The Holy See
back up
Search
riga

 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 105, December 2007

 

 

INTERVISTA

ALL’ARCIVESCOVO AGOSTINO MARCHETTO*

in occasione del I° Incontro mondiale dei senza fissa dimora 

 

  1. Anzitutto le chiederei una valutazione del Primo Incontro internazionale sui clochard, che si svolge in un momento in cui molte istituzione politiche considerano i poveri solo come un problema di ordine pubblico.

          R. Questo Incontro è stato il terzo di una trilogia di Congressi con attinenza alla sollecitudine nei suoi vari aspetti del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti. si tratta in questo campo dell’Apostolato della Strada. Il primo ebbe luogo a Roma, nell’ottobre 2004, e fu seguito da quello per la Liberazione delle Donne di Strada, nel giugno 2005.

Nel I Incontro di pastorale per i senza fissa dimora del mese scorso parteciparono rappresentanti di 29 Paesi di cinque continenti e tra loro molti Operatori pastorali che si occupano di questa particolare azione apostolica, nei suoi molteplici e differenti aspetti. Tale numerosa presenza significa che affrontiamo qui un fenomeno globale, sebbene esso si manifesti in svariati modi.

Sicuramente posso dire che l’evento ha risposto alle nostre aspettative ed è stato ricchissimo nello scambio di esperienze tra partecipanti. Ogni continente poi ha mostrato esempi e dedizione delle varie comunità cristiana nel servizio agli “ultimi fra gli ultimi”, segno visibile dell’amore di Dio per l’uomo, ovunque esso dimori, o non dimori, in ogni  situazione di vita.

E qui rispondo più direttamente alla sua domanda, ricordando cioè che la Chiesa vede i bisognosi con gli occhi di Cristo, il buon Samaritano, mentre molte istituzione li considerano dal punto di vista dell’ordine pubblico o d’altro. Se la sicurezza va insieme con l’accoglienza, credo allora ci siamo, anche dal punto di vista civile. Ma se così non è le nostre stesse società vecchie e bisognose di assistenza ne soffriranno, e qui mi riferisco ai migranti.

In ogni caso i cambiamenti politici e i processi sociali in continuo mutamento richiedono un’azione profetica delle Chiese locali. assistiamo così al loro costante impegno nella difesa della vita attraverso scelte e testimonianze che manifestano che l’amore per Cristo porta ad un’umanità risanata dalle piaghe dell’indifferenza.

In realtà, vi sono già molte specifiche iniziative ecclesiali per i senza fissa dimora e intese di collaborazione pure con organismi dello Stato in risposta alle differenti e variegate necessità. La presenza, a questo nostro Incontro Internazionale, di Vescovi, sacerdoti, religiosi/e, di membri di movimenti, associazioni di apostolato e di volontariato rende a ciò testimonianza. 

  1. nell’organizzare questo Incontro, quali obiettivi si è posto il Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli Itineranti?

          R. Questo Incontro Internazionale manifesta anzitutto la cura in continuità del Pontificio Consiglio ad animare la pastorale della mobilità umana anche nella dimensione inerente alla strada.

Più concretamente questi furono i nostri obiettivi immediati:

  • Offrire l’opportunità ai vari Operatori pastorali di condividere le loro esperienze e metodologie, i successi e le difficoltà.
  • Conoscere e studiare le diverse realtà del “fenomeno” dei senza fissa dimora.
  • Individuare nuove vie per la promozione della dignità della persona umana che vive sulla strada.
  • Trovare nuove strategie di collaborazione tra organizzazioni ecclesiali e organismi dello Stato e operatori del volontariato civile.
  •  Consolidare la consapevolezza ecclesiale della presenza in mezzo a noi dei senza fissa dimora ed incoraggiare le comunità locali ad essere con essi accoglienti.
  • Dilatare la prospettiva del nostro Pontificio Consiglio nella comprensione della pastorale specifica e ordinaria delle persone senza fissa dimora, per quell’aiuto e incoraggiamento che esso dovrà offrire a coloro che sono impegnati in questo apostolato, specialmente animando al riguardo le Conferenze Episcopali e le loro Commissioni Nazionali per la pastorale della mobilità umana. Chiesa universale e sollecitudine del Santo Padre per tutte le chiese vanno insieme con quella di ciascun Vescovo e delle loro strutture collegiali in senso largo. Il Pontificio Consiglio - ricordo - partecipa a tale sollecitudine per volontà del santo Padre e ne è interprete e strumento.
  1. Nel corso del 2007 c’è stata anche la Pastorale dei Rom. I clochard e i Rom, spesso confusi con i migranti, sono sempre più esclusi. Nella Spe salvi, Papa Benedetto XVI ricorda Gesù come filosofo viandante. La nostra società, non sapendo più includere, riesce a riferirsi alla fede come “speranza che trasforma e sorregge la nostra vita”?

          R. Sì, nel corso del 2007 abbiamo dedicato speciale attenzione alla pastorale dei Rom, e a coloro, zingari, che sono direttamente coinvolti in tale pastorale, e cioè i consacrati. Sto parlando di Sacerdoti, Diaconi e Religiosi/e Zingari che abbiamo riunito in un Incontro Mondiale, nel settembre scorso, al fine di riflettere sulla loro vocazione e missione nella Chiesa e presso i loro fratelli di etnia. Nella riunione sono state denunciate varie forme di intolleranza, di rifiuto dell’altro e di xenofobia e razzismo verso gli Zingari. Ciò non permette loro di sentirsi “fratelli” dei gağé (= non Zingari), né di vedersi considerati tali da parte della Chiesa e della società.

In questo contesto, rispondendo alla Sua domanda, mi piace far riferimento a due considerazioni che ritornano costantemente nella Spe salvi di Benedetto XVI e che a me sembrano fondamentali.

Innanzitutto il pensiero ricorrente sulla trasformazione che la speranza può operare nella vita e nel cuore dei cristiani. «La nostra speranza – dice il Papa – è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri». La nostra vita, nel senso vero, è una relazione, relazione con Dio e relazione con gli altri. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro e mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l'altra. «Continuamente – sottolinea ancora il Santo Padre – entra nella mia vita quella degli altri: in ciò che penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita entra in quella degli altri: nel male come nel bene». A questo punto sono convinto che i consacrati zingari di cui ho appena parlato, e molti Operatori pastorali che si prodigano a favore dei Rom, Sinti e delle altre famiglie gitane e della loro promozione umana e sociale, sono consapevoli di quanto dice il Papa nella Sua Enciclica e lo rispecchiano nel loro apostolato. Ciò, a sua volta, rafforza la nostra speranza che un giorno saremo testimoni di un’autentica accoglienza dei Rom da parte della società e di una loro piena integrazione.

La seconda considerazione fa riferimento a Dio, come fondamento della speranza. Non un dio qualsiasi, sottolinea il Papa, ma quel Dio che ci ha amati sino alla fine, il Dio di Gesù Cristo. Là dove Egli è amato e dove il suo amore ci raggiunge, si instaura il suo regno. Tale speranza, segna profondamente la quotidianità della vita e incide positivamente sulle relazioni umane. Nessun credente, quindi, può rimanere in ozio, indifferente alle manifestazioni di odio, agli atti di razzismo e di discriminazione, di cui i Rom spesso sono oggetto. Naturalmente anche gli Zingari hanno il loro cammino da fare, come da noi indicato negli Orientamenti per una Pastorale degli Zingari, pubblicato l’8 dicembre 2005. 

  1. Rispetto alle comunità e alla società nel suo complesso, quale può essere il ruolo dei consacrati Rom? E anche quanti sono?

          R. Si stima che i consacrati di origine zingara siano un centinaio, il che – in relazione ai 17-18 milioni di Zingari presenti in tutto il mondo – è relativamente poco. Ma, direi, al numero supplisce la singolarità (il valore). E poi molti non pensano che ci siano preti zingari. Essi si trovano a vivere “alla frontiera” di due culture, in un mondo gitano attorniato dalla società dei gağé. Bisogna tener presente questa realtà se vogliamo parlare del loro ruolo   e della loro missione nella società e nella Chiesa.

In questo contesto ai Sacerdoti, Diaconi e Religiosi/e di origine zingara è assegnata specialmente la funzione di far da “ponte” tra le due comunità, particolarmente in ciò che riguarda il passaggio dal contrasto alla riconciliazione e  alla comunione tra Zingari e gağé. In virtù della loro vocazione essi sono specialmente “ambasciatori di Cristo”, ai quali è affidata la parola della riconciliazione, come dice San Paolo (cfr 2 Cor 5,19). Spetta pertanto a loro il difficile compito di incoraggiare, all’interno della società e della Chiesa, una grande conversione della mente, del cuore e degli atteggiamenti sia degli Zingari che dei gağé, condizione di riconciliazione e comunione.  

  1. Anche Milano, che ha una solida tradizione di solidarietà, fatica a trovare soluzioni per i Rom. Si critica anche l’operato della Caritas. Come se l’accoglienza fosse diventata un valore non fondamentale della nostra cultura… È d’accordo?

           R. Certamente le notizie riguardanti la “questione Rom” che ogni giorno giungono "trasversalmente" all’opinione pubblica, non sono incoraggianti. Infatti, mettono in evidenza quanta intolleranza e ostilità esistano nei loro confronti e pure nei riguardi degli immigrati, anche se bisogna ben distinguerli. Le espulsioni e gli sgomberi messi in atto non soltanto a Milano, ma in tante altre città, ne sono una dolorosa conseguenza. Tuttavia, oso dire che l’accoglienza è sempre un valore fondamentale della nostra società e gli italiani la considerano un tratto essenziale e indispensabile del proprio patrimonio culturale, nonostante tutto. Chi ha vissuto in Africa per 20 anni e altri 10 nel mondo, fuori, lo sa bene. I Rom costituiscono comunque una grande sfida anche per la Chiesa, che è presente in mezzo a loro con tanti operatori pastorali e sociali, i cui criteri d’azione sono la carità e la solidarietà, unitamente alla giustizia e alla legalità. Ovviamente, non sempre l’ospitalità va di pari passo con la garanzia dei diritti e la risposta dei doveri, ma questo è un vasto campo di lavoro che spetta soprattutto a chi è preposto alla sicurezza e all’accoglienza, come rammentò Papa Benedetto XVI. 

  1. In Italia assistiamo a una sorta di stigmatizzazione della povertà (migranti, lavavetri, clochard). Che ne pensa?

          R. La parola usata nella sua domanda dà già un indirizzo alla mia risposta. Nessuno dev’essere stigmatizzato per la sua condizione e, peggio, per la sua povertà. Non si deve così criminalizzare chi, per esempio, è costretto a vivere in baracche o rifugi impropri. Peraltro è vero che la legalità è un valore, in vista del bene comune, ad evitare anche ogni xenofobia o razzismo.

In tutto ci vuole la giusta misura e la ragionevolezza e l’impegno a usare quella congiunzione “e” che io, con altri, definisco “cattolica”. Accoglienza e sicurezza è un binomio che si deve tenere insieme, pur considerando certe situazioni limite. Per noi, comunque e sempre, la carità vera è un valore e non si tratta di buonismo. 

  1. eccellenza, i media talvolta soffiano sul fuoco dell’intolleranza. È solo per vendere qualche copia in più oppure c’è una più profonda incomprensione della migrazione e della condizione Rom?

R. Tocchiamo qui un tasto delicato e per me dolente: il compito dei media nella società. Certo essi devono informare ed essere obiettivi, nella ricerca della verità, ma dovrebbero pure “educare” i lettori - scusi il termine -, dunque formare e non solo informare (magari con toni scandalistici ed ossessivi), con funzione pedagogica. Quando si martella l’opinione pubblica per giorni e giorni in toni allarmistici, è più difficile per tutti vivere oltre l’emotività legata magari ad avvenimenti brutali - da condannare - e per le autorità prendere giuste decisioni, rispettose di tutti, anche dei diritti umani. Il fuoco dell’intolleranza sonnecchia magari sotto le ceneri ed è sempre pronto a sprigionare la sua fiamma distruttrice, magari aiutato dalla paura dell’altro, di colui che è differente da noi. E più c’è differenza più c’è difficoltà ad accettare l’altro.

Anche i giornalisti, poi, sono uomini e donne soggetti ad ideologie dei nostri tempi, con i propri stereotipi. E qui potrebbe albergare quella profonda incomprensione a cui lei fa cenno come ipotesi. Tra migranti e zingari poi vi è una profonda differenza, specialmente culturale, di diversità da noi, per cui è più difficile per gli zingari l’accettazione, l’integrazione, che peraltro non è assimilazione, come noi continuamente ripetiamo.


 

* da parte del Sig. Maurizio Regosa, per il Settimanale “Vita”, Roma 13 dicembre 2007.

 

top