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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 105, December 2007

 

 

QUATTRO «CANTIERI DELLA FRATERNITÀ»

PER UN’INTEGRAZIONE ARMONIOSA* 

 

Il cardinale André Vingt-Trois, arcive­scovo di Parigi la considera una priorità pastorale: la comunità ecclesiale deve trasformarsi in comunità accogliente, per testimoniare come la forza di un'integrazione armoniosa fra tutte le sue componenti sia la strada giusta per co­struire una società migliore.

I vescovi francesi seguono con parti­colare apprensione l’evolversi degli avvenimenti che in questi giorni hanno susci­tato delle preoccupazioni in tutto il Pae­se. Lo fanno con la discrezione che sem­bra contraddistinguere il loro stile pasto­rale. Non intervengono direttamente, ma sono alla costante ricerca del dialogo con tutte le parti sociali, politiche, soprattutto religiose. Il cardinale André Vingt-Trois, presidente della Conferenza episcopale, nell'intervista che ha rilascia­to a «L’Osservatore Romano», all'indo­mani della creazione a cardinale, manifesta la sua preoccupazione pastorale per lo svilupparsi della situazione e ri­lancia le indicazioni che i vescovi francesi avevano proposto esattamente un anno fa. Si era alla vigilia delle elezioni presidenziali; negli occhi, come nel cuore, ripassavano le immagini (riviste qualche giorno fa) delle banlieux in fiamme.

In un messaggio del Consiglio perma­nente dei vescovi la proposta fu quella dei quattro «cantieri della fraternità» in cui lavorare per ricostruire una società degna per tutti gli uomini di Francia: giovani e famiglia; lavoro e impegno; mondializzazione e immigrazione; etica e morale. 

Ritiene ancora valide quelle proposte alla luce dei fatti che si ripropongono oggi nella vita dei parigini?

Io lo auspico. Certamente non dob­biamo, noi vescovi francesi, fornire solu­zioni che non ci appartengono, ricette che non possediamo. La nostra missione è comunque quella di risvegliare le co­scienza di tutte le parti coinvolte.

La prima cosa che dovremmo cercare di fare è invitare i nostri concittadini a prendere coscienza dell'esistenza di un sentimento di ansia o di paura, inces­santemente alimentato, riguardo al futu­ro. Si tratta certamente di un sentimen­to che ha dei fondamenti obiettivi, ma che allo stesso tempo si presenta come una sorta di fantasma. Vorrei ricordare che in ogni periodo della storia dell'u­manità vi sono state paure virtuali.

Dovremmo dunque invitare i nostri concittadini a prendere coscienza del fatto che forse il nostro modo di vivere, la maniera in cui si è organizzata la nostra società, comporta sì un sistema che in qualche modo garantisce una sorta di tutela generale, che ci mette al riparo da molti rischi; ma consente il diffon­dersi anche di un consumismo smodato che accresce la disparità fra quanti pos­siedono mezzi in eccedenza e quanti non ne hanno affatto. Un po' come ac­cade nel mondo, fra quanti dispongono della ricchezza e quanti vivono in pro­fonda miseria. Forse è giunto il momen­to di interrogarci, con tutta sincerità, per capire se il futuro dell'umanità è ve­ramente segnato da quanti hanno qual­cosa e devono fare di tutto per conser­varlo, oppure se non sia il caso di ricon­siderare il nostro modo di vivere e di impegnarci per un sistema in cui vige una giustizia più equa, incentrato sulla ridistribuzione delle ricchezze. 

Questo però è un problema che riguar­da l'intera comunità internazionale, che si traduce nella scelta della globa­lizzazione, o della mondializzazione come alcuni preferiscono definire questo movimento che sembra sempre più coinvolgere la società internazionale.

Guardi non credo sia questione di ter­minologia, più o meno tecnica, quanto piuttosto di contenuti, soprattutto di una certa equità internazionale. Sarebbe completamente illusorio credere che l'Europa occidentale e industrializzata, ricca, possa mantenere il suo sistema chiudendolo al resto del mondo. Una delle ipotesi di soluzione e d'impegnarsi in processi di cooperazione e di sviluppo nei paesi non industrializzati. Ciò signifi­cherebbe non considerare l’equità come attrazione dei più poveri verso i Paesi più ricchi, ma come impegno dei Paesi più ricchi a sviluppare le ricchezze in al­tri Paesi. Ma questo è un impegno a lungo termine e che richiede molta pa­zienza e perseveranza.

Ora vi sono, nella situazione in cui ci troviamo, molte persone che si arrangia­no alla meglio per varcare le frontiere e che sono effettivamente presenti nei no­stri Paesi. È evidente che un governo responsabile non può rinunciare a ogni sorta di gestione in queste situazioni, ma deve mettere in atto mezzi per rego­lare l’immigrazione in funzione della si­tuazione economica e delle capacità d'integrazione. 

Non è forse quello dell'integrazione dei giovani immigrati il problema che scuote maggiormente il tessuto sociale parigino? Quale potrebbe essere l'impo­stazione giusta per la soluzione dei pro­blemi degli immigrati?

La Francia, e penso che lo stesso val­ga per l'Italia anche se sotto un'altra forma, è un Paese con una lunga storia d'immigrazione. Noi abbiamo vissuto, soprattutto nel corso del XX secolo, ondate d'immigrazione dovute agli eventi politici verificatisi in Russia, in Germa­nia, in Italia, in Spagna, e così via. Ab­biamo avuto fenomeni migratori, molti fenomeni migratori direi, fra cugini, os­sia fra Paesi europei, dove sussisteva già una certa affinità culturale ed elementi di comunione culturale che hanno per­messo un'integrazione relativamente più facile.

 Ora siamo di fronte a un'immigrazio­ne di culture straniere. Ci troviamo di fronte a persone che arrivano spesso senza mezzi economici, in situazioni di estrema povertà. La Chiesa, anche se consapevole che certamente tutta l'umanità non si riunirà su una piccola por­zione di territorio, ritiene tuttavia che quando un uomo, una donna, dei bambini, si ritrovano in strada, senza un lavoro, senza un alloggio, senza cibo, si ha il dovere di occuparsi di loro, altresì convinta che la soluzione non è quella di metterli in prigione e di metterli alla porta disprezzandoli. Bisogna cercare di trovare delle soluzioni, altre strade. Anche se non è facile visto che viviamo in un universo limitato, e che dobbiamo accettare di condividere qual­cosa. Ed è proprio su questo punto, sulla condivisione dei beni, sulla condivisio­ne del lavoro, che si confrontano non deologie ma, direi, soprattutto affetti di­versi. 

A Parigi il fenomeno migratorio assume anche un volto diverso, poiché gran parte della popolazione giovane delle periferie è costituita da francesi nati da genitori immigrati. Ma francesi a tutti gli effetti.

È tutta un'altra questione. Noi abbia­mo in Francia emigrati che sono alla terza generazione. Ma sono completa­mente scolarizzati; devono piuttosto af­frontare, in particolare i giovani, il pro­blema dell'integrazione con i loro coeta­nei della nostra società tradizionale. Come si può formare questi giovani in vi­sta della loro integrazione? Si distribuir­anno diplomi in tutte le direzioni senza preoccuparci di sapere a cosa potranno servire? Questa difficoltà, che riguarda tutti i giovani, coinvolge però in modo particolare e più specifico i figli di famiglie immigrate che mostrano anche un certo ritardo culturale. E questo è un altro grande problema. 

Come può affrontare la Chiesa queste così grandi problematiche, tenen­do conto del tessuto estremamente secolariz­zato con il quale si con­fronta in Francia?

Non viene mai garantito nel Vangelo che la nostra parola sarà ascoltata o accettata. Dunque il nostro lavoro, la nostra missione è - quando consideriamo che a essere in gioco è la dignità della persona umana o il futuro dell'uomo - dire quello che pensiamo e mettere le persone dinanzi alle loro responsabilità. Poi spetta a esse decidere cosa vogliono fare. Il Signore non ci ha inviati per sostituire il Parlamento o il personale politico, noi non siamo stati inviati per fare la guerriglia legislativa. Siamo stati inviati per annun­ciare il Vangelo. Vi sono dei laici cristiani impegnati nella vita politica, nel lavo­ro legislativo che si sforzano realmente di essere testimoni dei valori nei quali credono. Credo che questo possa essere un modo per raggiungere i nostri obiet­tivi e cambiare le cose. In questo mo­mento ci sono molti cristiani che stanno cercando di fare qualcosa. Incontrano difficoltà, è vero, ma vanno avanti. Sen­za dubbio siamo in una situazione stra­na, possiamo rivolgerci ai nostri concit­tadini, fare osservazioni quando lo rite­niamo opportuno, ma non sappiamo come potrà essere utilizzato quello che diciamo.

La nostra, del resto, è una società multiculturale e plurireligiosa, e dunque noi abbiamo il dovere di testimoniare il Vangelo in questa società e ciò deve ca­ratterizzare tutto ciò che facciamo.

Per questo lo scorso anno ho aperto quelli che abbiamo definito i quattro «cantieri» principali nei quali svolgere il nostro lavoro pastorale: la gioventù e la famiglia, la solidarietà nel lavoro, il campo morale, l'etica nella mondializza­zione. Dalle visite pastorali fatte in questi anni abbiamo potuto costatare che in molte parrocchie sono state avviate ini­ziative adeguate al lavoro da svolgere nei quattro cantieri. Ma è ancora troppo presto per trarre conclusioni. La speran­za è che la comunità ecclesiale possa crescere e aiutare il Paese a crescere con lei. 

Quale può essere il contributo della Chiesa in Francia al processo di solidarietà internazionale?

Ho indicato come priorità l'accoglien­za ai fratelli delle Chiese orientali che vengono da noi. Ne arrivano tanti e hanno bisogno di tutto. Stiamo però or­ganizzando anche un servizio di soste­gno per quanti restano nelle loro terre. Un modo per sostenerli è per esempio andare a visitarli con una certa frequen­za per far sentire loro comunque il calore della nostra vicinanza.

 

* Intervista di Mario Ponzi al Cardinale André Vingt-Trois, Arcivescovo di Parigi. L’Osservatore Romano, N.

 

277 (44.720), 3-4 dicembre 2007, p. 6.

 

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