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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 102, December 2006

 

 

Città, crocevia di culture e progetto multiculturale*

 

 

 

S.E. Mons. Agostino MARCHETTO

Segretario del Pontificio Consiglio

della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

 

La presenza di persone di differenti culture, che vivono e interagiscono nello stesso territorio, diventa sempre più frequente. Tale realtà ha la sua causa più evidente nell’accelerazione del fenomeno migratorio, sia interno che internazionale, connesso con la centralizzazione delle zone industrialmente sviluppate, nell’ambito delle città e nelle aree periferiche metropolitane. In effetti, qualunque sia il motivo che induce una persona a lasciare la terra natia per vivere, almeno per un certo tempo, in altro luogo, essa troverà inevitabilmente la nuova “patria” diversa dalla società in cui aveva sempre vissuto e operato. Intendo che si incontrerà-scontrerà con un modo differente di vedere e trattare le cose, una maniera diversa di reagire alle situazioni, con valori non sempre uguali e molto spesso con un’altra lingua. E se i nuovi arrivati sono centinaia di migliaia, provenienti dai luoghi più disparati, nessuno rimarrà indifferente di fronte alle culture altrui, diverse dalla propria, sia egli immigrato che autoctono[1].

Del resto, in genere, ogni nazionalità rappresenta una cultura, cosicché «ci troviamo di fronte ad un pluralismo culturale e religioso forse mai sperimentato così coscientemente finora. Da una parte si procede a grandi passi verso una apertura mondiale, facilitata dalla tecnologia e dai mass‑media – che arriva a porre a contatto o addirittura a rendere interni l’uno all’altro universi culturali e religiosi tradizionalmente diversi ed estranei tra loro –, dall’altra rinascono esigenze di identità locale, che colgono nella specificità culturale di ciascuno lo strumento della propria realizzazione»[2]. Ogni persona, infatti, è «segnata dalla cultura che respira attraverso la famiglia e i gruppi umani con i quali entra in relazione, attraverso i percorsi educativi e le più diverse influenze ambientali, attraverso la stessa relazione fondamentale che ha con il territorio in cui vive»[3].

I contatti tra le varie culture, perciò, oltrepassano il semplice fenomeno multiculturale e necessariamente portano a una certa interculturalità, anche se l’incontro tra persone di cultura diversa spesso può innescare un conflitto d’identità.

Come è possibile allora, nella città crocevia di culture, sviluppare un progetto interculturale, che sia strettamente connesso con l’umanizzazione della società? Sono ipotizzabili processi socio-culturali che non irrigidiscano le culture e non ostacolino il loro apporto di differenziazione sociale e di libertà per le persone? La mondializzazione, in questa prospettiva, è un fenomeno irreversibile e può diventare positiva nella misura in cui si realizza nell’interazione responsabile di soggetti riuniti in comunità che dialogano tra di loro. Le inevitabili conflittualità possono e devono essere gestite, orientate e trasformate in percorsi di sviluppo di crescita umana. Dittature e terrorismo, tensioni e guerre sono destinate ad essere scelte perdenti, in ogni caso esiziali e disastrose perché rifiutano la concezione democratica di sviluppo, dove la persona umana è collocata nel cuore di tutto. Di fatto, il progresso tecnico-scientifico ha dimostrato finora la sua inconsistenza, avendo dimenticato il suo artefice, la persona umana, di cui le culture sono l’estensione comunitaria, dal momento che esse sono espressione «dell’uomo e della sua vicenda storica, sia a livello individuale che collettivo»[4]. Non dunque qualcosa di fisso, ma aperto a modifiche, grazie alle esperienze vissute.

Insomma, come evitare le drammatiche esperienze di conflitto fra etnie e culture – dove v’è pure la realtà religiosa – in un mondo globalizzato? In che modo le differenze culturali sono compatibili e possono essere ricomposte, integrate in un nuovo quadro di insieme che accetti l’“altro”, il legittimamente diverso, l’immigrato, senza assimilarlo? Il nuovo ambiente rende, infatti, l’immigrato più consapevole di chi egli è, dei valori propri, di ciò che dava senso alla sua vita nella società d’origine. Gli autoctoni, da parte loro, sono messi a confronto con l’identità altrui. Occorre dunque trovare «il giusto equilibrio tra il rispetto dell’identità propria e il riconoscimento di quella altrui»[5]. Così, se da un lato occorre saper apprezzare i valori della propria cultura, dall’altro è necessario riconoscere che ogni cultura, «essendo un prodotto tipicamente umano e storicamente condizionato, implica necessariamente anche dei limiti»[6].

Da qui dunque la necessità che «le diverse identità culturali si aprano ad una logica universale, non già sconfessando le proprie positive caratteristiche, ma mettendole a servizio dell’intera umanità»[7]. Conoscere infatti le altre culture, serenamente e senza pregiudizi, è un sicuro antidoto contro la chiusura che può portare, da una parte, alla formazione di ghetti o all’emarginazione delle minoranze, o, dall’altra parte, alla loro assimilazione, spingendole a sopprimere o dimenticare la propria identità culturale, diventando quasi “copie” della popolazione locale[8].

D’altro canto, è stato talvolta rilevato che la relativizzazione culturale, provocata dal fenomeno della globalizzazione, spesso ha provocato chiusure, aggressioni e conflitti, dando origine a fondamentalismi di ogni genere. Le culture però, per natura loro, non sono rigide, essendo esse l’espressione del modo di agire di un popolo in determinate situazioni, capaci dunque di interagire attraverso la conoscenza reciproca, il confronto, la convivenza e la condivisione di valori comuni: una è la natura umana di tutti. L’uomo, ogni uomo, ogni donna, ride e piange, gioisce e patisce[9].

L’itineranza, la migrazione certo rivoluziona profondamente i tradizionali cammini formativi e l’azione socio-culturale all’interno delle comunità locali, in particolar modo nell’habitat cittadino. Qui è ormai improrogabile il passaggio da un sistema educativo puramente nozionistico ad un orientamento che privilegi il rapporto e la relazione con l’altro, il quale va considerato come un’“opportunità”, con il suo esser persona, prima che una possibile minaccia. La scoperta della diversità, infatti, non si identifica con la contrapposizione, pur esigendo il reciproco rispetto, basato sui diritti umani di cui ciascun individuo è portatore.

Ecco, allora, che l’interculturalità è la via obbligata per la società odierna, a salvaguardia della dimensione umana, in un mondo sempre più globalizzato. L’intercultura, perciò, è la forma educativa privilegiata, che trova nella scuola lo spazio più idoneo, essendo essa l’elemento base per la formazione delle nuove generazioni, privilegiandosi la formazione a corrette relazioni di reciprocità anche nell’acquisizione del sapere[10].

Ad ogni buon conto, la convivenza civile richiede da ciascuno la capacità di accedere al sistema culturale dell’altro, nell’esercizio di quella “negoziazione” che non è rinuncia alla propria cultura, ma ricerca di punti di convergenza e di incontro nel rispetto della diversità legittima. Solo così il sistema educativo scolastico, soprattutto in contesto urbano, potrà essere paradigma di una convivenza ricca e feconda, aiutato dai mass-media, in particolare dalla televisione.

In prospettiva cristiana – mi si permetta – la frammentarietà, poi, delle culture e la diversità ricca dei popoli può trovare un modello di unità nella teologia della creazione e anche della redenzione. Infatti, c’è nel profondo delle cose e delle persone una interrelazione basilare, riconducibile al progetto di Dio creatore, che si fa anche Redentore, per cui le cose si appartengono reciprocamente e tendono a Cristo, prototipo della creazione stessa, il suo alpha e omega, e Redentore del genere umano[11].



*Napoli, 2 ottobre 2006 in occasione della giornata dell’ Habitat, per la consegna dell’ Habitat Scroll of Honour award, l’Arcivescovo Agostino Marchetto rappresentò il Card. Renato Raffaele Martino, impossibilitato ad intervenire. 
[1]Con attenzione all’ambito europeo, rinvio alla mia conferenza, pronunciata a Roma lo scorso anno, dal titolo «Integrazione interculturale: una sfida per l’Europa cristiana»: People on the Move XXXVII (2005), N. 97, pp. 29-39.
[2]Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, Istruzione Erga migrantes caritas Christi, n. 35, Città del Vaticano, 2004.
[3]Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale della Pace 2001, n. 5: Supplemento a L’Osservatore Romano N. 289, 15.12.2000.
[4]Giovanni Paolo II, Ibidem, n. 5.
[5]Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2005, n. 2: L’Osservatore Romano N. 284, 9-10.12.2004.
[6]Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2001, n. 7, l.c.
[7]Istruzione Erga migrantes caritas Christi, n. 34, l.c.
[8]Su questo punto rimando al mio intervento in occasione della presentazione del Messaggio Pontificio della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2004 (v. L’Osservatore Romano del 9-10 dicembre 2004), in cui mettevo in evidenza l’aspetto interculturale nella Istruzione nostra Erga migrantes caritas Christi.
[9]Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et Spes, n. 1.
[10]Ricordiamo qui che nella XVII Plenaria del nostro Pontificio Consiglio, che ha avuto luogo dal 15 al 17 maggio u.s. sul tema “Migrazione e itineranza da e per ( verso) i Paesi a maggioranza islamica”, l’aspetto educativo è stato messo in forte rilievo, come si legge nel Documento finale: «È importante assicurare l’educazione delle nuove generazioni, anche perché la scuola ha un ruolo fondamentale per vincere il conflitto dell’ignoranza e dei pregiudizi e per conoscere correttamente e obiettivamente la religione altrui, con speciale attenzione alla libertà di coscienza e religione (v. EMCC 62)» (n. 34; importanti sono anche i seguenti nn. 35-37 e quelli circa il ruolo dei mezzi di comunicazione sociale: nn. 51-52). Il testo si può trovare nel website: http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/migrants/documents_1/rc_pc_migrants_doc_15170506_XVII-plenaria-finaldoc_it.html
[11]«Nella società contemporanea, che le migrazioni contribuiscono a configurare sempre più come multietnica, interculturale e multireligiosa, i cristiani sono chiamati ad affrontare un capitolo sostanzialmente inedito e fondamentale del compito missionario: quello di esercitarlo nelle terre di antica tradizione cristiana (cfr. Pastores gregis 65 e 68). Con molto rispetto e attenzione per le tradizioni e culture dei migranti, siamo cioè chiamati, noi cristiani, a testimoniare il Vangelo della carità e della pace anche a loro e ad annunciare esplicitamente pure ad essi la Parola di Dio, in modo che li raggiunga la Benedizione del Signore promessa ad Abramo e alla sua discendenza per sempre» ( EMCC, n. 100). Cf. Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Redemptor hominis, nn. 7-10.

 

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