cosa è stato il Concilio, il rinnovamento conciliare, nella continuità con la tradizione con la T maiuscola – senza rotture e senza che nasca quasi una nuova Chiesa con rivoluzione copernicana –? Cosa è stato – dicevo – il Concilio se non la ricerca anche di un nuovo linguaggio? E ciò, grazie pure alla famosa distinzione giovannea nel giorno d’apertura del Concilio Vaticano II, Papa Giovanni XXIII appunto fa distinzione tra verità dogmatiche e il vestito di parole che le fascia, tra la sostanza, l’intera, precisa e immutabile dottrina e la sua presentazione (formulazione).

Credo che pure quarant’anni dopo l’impresa continua a essere la stessa. E senza adulazione di sorta possiamo attestare che abbiamo oggi un maestro in questo lavoro, in tale “traduzione”, Papa Benedetto. Egli sta insegnando a tutti noi – credo – l’arte della parola, semplice eppur profonda, per raggiungere l’uomo di oggi e dare a lui l’eterno e ancor sempre nuovo messaggio di salvezza e liberazione integrale, anche nella “Sitz im Leben” del pellegrinaggio. 



*Opera Romana Pellegrinaggi Convegno nazionale teologico-pastorale, giovedì 9 febbraio 2006, ore 18.30.

 

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