The Holy See
back up
Search
riga

 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 105, December 2007

 

 

reviews

 

 

La Iglesia sostiene que la integración de los inmigrantes exige paciencia* 

 

Jesús Bastante

 

MADRID. La Plenaria de la Conferencia Episcopal ha dado luz verde a la publicación del documento «Iglesia en España y pastoral de las migraciones», preparado desde hace meses por la Comisión Episcopal de Migraciones y que pone de relieve los desafíos de la sociedad (entre ellos, una dosis de paciencia) ante el fenómeno de la inmigración y la respuesta que, desde la Iglesia, se quiere ofrecer ante esta nueva situación.

El texto «contiene reflexiones teológicas y orientaciones prácticas», y pretende «dotar a nuestra Iglesia, que camina en España, de un instrumento para responder al fenómeno social de la emigración, para ofrecer una ayuda eficaz a las víctimas de los movimientos migratorios, para acoger a nuestros hermanos en la fe y afrontar el reto de una nueva evangelización con todas las exigencias que plantea».

«Llamada de atención» social

El citado documento nace con el objetivo de «ayudar a la Iglesia a ser signo e instrumento de la acción de Dios en nuestro tiempo para todos los hombres y mujeres, que viven en nuestro país, sea cual sea su procedencia, cultura, religión o condición social», al tiempo que prestar «un servicio a la pastoral de la Iglesia y, además, una llamada de atención a todos los ciudadanos ante el fenómeno social de la migración, que afecta e interpela a toda la sociedad».

El texto aprobado por la Plenaria recuerda cómo, en los últimos diez años, la cifra de inmigrantes ha pasado de 542.314 en 1996 a 4.144.166 en 2006, y añade que la integración de los extranjeros llegados a nuestro país exige «un esfuerzo paciente y sostenido», tanto por parte del país de acogida como por parte de los trabajadores inmigrantes y sus familias.

«Los inmigrantes – recordaba Blázquez en su discurso – deben ser reconocidos en sus derechos humanos y laborales y ellos a su vez deben respetar las leyes y tradiciones legítimas del país que los recibe. Si unos y otros trabajan en la búsqueda de la integración de los inmigrantes, los posibles brotes de rechazo y exclusión serán sofocados fácilmente».

Por otro lado, los obispos tuvieron oportunidad de conocer los primeros resultados de la campaña de publicidad lanzada a primeros de mes. En este sentido, los prelados se mostraron «satisfechos» por la repercusión de la misma, que informa sobre las múltiples actividades que realiza la Iglesia en nuestro país por la educación, la salud y la promoción social.

La Plenaria también aprobó los presupuestos de la Casa de la Iglesia para este año, y ultima la rúbrica de un texto, elaborado por la Comisión de Pastoral Social y titulado «La tierra se la ha dado a los hombres. Humanizar la globalización y globalizar la solidaridad». 


 

* ABC, 22 Novembre 2007, p. 29.

 

*******

 

OPERATORI DI UNA PASTORALE DI COMUNIONE*

 

LÂ’Arcivescovo Agostino Marchetto ricorda, nelle pagine 5-8, che dalla pubblicazione dellÂ’EMCC sono passati 3 anni. Anteriormente furono editi La sollecitudine della Chiesa verso i migranti e Migranti e Pastorale dÂ’accoglienza, sulla I e II parte dellÂ’EMCC, rispettivamente. La successione di apparizione ha avuto una considerevole continuità, dopo un periodo di interruzione dei sopraindicati Quaderni. In effetti si tratta di una nuova serie.

Questo terzo volumetto si occupa di ‘comunioneÂ’ – come dice bene il titolo – che è parola-chiave ecclesiologica, specialmente dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II. Il concetto–realtà–vita è usato a più riprese e in varie lingue, in più contesti e in vari contributi.

Si legge, ad esempio, a pagina 99: “Per le persone consacrate, che si dedicano alla pastorale dei migranti e degli itineranti nei vari settori in cui si evolve la mobilità umana [Â…], una pastorale di comunione diviene espressione concreta della loro vita, esperimentata e vissuta nel tempo di formazione e nella pratica quotidiana di condivisione, di accoglienza e di reciproco rispetto nelle comunità del proprio Istituto [Â…] per attuare come comunità di autentica comunione tra i fedeli residenti e tra gli stessi migranti e itineranti” (confrontare i numeri 80-85 della EMCC). La citazione è presa dal capitolo «I religiosi e le religiose per una pastorale migratoria di comunione», scritto da S.E. Mons. Piergiorgio Silvano Nesti.

E, poi, si attesta, nelle pagine 108 e 109, che i “semplici” cristiani sono pure operatori di una pastorale di comunione, chiamati a realizzare lÂ’impegno di servizio presso i migranti. Si comprende subito però che una tale chiamata avviene dentro la Chiesa. Essa “si sforza di essere interamente missionaria-ministeriale”, nella quale perciò “i fedeli laici assumono tipiche incombenze di Diaconia, come nella visita ai malati [Â…] nei centri di ascolto e negli incontri di meditazione della Parola”, ma senza dimenticare “il sindacato e lÂ’ambito di lavoro”,  “nellÂ’elaborazione di leggi intese a facilitare il ricongiungimento familiare dei migranti e la parità di diritti e opportunità”. Queste realtà emergono, confrontando i numeri 86 e 87 dellÂ’Istruzione.

Si dice anzi qualcosa in più rispetto ai laici, nel momento in cui si afferma, ancora al numero 87, che “in campo ecclesiale si potrebbe più specificamente vagliare la possibilità di istituire un apposito ministero (non ordinato) dellÂ’accoglienza, con il compito di avvicinare i migranti e i rifugiati e di introdurli progressivamente nella comunità”. Commenta S.E. Mons. Josef Clemens (il cui contributo «I laici e i movimenti ecclesiali per una pastorale migratoria di comunione» stiamo valutando), a pagina 108, che “i contenuti dellÂ’ Istruzione sorprendono [Â…] proprio per le molteplici e gravose responsabilità attribuite ai fedeli laici”.

Tutto questo è sempre nello spirito e nella lettera del Concilio Ecumenico Vaticano II, e del suo senso di comunione. Con esso cÂ’è stata una svolta, senza rotture, nella vita e pratica della Chiesa: è il rinnovamento e la fedeltà, insieme: lÂ’aggiornamento. Avendo luogo il Sinodo Straordinario dei Vescovi nel 1985, tale visione conciliare è stata letta e interpretata, appunto, nei termini di ecclesiologia di comunione: “This ecclesiology of communion is closely bound to the spirituality of communion”. Lo leggiamo, a pagina 14, nel contributo dellÂ’Arcivescovo Agostino Marchetto dal titolo: «Agents of a Pastoral Care of Communion», dove si disegna una panoramica sulle persone e/o organismi direttamente impegnati in tale specifico ambito: le Chiese di partenza e di arrivo, la Commissione episcopale per la Migrazione, il Cappellano/Missionario dei Migranti, i Presbiteri diocesani/eparchiali, il Coordinatore nazionale, i Religiosi e le Religiose con impegno fra i migranti, gli Agenti pastorali non-ordinati, i Laici, le Associazioni laicali e Movimenti ecclesiali.

È interessante, inoltre, annotare, come chiarisce lÂ’intervento di P. Jose Pollayil («The diocesan/eparchial presbyters for a pastoral care of communion») che “EMCC is the first document on migration” dilatato nellÂ’ interesse ai cattolici migranti delle Chiese Orientali Cattoliche e alla loro cura pastorale. Addebitiamo questo particolare al fatto che la EMCC è veramente in campo migratorio un Documento postconciliare comunionale, che applica, con rispetto della loro identità, la pastorale della Chiesa latino-cattolica anche ai migranti cattolici orientali, come segno di comunione, secondo la mente e la lettera del Concilio Ecumenico Vaticano II.     

“In their new situation and new country”, ad esempio, i migranti cattolici orientali hanno bisogno, appunto, di una cura pastorale specifica; caso contrario, cÂ’è il serio rischio dellÂ’abbandono spirituale di questi popoli.

Scorrono così, insomma, davanti agli occhi dei lettori otto contributi e commenti alla EMCC nel segno della ‘comunioneÂ’ come principio-guida. Infatti, gli altri quattro sono «La pastorale des migrants dans la formation des candidats au Sacerdoce» del Cardinale Zenon Grocholewski, il quale incentra la sua attenzione sulla pastorale migratoria in quanto sviluppo e maturazione comunionale e collegiale nella formazione dei candidati al Sacerdozio, includendo aspetti sia teologici che pastorali.

Lo segue il contributo «Per una pastorale di comunione nelle Chiese di partenza e di arrivo» di S.E. Mons. Lino B. Belotti e quello del Cardinale Theodore E. McCarrick su «The Episcopal Conferences in the Light of the Instruction Erga migrantes caritas Christi».

Il volumetto presenta infine lÂ’intervento di S.E. Mons. Precioso D. Cantillas su «The MigrantsÂ’ Chaplain/Missionary and the National Coordinator: for a Pastoral Work of Communion». Buona lettura!

(L. M.).

 

* A cura del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti è in libreria il terzo volume dei Quaderni Universitari, edito dalla Libreria Vaticana, a commento della parte III dellÂ’Istruzione Erga migrantes caritas Christi (in seguito EMCC). Ne è titolo Operatori di una pastorale di comunione.

 

*******

LÂ’Europa del dialogo dalla parte della vita*

 

Salvatore MAZZA

La novità è che, per la prima volta, un documento che parla a nome dei cristiani di tutte le denominazioni, afferma la necessità di rispettare l'essere umano «dal concepimento fino alla morte naturale». Una novità non da poco, che resterà a marcare questa "Terza Assemblea ecumenica europea" in maniera netta. Dire tuttavia che si sia arrivati con facilità a questa affermazione è altra storia, se è vero che, quella citata, è stata l'ultima delle aggiunte apportate al "Messaggio finale". E se è vero che non tutti i delegati delle "Chiese della Riforma" hanno mostrato di gradire la cosa.

Ma d'altra parte che l'"Assemblea di Sibiu", fin dall'avvio della sua preparazione nel gennaio del 2006, non avesse scelto la via più semplice dell'"embrassons nous" ma, piuttosto, quella più faticosa del guardare in faccia la realtà ecumenica, e affrontarla, è stato chiaro fin da subito. E Sibiu l'ha fatto. Con coraggio, e molta fatica. Chiamando le cose col loro nome e senza nascondere dietro a un dito i problemi esistenti. Il cardinale Jean Pierre Ricard, il reverendo Jean-Arnold de Clermont, il vescovo Vincenzo Paglia e il metropolita Gennadios, nel presentare il Messaggio, hanno del resto tutti sottolineato la stessa cosa: questa Assemblea, coi i suoi 2.100 delegati - quanti mai prima - è stata la miglior risposta a chi manifestava la paura che stessimo vivendo una sorta di «inverno ecumenico».

Il Messaggio, in tal senso, ne è uno specchio fedele. Per aver voluto e saputo prendere atto di una realtà difficile, per aver affrontato e scelto di esprimersi anche sui punti più controversi. Anche - forse soprattutto - per aver avuto il coraggio di recepire "in toto" il Messaggio indirizzato all'Assemblea dai giovani, che - altra novità - resterà agli atti come parte integrante delle conclusioni dell'Assemblea. D'altra parte, lo aveva detto il cardinale Walter Kasper nella relazione d'apertura, un «ecumenismo delle coccole» non serve a niente.

Piuttosto tradizionale nella sua struttura e, con poche eccezioni come quella riportata all'inizio, anche nelle dieci raccomandazioni che declina, il Messaggio di Sibiu ha così un valore in sé che trascende i contenuti. Parole di una Chiesa che è viva, consapevole che «la nostra testimonianza di speranza e unità per l'Europa e per il mondo sarà credibile solo se continueremo il nostro pellegrinaggio verso l'unità visibile». E se la «dolorosa ferita» delle divisioni è avvertita, «noi siamo convinti che la più larga famiglia cristiana deve affrontare le questioni dottrinali e, nello stesso tempo, cercare un ampio consenso sui valori morali che discendono dal Vangelo e un credibile stile di vita cristiano che testimoni con gioia la luce di Cristo nella nostra sfida al mondo moderno secolarizzato, sia in privato che nella vita pubblica». Di qui le prime quattro raccomandazioni sulla necessità di annunciare Cristo, di proseguire nel dialogo sull'"ecclesiologia", di aumentare le occasioni di preghiera in comune e di formazione ecumenica a tutti i livelli.

Il capitolo sulla presenza in Europa si apre con l'impegnativa affermazione che «ogni essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, merita lo stesso grado di rispetto e di amore, a prescindere dalle differenze di credo, cultura, età, genere o origine etnica, dal concepimento fino alla morte naturale». Ribadito che «al dialogo non c'è alternativa», anche con le altre religioni, sollecita i cristiani d'Europa a un impegno «forte» per l'integrazione degli immigranti cristiani nei vari Paesi, «in particolare» i Rom. Invitando nello stesso tempo a recepire la "Charta Oecumenica" del 2001 come la «guida per il nostro cammino ecumenico».

«La luce di Cristo - prosegue il messaggio nella terza sezione, rivolta al mondo - ci invita a evitare di sperperare la preziosa eredità lasciata da quanti, negli ultimi sessant'anni, hanno lavorato per la pace e l'unità in Europa. La pace è un dono straordinario e prezioso. Interi Paesi aspirano alla pace. Popoli interi stanno aspettando di essere aiutati a uscire dalla violenza e dal terrore. Con urgenza noi ci impegniamo a rinnovare gli sforzi per questi fini. Noi rigettiamo la guerra come strumento per risolvere i conflitti, e siamo preoccupati per il nuovo riarmo. Violenza e terrorismo nel nome della religione sono una negazione della religione».

Seguono anche qui quattro raccomandazioni: per sostenere gli obiettivi dell'Onu per lo sviluppo per alleviare la povertà; perché il Consiglio delle "Conferenze episcopali" e la "Conferenza delle Chiese d'Europa", assieme a tutte le altre Chiese del mondo, avviino un processo consultivo per sollecitare i governanti sui temi della giustizia ecologica, della globalizzazione e del rispetto delle minoranze; per promuovere iniziative per la cancellazione del debito e sostenere il commercio solidale; e per dedicare i primi quattro giorni di novembre «alla preghiera per la protezione del creato».

Concretezza, insomma. Sibiu, ha detto Paglia presentando il Messaggio, «rappresenta in questo senso una speranza. Per far comprendere che l'ecumenismo ha bisogno di procedere non solo dai piani alti, ma anche da quelli bassi». 


* Sibiu, scelte forti e innovative nel messaggio finale. Da Avvenire, 9 settembre 2007, p. 25.

 

*******

Soldatini di piombo* 

 

Qual è il punto finale dellÂ’orrore umano? Qual è il confine della cattiveria umana?

Sembra essere questo il grido di Giulio Albanese al termine del suo ben serio libro Soldatini di piombo. La questione dei bambini soldato, Saggi, Universale economica Feltrinelli, Milano 2007, 160 pagine.

Ci troviamo qui di fronte a una investigazione e un percorso tra i più raccapriccianti e orrendi, in quanto i protagonisti dellÂ’indagine, o meglio le vittime sono appunto dei bambini (alle volte anche bambine) dai nove anni in su, rapiti per le armi.

In verità, ad entrare nei mille e pazzi conflitti armati africani, tali fanciulli sono costretti in modo brutale. Rapiti alle loro famiglie, sono spediti a lottare con un fucile stretto sul petto, che dovrebbe stringere invece libri e quaderni.

Il libro è scritto per svegliare le coscienze e muovere le acque delle competenti Istituzioni. Infatti, esso vuole servire “una causaÂ… Si è parlato molto, in questi anni, di amnistia, di provvedimenti legali che possano riabilitare i bambini soldato per dare loro un futuro e per liberarli definitivamente dai loro pigmalioni di morte”. Così leggiamo e sottolineiamo nella Introduzione “Perché questo libro”.

Principalmente emergono i due scenari di morte, che sono l’Uganda e la Sierra Leone, i quali danno estensione di racconti atroci ai due corrispettivi capitoli, a cui seguono i sottotitoli: I ribelli di Kony. Scheggia impazzita nel cuore dell’Africa; L’orrore di Cwero; Soldatini per forza; Denti, amore e fantasia; ‘Wiro ki moo’; Notti all’addiaccio; Totong, i macellai; L’avventura di Tumangu; Contro ogni rassegnazione.

Vi è poi il ‘capitoloÂ’ Sierra Leone con i seguenti significativi sottotitoli: Una terra insanguinata; Taglio corto, taglio lungo; Latte, droga e polvere da sparo; Il diavolo e lÂ’acqua santa; Uccidere per forza o per disperazione; Follia allo stato puro; A proposito di segreti e tabù; Sognando una piroga.

Purtroppo lÂ’utilizzo dei bambini per scopi bellici non è nella storia dellÂ’umanità una novità assoluta, basta ricordare la mitica Sparta, che fece dellÂ’arte militare impartita ai giovanissimi uno degli aspetti fondamentali della sua politica egemonicaÂ… Ma è tremendamente vergognoso il quadro attualizzato mostrato dal libro di Albanese, dove tra lÂ’altro si costata ( v. a pagina 157) il falso alibi per esentarsi dal problema da parte della comunità internazionale, in quanto nel territorio di conflitto si fanno presenti potenze regionali come appunto è lÂ’Uganda. Questo libro serve dunque anche a chiarire la responsabilità dunque della comunità internazionale.   

Che dire infine? Anche noi, con questi ragazzi, al modo gioioso che caratterizzava don Bosco, vorremmo sognare una piroga che naviga contro ogni rassegnazione. (L.M.)          


 

* Giulio Albanese, “Soldatini di piombo. La questione dei bambini soldato” Saggi, Universale economica Feltrinelli, Milano 2007, 160 pagine.

 

*******

 

LES ROMS SONT AUSSI EUROPEENS !*

 

Norman MANEA

 

Le crime atroce récemment commis dans les environs d'un camp de réfugiés situe à Tor di Quinto, près de Rome, a provoqué une véritable onde de choc, tant en Italie qu'en Roumanie. Dans le cadre du débat public sur le statut des réfugiés et des résidents étrangers, ce fait divers a vite revêtu une dimension sociale et politique. Le meurtre, qui a suscité de violentes réactions dans une partie de l'opinion, a également donné lieu à de scandaleuses prises de position de la part de certains responsables politiques italiens et roumains, tout prêts a y répondre par des mesures expéditives aux accents xénophobes et totalitaires de triste mémoire.

Amplifier le caractère déjà tragique dÂ’un crime individuel par une sanction collective visant lÂ’ensemble d'une communauté constituerait un acte hautement irresponsable et lourd de conséquences néfastes, pour les victimes aussi bien que pour la communauté d'où le coupable est issu. Envisager une punition collective reviendrait à faire preuve d'une inacceptable amnésie, tant du côté italien que du côté roumain. Non seulement en raison de ce qui sÂ’est passé en Europe à lÂ’époque du fascisme, du nazisme et du communisme, mais aussi au vu de ce qui se pratique aujourd'hui dans le monde sous diverses dictatures.

LÂ’histoire même de ces deux peuples, italien et roumain, vient nous le rappeler. Les Italiens, qui ont souvent migré du Sud vers le Nord, mais aussi à lÂ’extérieur de leurs propres frontières, en savent long sur la condition dÂ’exilé ou dÂ’étranger. Quant à la Roumanie, la façon dont elle a traité et traite ses citoyens roms est tout sauf admirable. Alors que leur présence est signalée sur le territoire de lÂ’actuelle Roumanie depuis le XIVe siècle, il faudra en effet attendre 1856 pour qu'ils soient officiellement affranchis du statut dÂ’esclave qui fut le leur cinq siècles durant. Et, si le postcommunisme a libéré une formidable énergie, il sÂ’est aussi caractérisé par une course cynique aux privilèges et un darwinisme social où dominent les intrigues byzantines des nouveaux parvenus.

Selon les données publiées par le quotidien Evenimentul Zilei, la minorité rom compterait ainsi 41% de travailleurs non qualifiés et souffrirait dÂ’un taux dÂ’analphabétisme de 38,7%. Or ce vieux problème roumain, et plus largement centre-est-européen, touche aussi, depuis peu, lÂ’Europe occidentale. Ces nomades venus de lÂ’Inde, qui ont pérégriné à travers le Moyen-Orient et lÂ’Empire byzantin, sont désormais européens à 80%. Dans lÂ’affaire qui nous occupe, lÂ’assassin, Nicolae Romulus Mailat, un jeune homme de 25 ans, avait déjà été condamné en Roumanie pour vol qualifié à lÂ’âge de 14 ans. LÂ’année ayant précédé son arrivée en Italie, il avait en outre été interné dans un centre fermé de rééducation, avant d'être libéré. La pauvreté serait-elle à lÂ’origine de sa délinquance juvénile comme du crime perpétré en Italie ?

Dans le grand roman de Dostoïevski Crime et châtiment, ce nÂ’est pas seulement le nihilisme qui pousse an crime lÂ’étudiant Raskolnkov, c'est aussi la misère. Si son identité sociale est tout autre que celle de Mailat et son « profit spirituel » radicalement distinct, son double meurtre nÂ’en est pas moins abominable. Nous nÂ’avons par ailleurs aucune raison de penser que le crime pourrait constituer, pour Mailat, le point de départ d'une renaissance spirituelle ou d'un salut par la souffrance, comme dans le cas de Raskolnikov. Nous pourrions néanmoins nous arrêter un instant sur les mots de lÂ’un des interlocuteurs du héros dostoïevskien qui, tout en évoquant la «Sodome repoussante» où il sÂ’est égaré, estime que la pauvreté nÂ’est pas un vice, à la différence de la misère. Dans la pauvreté, au moins gardons-nous « la noblesse des sentiments innés », dit-il. Dans la misère, en revanche, l'effondrement s'avère souvent catastrophique.

Mailat a fui la misère qui régnait dans son pays sans sÂ’imaginer qu'il se retrouverait en Italie dans un camp de réfugiés ou la misère serait tout aussi oppressante. Cela ne constitue, bien entendu, ni une excuse ni une circonstance atténuante pour un tel crime, ni d'ailleurs pour quelque crime que ce soit. Il s'agit néanmoins d'une prémisse qui ne saurait être ignorée pour peu quÂ’on veuille tenter à lÂ’avenir de remédier à ce genre de situation.

Pour lÂ’heure, il ne serait évidemment pas raisonnable d'escompter une réincarnation angélique du criminel Mailat. Nous pouvons et nous devons toutefois solliciter une radicale réévaluation du statut social de ces marginaux. Nous pensons ici, avant tout, aux Etats roumain et italien, aux communautés rom et roumaine qui vivent dans ce pays, mais aussi a lÂ’Union européenne. QuÂ’on le veuille ou non, le coupable relève de toutes ces communautés à la fois.


 

* LÂ’Italie, la Roumanie et lÂ’UE doivent réévaluer  radicalement le statut social de cette communauté; Le Monde, Mardi 27 novembre 2007, p. 24.

*******

LÂ’ETAT ROUMAIN FAIT REPENTANCE

POUR LA DEPORTATION DES ROMS* 

 

Alain Guillenioles

Le président roumain Traian Basescu a décoré lundi soir trois Roms survivants de la déportation de la Seconde Guerre mondiale, connaissant le rôle de l'Etat roumain dans ce crime de masse.

Dans un geste politique sans précédent, le président roumain a reconnu lundi la responsabilité de son pays dans la déportation massive des Roms durant la Seconde Guerre mondiale. Décorant trois survivants, il a demandé pardon à la communauté rom pour leur envoi massif vers des camps de concentration. «Les autorités roumaines n'ont fait preuve d'aucune pitié. Elles ont arraché les Roms à leur maison, à leur ville et à l'armée et les ont envoyés loin, dans le but de créer une nation pure. Nous devons dire à nos enfants qu'il y a soixante ans, l'État roumain a envoyé des enfants comme eux mourir de faim et de froid», a déclaré le président roumain. Lors de cette cérémonie, Traian Basescu a également prononcé quelques mots en langue rom, une première de la part d'un personnage officiel.

Plus de 25000 Roms de Roumanie ont été expédiés dans des camps en Transnistrie, dans lÂ’est de la Moldavie, durant la Seconde Guerre mondiale. Environ 11000 d'entre eux y sont morts. Il a fallu attendre 2003 pour que la Roumanie reconnaisse son rôle dans la déportation des juifs. Entre 1940 et 1944, 270.000 d'entre eux ont été déportés par le régime pronazi du maréchal Ion Antonescu. En décorant trois Roms, deux semaines après avoir fait la même chose pour 10 survivants juifs, le président Basescu entame un processus de reconnaissance important. «Il existe ici une constante au sein de l'administration et des institutions; celle de considérer les Roms comme étant des gens à part, différents. Le président Basescu est le premier à reconnaître que nous sommes une composante à part entière de la société», se réjouissait hier Julian Parasci, président de lÂ’Association nationale des jeunes roms de Roumanie.

Forte de deux à trois millions de personnes, la minorité rom de Roumanie est la plus importante d'Europe. Elle souffre de discrimination à lÂ’embauche, d'illettrisme et se heurte en permanence au racisme ordinaire en Roumanie. «Il y a deux mois, le président Basescu avait lui-même commis une faute politique en traitant de "sale Tsigane" une journaliste qui voulait l'interroger», rappelle Petre Petcut, rom de Rouma­nie et doctorant à Paris à lÂ’École des hautes études en sciences sociales (EHESS) où il travaille précisément sur la minorité rom de Roumanie.

Élu en décembre 2004, le président Basescu s'est engagé, sous la pression européenne, en faveur d'une reconnaissance, par la Roumanie, des pages les plus sombres de son histoire récente. Il a soutenu la mise au jour des archives communistes. «Il y a deux ans, il avait déjà renvoyé au Parlement une loi sur la commémoration de la Shoah pour qu'on y ajoute la mention des Roms, alors qu'ils nÂ’y figuraient pas », rappelle Petre Petcut.

Alors que la Roumanie s'apprête à élire ses députés européens, le 25 novembre, et que le président est toujours en guerre contre son premier ministre, ce signal en direction de la minorité rom est un moyen d'attirer à lui le vote des Roms, ce qui est important. Pour autant, « son geste de rapprochement en direction de la communauté rom est tout à fait à part, unique en son genre », indique Petre Petcut.


 

* La Croix, 25 octobre 2007, p. 5.

*******

 

ROM PIÙ CASE E MENO CAMPI*

 

Andrea DÂ’AGOSTINO

Per affrontare la questione rom, bi­sogna innanzitutto uscire da una logica di emergenza. Questo in sintesi l'appello di 16 tra associazioni e sindacati che hanno sottoscritto il do­cumento “Rom e politiche sociali” pre­sentato ieri alla Camera di commercio di Milano. Tre le proposte lanciate dal car­tello (ne fanno parte, tra i tanti, Acli, Ca­ritas ambrosiana, Comitato Rom e Sinti insieme, Comunità di SantÂ’Egidio, Cgil, Gruppo Abele e Opera Nomadi): at­tivare un tavolo permanente con gli enti locali, superare i campi nomadi e gli sgomberi di questi ultimi - che provo­cano solo un “trasferimento” del pro­blema rom da un quartiere allÂ’altro av­viando nuove politiche per la casa, e promuovere la formazione e lÂ’inserimento lavorativo, in particolare per le donne.

Sull'emergenza campi, le associazioni propongono una fase di inserimento dei rom in appartamenti attraverso politi­che di sostegno all'affitto, che può esse­re diminuito o contrattato a seconda dellÂ’autonomia lavorativa dei soggetti coin­volti. Il documento propone anche lÂ’avvio di unÂ’istruttoria del patrimonio immobiliare dismesso in città e in provin­cia, «per valutare percorsi di recupero e riutilizzo a fini sociali».

Il “nodo” del lavoro prevede, invece, pro­getti di formazione professionale, oppure la costituzione di cooperative «re­cuperando eventualmente saperi preesistenti, talvolta derivanti da attività irregolari come il montaggio di stand, fiere o lavori edili». Attività che devono so­prattutto portare i rom ad uscire dai campi per recarsi al lavoro e acquisire nuove competenze: in questo punto rientrano anche i corsi di alfabetizzazione e lingua italiana. «Quello dei rom non è un problema amministrativo, ma culturale» ha commentato don Roberto Davanzo della Caritas ambrosiana. A quali condizioni possiamo aiutarli ad e­vitare i pregiudizi e a provare una convivenza? Già il termine “integrazione” mi sembra troppo impegnativo; dob­biamo prima di tutto toccare lÂ’opinione pubblica che spesso è ostile. È una questione che va affrontata in chiave edu­cativa e pastorale, non in chiave politi­ca». Davanzo ha concluso citando il di­scorso dellÂ’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, tenuto nella basilica di Sant'Ambrogio: «Questo documento è in piena sintonia con quanto detto dallÂ’arcivescovo il 6 dicembre, che dobbia­mo vivere secondo una chiara respon­sabilità sociale. E stare a questo tavolo è un modo di assumerci la nostra responsabilità sociale».

 

* da Avvenire, 11 dicembre 2007, p. 13.

*******

 

SICUREZZA A MILANO* 

 

Marco CREMONESI

Divisi su tutto. Quasi andassero a fondare due partiti diversi. Il faccia a faccia tra il presidente della Provincia di Milano Filippo Penati e lÂ’«infedele» Gad Lerner ha fatto scintille. Da attrito. Ma alla

fine, nel «salotto» della galleria Vittorio Emanuele, gli applausi dei milanesi hanno premiato Penati, più vicino al comune sentire sul tema dell'incontro, la sicurezza. La polemica tra i due candidati alla costituente del Partito democratico proseguiva da parecchie settimane. Penati, sostenitore di Walter Veltroni, ha da sempre posizioni assai nette: «La sicurezza è un diritto inalienabile, al pari della sanità e della scuola. E io penso che il compito della sinistra sia quello di allargare i diritti». In particolare quelli «più sentiti nei quartieri popolari che dovrebbero essere il nostro bacino di consenso e invece da quindici anni ci voltano le spalle». Il bindiano Lerner scuote la testa («Forse avresti preferito come interlocutore Giuliano Ferrara») e osserva che «il maggior problema di Milano non è certo l'immigrazione e la sicurezza. Io non credo che il compito di un partito sia quello di cavalcare il malcontento. E mi spaventa quando sento il centrosinistra parlare di ingressi a numero chiuso su base etnica. Attenzione: qui è in gioco un passo indietro di civiltà». Penati ribatte secco, e si conquista il primo applauso: «Il punto non è avere delle belle idee, ma il, governare bene. A quelli che ogni giorno mi dicono che hanno paura, io ho il dovere di dare una risposta». Ed è proprio il tema del governo che innesca il secondo duello. Penati non ne fa mistero, a lui l'Unione va stretta: «Stiamo costruendo un partito a vocazione maggioritaria, nel 2009 io non escludo di ricandidarmi sostenuto magari dal solo Partito democratico». «Mi vien da pensare – lo incalza Lerner – che, per evitare la fatica di negoziare con la coalizione, tu saresti disposto ad allearti con Formigoni e la Moratti. Mi spiace che sotto l'ombrello del Pd ci siano candidati così». «Guarda che ti sbagli – è la risposta di Penati – basta non decidere e si va tutti d'accordo. Poi, però, rischiamo di non fare le cose. Non credo sia questa la moralità della politica».

 

* Match tra Penati e Lerner e il pubblico applaude il presidente della provincia. Da Corsera, 11 ottobre 2007.

*******

 

DES ASSOCIATIONS SÂ’INQUIÈTENT DES RESTRICTIONS A LÂ’HÉBERGEMENT DÂ’URGENCE DES SANS-PAPIERS* 

 

Marine lamoureux

Pour rester en centre dÂ’hébergement, les étrangers, selon le projet de loi sur lÂ’immigration, devront justifier de la régularité de leur séjour

Passé relativement inaperçu pendant la discussion à l'Assemblée, lÂ’article 21 du projet de loi sur lÂ’immigration provoque la colère des associations. Introduit par un amendement du député UMP du Vaucluse, Thierry Mariani, il restreint les conditions d'hébergement d'urgence des sans-papiers au motif, entre autres, que « les étrangers en situation irrégulière ont vocation à être reconduits à la frontière ». En dÂ’autres termes, un sans-papiers pourra toujours être accueilli en centre d'hébergement d'urgence, mais ne pourra s'y maintenir. L'article incriminé revient pour cela sur la loi sur le droit au logement opposable (Dalo) du 5 mars, qui prévoit que « toute personne accueillie dans une structure d'hébergement d'urgence doit pouvoir y demeurer dès lors qu'elle le souhaite, jusqu'à ce qu'une orientation lui soit proposée ». Désormais, si lÂ’article 21 est voté en l'état, il lui faudra pour cela « justifier de la régularité de son séjour ».

Un véritable scandale pour nombre d'associations d'aide aux sans-abri. « L'accueil inconditionnel est un fondement de notre engagement rappelle Hélène Thouluc, de l'association Emmaüs. Avec la loi-Dalo, nous avions obtenu que les personnes puissent se poser et travailler à leur réinsertion, sans plus être obligées de quitter un centre au bout d'une nuit ou de quelques jours. » Elle redoute de graves conséquences pour les sans-papiers. «Que vont-ils devenir? Ils seront contraints de dormir dehors ou dans des squats, de se cacher.» Pour Jean Haffner, du Secours catholique, « les gestionnaires de centres vont se retrouver dans une situation délicate. Leur mission première est d'aider, pas de remettre à la rue.» L'Association nationale des assistants sociaux (Anas) est, elle aussi, montée au créneau, craignant d'être placée dans «une injonction paradoxale: aider des personnes en risque dans des conditions qui les fragilisent toujours plus».

Ces associations en appellent donc aux sénateurs, qui examinent le texte en séance jusqu'à jeudi. Il y a toutefois peu de chances que la Haute Chambre, par ailleurs attendue sur d'autres dispositions, comme les tests ADN, retouche lÂ’article 21. « Personne n'en a dit mot en commission la semaine dernière», assure le rapporteur, François-Noël Buffet (UMP, Rhône) , qui n'a guère de doute sur son adoption. Dans son rapport, il conclut néanmoins:

“Le risque est grand, notamment à Paris, que les étrangers en situation irrégulière soient contraints d'aller de centre d'hébergement en centre d'hébergement, sollicitant encore plus qu'aujourd'hui le 115.»

 

* La Croix, mardi 2 octobre 2007, p. 8.

*******

 

IMMIGRATI NEL GOLFO* 

 

Il nuovo numero della rivista semestrale plurilingue «Oasis » dedica la sezione di apertura all'approfondimento del tema del «meticciato di civiltà e culture», che costituisce fin dalla prima uscita della rivista uno dei suoi tratti originali e distintivi; in questa pagina riprendiamo uno stralcio del contributo firmato da monsignor Paul Hinder, vicario apostolico d'Arabia. In particolare il Patriarca di Venezia nell'editoriale del suddetto numero della Rivista rilegge il percorso compiuto: «Nessuna categoria, anche quella di meticciato, può diventare 'il' metodo con cui affrontare il fenomeno della mescolanza. Sarebbe grave trasferirla dal livello della descrizione dei fatti e trasporla al livello dell'orientamento prescrittivo. Tuttavia, se ben trattenuta nei limiti imposti dalla specificazione 'meticciato di civiltà e di culture' essa pare a me, nonostante tutti i rischi a cui è esposta, una categoria da privilegiare. A cui, in un qualche modo, subordinare le altre (interculturalità, integrazione, identità, dialogo, eccetera) e non viceversa. La ragione di questa mia preferenza viene dal carattere estremamente realistico, per così dire sanguigno, che il termine meticciato esprime. Ciò lo rende più capace di leggere il processo storico in atto mentre lo lascia aperto a necessarie delimitazioni rigorose, cosa che del resto sarebbe esigita da tutte le altre categorie». Dal 2004, anno della fondazione, la realtà di «Oasis » è cresciuta e oggi dà il nome a un Centro internazionale di Studi e ricerche, con sede a Venezia e presente nel mondo attraverso una fitta rete di rapporti. Si è dato nel tempo 4 strumenti coordinati tra loro: la rivista cartacea, pubblicata semestralmente in 4 edizioni bilingui: italiano-arabo; inglese-arabo; francese-arabo; inglese-urdu; la newsletter, spedita via posta elettronica ogni mese, gratis, in italiano, inglese, francese a chi ne fa richiesta; il sito web (www.oasiscenter.eu); la collana di libri che conta vari titoli: «La promessa» del cardinal Lustiger, «Cristiani e musulmani, fratelli davanti a Dio?» di Christian Van Nispen; «Dove guarda l'Indonesia? Cristiani e musulmani nel Paese del sorriso» di Maria Laura Conte, premio Capri San Michele 2007.
«Il Golfo» è un modo conveniente per descrivere un'area che ci piace immaginare come un'entità con una propria identità; tuttavia, come tutti i riferimenti cartografici, anche quest'espressione possiede limitazioni che si manifestano quando desideriamo descrivere il carattere di un'area vasta e variegata, e ancor più quando vogliano dettagliare fenomeni sociali. È importante riconoscere che il termine comprende 7 Paesi: Kuwait, Arabia Saudita, Yemen, Oman, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Qatar. Anche se naturalmente essi hanno in comune alcune linee generali - a causa del clima e della religione (e al riguardo dobbiamo ricordare che l'islam non esercita un influsso monocromo e uniforme, perché in questa religione ci sono differenti accenti ed espressioni) -, le storie estremamente diverse di questi Paesi hanno lasciato evidenti tracce nelle loro società; come nazioni distinte e sovrane, nel senso moderno del termine, esse non esistono poi che da un centinaio d'anni, e nel caso di alcune da meno di 40.

Si tratta quindi soltanto di un modo generale e molto frettoloso di esprimersi e si potrebbe dire che il termine Golfo implica tanta varietà tra le sue società quanta ne manifestano il termine Europa o Sud America. Per quanto riguarda gli immigrati, i Paesi del Golfo sono, a quanto sembra, tra i più vari al mondo. Può darsi che in termini di cittadini stranieri essi non siano molto più diversificati nella loro popolazione di quanto lo siano altri Paesi verso cui si dirigono le persone in cerca di una vita migliore, ma è importante ricordare che qui gli immigrati possono costituire la maggioranza della popolazione totale di un Paese. Gli Stati del Golfo possono perciò «sentirsi» più internazionali. Anche se è certamente vero che esistono quelli che si possono chiamare «ghetti», in molti Paesi occidentali, essi sono nondimeno innestati in una società locale, il cui scopo è, alla fine, di assorbirli in modo organico. Ciò con la consapevolezza, e talora con la ben accetta consapevolezza, che la società ospite sarà in qualche modo mutata, ma sempre con il presupposto - forse infondato? - che la cultura locale prevarrà.

La domanda centrale è che cosa significhi il termine «immigrato». Nella maggior parte dei Paesi del mondo questa parola denota una persona che proviene da un altro Stato, non solo per assumere una seconda residenza, ma per stabilirvisi e adottare la cittadinanza di questa nazione. Nei Paesi del Golfo questo di solito non è possibile. In primo luogo le popolazioni locali sarebbero certamente spazzate via. L'immigrazione agirebbe come un'onda di marea, perché se la popolazione locale in alcuni Paesi rappresenta attualmente meno del 20% del totale, con l'ulteriore stimolo di una possibile cittadinanza l'invasione diverrebbe inarrestabile. Se qualche volta vogliamo criticare i governi del Golfo per le politiche d'immigrazione restrittive e persino draconiane che adottano, dovremmo fermarci e pensare quale sarebbe l'atteggiamento di alcuni Paesi europei se i propri cittadini fossero superati in un rapporto di 5 a 1, o anche più, da parte della popolazione immigrata. Un secondo importante fattore è la religione. Anche se alcuni non musulmani hanno ottenuto il passaporto del Paese che li ospita, si tratta di eccezioni. È difficile immaginare che grandi gruppi di non musulmani possano ricevere questo privilegio in Paesi in cui anche il culto cristiano o non è permesso o è tollerato, ma con severe restrizioni. L'islam, come il cristianesimo, è una religione attivamente missionaria e perciò è possibile cambiare. Ma solo in una direzione! In altre parole, i non musulmani possono diventare musulmani e questo presumibilmente gioverebbe alla loro assimilazione. La religione è così potente, tuttavia, che anche se è possibile cambiare fede, la strada è percorribile solo per i non musulmani. I musulmani non possono. Certamente in alcune società, ad esempio in Arabia Saudita, esistono grandi pregiudizi (razziali e religiosi), ma essi sono di gran lunga minori in altre, come a Dubai. Tuttavia le cose non sono uniformi in nessuna società del Golfo: le autorità e le persone che hanno studiato sono piuttosto tolleranti, presumibilmente anche in Arabia Saudita, se uno bada bene a cosa si intende per tollerante (cioè, a patto di non introdurre nulla che minaccerebbe la compattezza religiosa e culturale della società), ma la massa della popolazione lo è in misura minore. Perciò pregiudizi e razzismo sono diffusi, anche se talvolta solo allo stadio latente.

I cristiani e gli altri non musulmani sono tollerati in posti importanti e anche potenti se sanno farsi rispettare per le abilità personali e professionali. Domina un approccio pragmatico. Più basso è il gradino nella scala sociale, più pesantemente si possono esercitare i pregiudizi, perché persone di questo tipo sono più facilmente rimpiazzabili. Nella costante ricerca di manodopera a basso costo, i nepalesi sono apprezzati per il loro costo ridotto. Naturalmente possono essere assunti e licenziati a piacere. Un ulteriore bacino per conseguire profitti senza badare ai principi sarà senza dubbio fornito dal crescente numero di cinesi. Nel complesso gli occidentali sono apprezzati per la loro abilità professionale e onestà (se possiedono queste qualità) e molti sono impiegati in posti ben retribuiti. Ma occorre ricordare che essi non possono essere scambiati per membri permanenti della società, e possono essere ugualmente, anche se non così facilmente, allontanati se diventano inutili. Non c'è comunque dubbio che ognuno, in qualsiasi parte del mondo, si sente più a suo agio a lavorare con persone della sua stessa cultura. E la cultura, a prescindere da quello che agli europei piace pensare, è in larga misura fondata sulla religione. Nel bene e nel male la nostra memoria comunitaria, la nostra identità e i nostri punti di riferimento sono il prodotto delle tradizioni che derivano dalla nostra storia religiosa.

 

* da Avvenire, 15 novembre 2007, p. 29.

*******

 

IMMIGRÉS TRAVAILLEURS DE PÈRE EN FILS*

(documentaire)

 

Catherine Bedarida

La Cité de l'immigration, premier musée français dédié à l'histoire des populations migrantes, ouvre à Paris le 10 octobre. France 5 programme cinq films documentaires à cette occasion, dont deux cette semaine. Immigrés travailleurs de père en fils, de François Rabaté, retrace l'histoire des étrangers arrivés en France depuis la fin du XIXe siècle. Il s'organise autour de Bahija la Marocaine, militante de la cause des sans-papiers, qui introduit le film et revient entre chaque partie. Le réalisateur déroule les portraits par ordre chronologique d'arrivée des groupes en France.

Vers les années 1890, des Italiens arrivent notamment dans la région marseillaise, où le port recrute large­ment. «Ils étaient considérés comme les Arabes aujourd'hui. On disait qu'ils ne pouvaient pas s'intégrer», explique la chanteuse Francesca Solleville, peti­te-fine d'un syndicaliste italien immigré à Marseille. Polonais dans les mines du Nord, Espagnols dans les vignes du Languedoc, Portugais dans les loges de concierge parisiennes, Algériens dans l'industrie automobi­le: les besoins en main-dÂ’Âœuvre sont tels que l'emploi est le principal vecteur d'intégration. Au point, affirme François Rabaté, que lÂ’expression « travailleur immigré » sonne comme un pléonasme. Son documentaire intègre photos et films anciens. Les courts-métrages d'actualité sur les dockers de Marseille, saisis en plein labeur au pied de cargos gigantesques, ou les extraits du splendide film O Salto (Christian de Chalonge, 1968), consacré aux émigrants portugais, apportent un bel éclairage.

Aujourd'hui, il reste beaucoup dÂ’emplois pour les immigrés, prêts à accepter ce dont personne ne veut. Mais les restrictions actuelles les vouent à la clandestinité. « Être sans papiers signifie : être à la merci d'un contrôle, habiter un taudis, se faire surexploiter», résume Bahija.

A lÂ’opposé dans l'échelle sociale, certains enfants d'immigrés atteignent des positions élevées. Fils et Filles de..., de Jean-Thomas Ceccaldi (diffuse mardi 9 octobre à 20 h 40) suit Nadia, auditeur financier, Abde­rahmane, chargé d'investissement pour la Banque mondiale, et Mourad, directeur d'une maison dÂ’édition et président du Rugby club toulonnais. Les deux films se complètent. Le premier décrit l'histoire collective et syndicale. Le deuxième pénètre dans lÂ’intimité familiale, saisissant des dialogues émouvants entre parents immigrés et enfants intégrés.

 

* Le monde, dimanche 7 – Lundi 8 octobre 2007, p. 7.

*******

 

«DARFUR NOW»

UN FILM CORAGGIOSO PER NON DIMENTICARE* 

 

Valentina COSIMATI

«La crisi in Darfur non può continuare, Harun deve essere fermato. Non è accettabile che la stessa persona responsabile delle uccisioni, degli stupri e delle persecuzioni sia al potere. Dal primo momento in cui ab­biamo ricevuto la segnalazione ufficiale da parte del Consiglio di Sicurezza dellÂ’Onu sapevamo che quello del Darfur era il più importante e il più grave caso su cui stiamo inda­gando. Non possiamo fallire e la Cor­te Penale Internazionale sta facendo tutti gli sforzi possibili. Le vittime hanno delle aspettative nei nostri confronti che non vogliamo e non possiamo deludere. Stiamo lavoran­do moltissimo per garantire che ci sia giustizia per loro e per fermare quel meccanismo che si innesca quando una burocrazia diventa criminale».

Con queste parole il Procuratore Ca­po della CPI ci ha introdotto Darfur Now!, documentario sulla crisi in Sudan con la regia di Ted Braun e un “cast” dÂ’eccezione, presentato alla 32.ma edizione del Toronto Film Fe­stival, che si concluderà il 15 set­tembre. II documentario racconta la storia di sei personaggi uniti da un o­biettivo comune, fermare la crisi in Darfur. Luis Moreno Ocampo è rappresentato come un cavaliere senza macchia e senza paura invocato an­che nelle canzoni della resistenza su­danese come colui che garantirà giu­stizia e riporterà la pace; Adam Ster­ling, direttore della Sudan Divestment Task Force, è il cittadino onesto e di sani principi che crede nella causa e si batte per un'azione concreta dalle strade di Los Angeles senza soldi ma con molta determinazione; Pablo Recalde, vice-direttore del WFP nel Darfur Occidentale, ogni giorno deve garantire gli aiuti umanitari a circa 700.000 persone; Ahmed Mohammed Abakar è il capo della popolazione di Hamadea che cerca di mantenere un equilibrio negli animi dei profughi; Hejewa Adam, la ribelle che si è unita alla resistenza contro il regime e spiega che ormai le donne devono fare tutto perché gli uomini sono stati uccisi; Don Chead­le, lo straordinario protagonista di Hotel Rwanda, è la star che si lascia coinvolgere, un uomo come tanti, che agisce e riesce a convincere per­sonaggi del calibro di George Cloo­ney, Arnold Shwarzenegger e Hillary Clinton.

Vedere il Procuratore Capo della Cor­te Penale Internazionale al festival di Toronto, considerato un po' il Banco di prova per il mercato statunitense, fa un certo effetto, non si può fare a meno di pensare alle migliaia di per­sone silenziose che quotidianamen­te lavorano per la costruzione della pace nei luoghi della sofferenza. «Non c'entro niente con il film - ci ha detto Moreno-Ocampo - l'idea non è mia ma sono contento di essere qui. Il Darfur chiede aiuto e non pos­so rimanere sordo a queste richie­ste. Da giovane ho combattuto con­tro la Junta nelle aule di tribunale e oggi non voglio che si ripeta quello che è accaduto nel mio paese. I re­sponsabili della trasformazione di uno stato in una burocrazia criminale devono essere giudicati in tribu­nale. Le vittime chiedono giustizia».


 

* da Avvenire, 11 Settembre 2007, p. 27.

*******

 

TORCIA GUADALUPANA* 

 

Città del Messico. Domenica prossima, 7 ottobre, festa di Nostra Signora del Rosario, dal Santuario della Basilica di Guadalupe partirà alle ore 6 della mattina, la Torcia Guadalupana 2007, per dirirgersi verso New York, dove arriverà il prossimo 12 dicembre, festa della Vergine di Guadalupe. La presenza di oltre 25 milioni di messicani e dei loro discendenti negli Stati Uniti fa sì che il 12 dicembre sia una data sempre più importante anche in questo paese.
La marcia della Torcia Guadalupana è una tradizione religiosa molto radicata tra gli immigrati messicani, soprattutto giovani. Attualmente migliaia di corridori partecipano a questa corsa, con grande sforzo e coraggio, da Città del Messico fino a New York: si tratta di un vero pellegrinaggio, una marcia per la dignità dei popoli che si sentono emarginati.
La corsa ha un messaggio eminentemente religioso, perché rappresenta l'importanza della Vergine di Guadalupe per gli emigrati latinoamericani, specialmente messicani: come la luce di una torcia, la Vergine continua ad illuminare e sostenere la vita quotidiana nella loro difficile condizione di emigrati. È stata quella fede che ha dato loro la forza di attraversare le frontiere e vincere tutte le difficoltà che gli si sono presentate come immigrati. "La corsa è dunque - spiegano gli organizzatori - una dimostrazione di gratitudine alla Vergine per la sua presenza affettuosa nel nostro percorso di emigrazione ed immigrazione. In ogni corsa rinnoviamo la nostra devozione verso di Lei, la nostra Regina e Madre, e ci trasformiamo in messaggeri che cercano di rafforzare le nostre Chiese con lÂ’aiuto di immigrati di tutte le nazionalità". Inoltre ogni corridore si trasforma in messaggero dell'unità tra le famiglie che si sentono divise dalle frontiere. Ogni corsa rinforza il desiderio di mantenersi saldi durante il tragitto, nonostante le difficoltà che si presentano.

La corsa della Torcia Guadalupana è possibile grazie all'appoggio di numerose organizzazioni non governative, gruppi di immigrati, dipartimenti della polizia locali, statali e federali, oltre a numerose istituzioni ecclesiali, parrocchie e diocesi.

 

* Domenica 7 ottobre parte dalla Basilica di Guadalupe la “Torcia Guadalupana”, per portare un messaggio di speranza e di amore a tutti gli emigrati lontani dalla patria e dalla famiglia; Agenzia Fides, 5 ottobre 2007.

*******

 

PICCOLI SANTUARI, UNA SCOPERTA CHE INCANTA*

 

Il Direttore risponde: 

Caro Direttore,

mi sento di segnalarle che sì i grandi santuari attirano folle, ma anche i piccoli santuari svolgono un ruolo importante. È da quattro anni che mi trovo in un piccolo santuario - situato vicino a San Gimignano (Siena), località Pancole, lungo la Via Francigena - dedicato a Maria Santissima "Madre della Divina Provvidenza" e le devo dire che i pellegrini con i quali ho parlato hanno tutti manifestato la loro felicità per essersi trovati qui in questo posto così bello, raccolto, di grande respiro spirituale e si sono meravigliati che sia così poco conosciuto. Sono convinto che farete cosa gradita a tantissime persone se riserverete su Avvenire un breve spazio dove segnalare la presenza e lÂ’ubicazione dei piccoli santuari presenti nella nostra bellissima e amata Italia.

Padre Eugenio Biscontin, icms 

Raccolgo molto volentieri il suo invito, caro padre Biscontin: nel nostro Paese ci sono santuari verso cui convergono annualmente milioni di pellegrini, basti pensare a Loreto, Padova, Pompei, ma lÂ’intera Italia è costellata di migliaia di edifici sacri, innalzati quasi sempre in onore di Maria, verso i quali continua a convergere lÂ’affetto e la devozione delle popolazioni circostanti, quasi al riparo dalle ferite inferte dal secolarismo alla pratica religiosa. Senza pretese enciclopediche, cercheremo di rilanciare le vostre segnalazioni. I santuari rappresentano spesso una felice scoperta per quanti li incrociano lungo i loro tragitti turistici e visitandoli finiscono catturati dallÂ’atmosfera spirituale che in essi si respira. Un clima impreziosito dalla cura con cui sono mantenuti, dai fiori che li adornano, oltre che dai capolavori d'arte che spesso racchiudono. Edifici sorti quasi sempre lontano dai centri importanti, luoghi privilegiati in cui Dio si è accostato ai poveri e agli umili alimentandone la fede. Indissolubilmente legati ai pellegrinaggi, possono con questi rappresentare tappe provvidenziali nel cammino della fede. Chi vi approda sente spesso dilatarsi il cuore sviluppando la confidenza necessaria per aprire il fardello delle proprie pene, svelare lÂ’anelito alla misericordia, rianimare la fiammella stentata della fede. Sono convinto che anche a lei non mancherebbero episodi significativi, edificanti perché veri, da raccontare: è questa la preziosità di tali luoghi che merita sottolineare. Lo stesso Benedetto XVI, dall'alto della sua straordinaria statura intellettuale, non ha temuto di mostrare la sua predilezione tutta particolare per questi luoghi di culto: per quanto riguarda il nostro Paese, ricordiamo tutti le sue visite al Divino Amore e al santuario di Manoppello. Senza dimenticare che proprio in queste ore il Santo Padre sarà nella Santa Casa di Loreto, in occasione del suo incontro con i giovani dell'Agorà.

 

* da Avvenire, 2 settembre 2007, p. 33.

*******

 

LE PARROCCHIE NON BASTANO PIÙ: PRETI IN STRADA*

 

Evangelizzazione fai da te? In Italia funziona, a condizione di sentirsi uno di quelli che proprio non ce la fa a non dir­si cristiano e tanto meno cat­tolico. Come a Crevalcore, pa­esino nella campagna bolognese dove, con il passare de­gli anni e il decremento demografico, prima il provveditora­to chiude la scuola, poi la dio­cesi ritira anche il parroco. E allora i cittadini credenti si ri­prendono sia la scuola sia la parrocchia.

Nella loro qualità di genito­ri dei 25 bambini residenti nel territorio, si costituiscono in cooperativa. Con i banchi di chiesa e i programmi di Don Milani aprono la «Scuola pa­terna della pace». Coordinati da Roberto Rossini, padre di un alunno e pediatra all'Ospe­dale Sant'Orsola, e da Vincen­zo Balzani, genitore e docente di nanotecnologie allÂ’universi­tà di Bologna, gli insegnanti e i catechisti, papà e mamme degli altri alunni, autogesti­scono sia la didattica sia la ca­techesi. In entrambi i campi decidono i programmi, e l'ar­cidiocesi flaminia, con molta bonomia, incoraggia ed invita a guardare avanti. 

Basiliche e capannoni

Si chiamano «unità pastorali» le nuove realtà che sem­pre meno timidamente appa­iono sull'orizzonte ecclesiale italiano. Basiliche, parroc­chie, chiese e santuari vengo­no affiancati da nuove forme di comunità spontanee che ri­definiscono in profondità i ruoli tradizionali dell'azione pastorale. Quando era vesco­vo di Ferrara Monsignor Carlo Caffarra, lÂ’attuale arci­vescovo di Bologna, si diceva che grazie ai suoi studi aveva consegnato alla teologia cat­tolica una nuova categoria ec­clesiologica: la «ferocia pasto­rale». Anche nella sua nuova sede, tra coloro che hanno ca­sa e ufficio nel centro storico, lÂ’acida opinione, di sicura matrice clericale, circola ancora ogni volta che Sua Eminenza punta il dito durante una delle sue famose omelie. Ma tra i meno, molto meno snob che nella periferia Nord della cit­tà, sotto un ponte, si sono in­ventati una parrocchia di cartone, la battuta ferrarese non fa ridere nessuno.

A ridosso di un capannone industriale dismesso, extraco­munitari, clochard e clandesti­ni hanno approntato con mate­riali di risulta una piccola cap­pella in cui ferve la vita religiosa, tra celebrazioni di messe sempre gremite, ore di adorazione eucaristica e recite di rosari. Il Cardinale conosce personalmente questo vivacissimo focolare di religiosità improvvisata, e anche a questa «parroc­chia invisibile» assicura la sua cura pastorale. In natura, dice­va Descartes, «non può esserci nessun vuoto nel senso in cui i filosofi prendono questa parola». Forzando appena un poÂ’ lÂ’analogia, sembra che nessun vuoto sia possibile nelle strutture ecclesiali «nel senso in cui i teologi prendono queste parole».

Succede sempre a Bologna nella parrocchia di Sant'Antonio da Padova alla Dozza, nel periferico quartiere Navile. Qui, in una zona di confine, nella terra di nessuno tra la Casa Circondariale di via del Gomito e i crocicchi di extracomunitari, un gruppo di persone esce dal carcere e si presenta in parrocchia per completare un percorso di fede iniziato dietro le sbarre e che presto sfocerà nel battesimo. Sono musulmani che si avviano in gran segreto alla conversione al cristianesimo. Il loro cammino spi­rituale, spesso, ha avuto inizio nella notte della massima disperazione e si è nutrito in improvvisati «santuari» fatti di piccole immagini sacre incollate ai muri delle celle e del catechismo elementare dei loro compagni di pena.

Tra loro, Kamal, clandestino musulmano in semilibertà che non fa alcuna fatica a dirci che dell'espulsione non gli importa molto perché, ciò che gli interessa è lÂ’incontro con Cristo. Sta finen­do di scontare la pena, ma sa che il suo destino è segnato: è clandestino e sarà espulso tra pochi mesi. Ogni volta che esce dal carcere per andare a lavorare, passa in parrocchia per leggere il Vangelo. Qui viene accol­to da Susanna, una giovane donna Calabrese che ha seguito a Bologna il suo compagno con­dannato a vent'anni di carcere. Anche lei tornata alla fede in modo autogestito, seguendo percorsi tracciati da messe ascoltate per caso, davanti ad altari di fortuna. A Roma, un'al­tra «parrocchia che non c'è» ha quarant'anni, è composta da camper e da baracche, ha dodi­cimila anime, è seguita da un prete che veste e vive come uno zingaro. Nella diocesi del Papa, Rom e Sinti costituiscono la più grande comunità nomade in Ita­lia. Dal 1964, bosniaci, serbi, macedoni, rumeni sono accom­pagnati pastoralmente dal Sa­cerdote bolzanino don Bruno Nicolini, da quando Paolo VI gli disse: «Negli zingari troverai i valori evangelici, non andare ad evangelizzare, ma fatti evan­gelizzare da loro. Il nomadismo è lÂ’essenza della vita cristiana, intesa come un lungo viaggio verso Dio».

Don Bruno ama citare lÂ’esempio di Giovanni Paolo II, che ad Auschwitz, fuori pro­gramma, andò a pregare sui luoghi in cui furono sterminati gli zingari e nel 1997 beatificò il gitano Ceferino Gimenez Malla. «Credo che la carità sia quel­la di intravedere il Vangelo del Signore negli zingari e di lasciarsi guidare da lui», spiega.

«Chi può essere più degli zinga­ri lÂ’immagine di Cristo, se Gesù è per antonomasia il rifugiato, il reietto, il disperato? Vivendo con loro, conoscendoli, si sco­pre che la carità è un aspetto fondamentale nella loro vita co­munitaria. Per cultura amano il prossimo, soprattutto quando è debole anche se non è zingaro».

Una mistica della solidarie­tà: «Si avvicinano a chi è solo, a chi ha bisogno, a chi è malato, invitano i barboni a mangiare alle loro tavole. Li sento far fe­sta al “figliol prodigo” uscito dal carcere, perché tutto il Campo era stato carcerato con lui, li vedo nei cimiteri a prega­re e mettere fiori sulle tombe abbandonate, quelle che nessu­no visita più...».

Professor Diotallevi, da dove na­sce la Chiesa «fai da te»? «È una particolarità del cat­tolicesimo italiano, basata sul­la diversificazione interna del prodotto. Ma il fiorire sponta­neo di iniziative autogestite non diventa anarchia o super-market della fede finché re­sta in contatto con lÂ’asse portante (vescovo-parroco-Azione cattolica). In Italia la Chie­sa ha un'azienda multiprodot­to, con diverse branche in competizione tra loro. La struttura centrale asseconda il processo di diversificazione dell'offerta religiosa». 

Accade solo in Italia?

«Sì. L'evangelizzazione “fai da te” è una risposta alla so­cietà multiculturale che chie­de cose sempre diverse. Il boom di iniziative a margine delle parrocchie e della Chie­sa ufficiale è utile proprio a costruire relazioni. E ciò si af­fianca alla fine del mercato re­ligioso italiano come mercato protetto e all'ingresso di nuo­vi concorrenti su questo mer­cato». 

Non è una contraddizione in una società secolarizzata?

«No, anzi è un fenomeno che sfrutta la domanda di senso che la secolarizzazione non nega ma esalta in una forma individualizzata. Ne esce valo­rizzata la capacità di stare dentro la società secolarizza­ta cogliendo la forte indivi­dualità del consumatore reli­gioso. Per raggiungerlo e accompagnarlo attraverso of­ferte “su misura”. Fino a poco tempo fa la parrocchia era il perno della strategia di mo­dernizzazione religiosa. Adesso nel mercato religioso, la parrocchia ha ancora oggi una notevole incidenza nel pa­norama ecclesiale, ma non è più lÂ’unico, esclusivo punto d'incontro tra domanda e offerta».

G. Galeazzi 

 

* da La Stampa, 23 novembre 2007, p. 18.

*******

 

UNA VITA PER GLI EMARGINATI*

Don Benzi, quando il Vangelo è la strada

 

 

Di lui si sa tutto. È apparso molte volte in tv e dalla tv ha lanciato molte provocazioni. Così, il 2 novembre, quando si è saputa la notizia della sua improvvisa scomparsa, a 82 anni, da più parti sono arrivati attestati di affetto da parte di persone comuni e istituzioni. Don Oreste Benzi nasce il 7 settembre 1925 a San Clemente, un paesino nellÂ’entroterra collinare romagnolo a 20 km da Rimini, da una famiglia di operai, settimo di nove figli. A 12 anni entra in seminario a Rimini e viene ordinato sacerdote il 29 giugno 1949. Nel Â’68 dà vita allÂ’associazione “Papa Giovanni XXIII” e guida lÂ’apertura della prima Casa Famiglia a Coriano il 3 luglio 1972. Oggi lÂ’associazione conta tra lÂ’altro 200 case-famiglia e oltre 30 comunità terapeutiche per il recupero dei tossicodipendenti e per ridare dignità e libertà alle prostitute. Bisogna «cercare di sfuggire alla tentazione di una lettura “buonista” della vita di don Oreste» e «imboccare la strada di una interpretazione profetica della sua vita e del suo messaggio». Lo ha chiesto il vescovo di Rimini, mons. Francesco Lambiasi, già assistente generale di Ac, nellÂ’omelia pronunciata ai funerali di don Benzi. Il vescovo ha quindi rilanciato alcune delle denunce più forti che don Benzi aveva pronunciato anche nei confronti della comunità politica. Il 19 ottobre scorso a Pisa si era espresso così: «LÂ’interesse di partito, lÂ’interesse del potere, lÂ’interesse delle stanze dei bottoni e tutto ciò che è collegato ad esso, è diventato la coscienza pratica e attuativa, e così si ha il tradimento della rivoluzione cristiana, come di Benedetto XVI, della rivoluzione di DioÂ… Oggi 100 mila donne sono tenute sotto sfruttamento in Italia. Vergogna! Perché viene mantenuto un massacro, un orrore simile? Non si vuole perdere il voto di milioni di clienti».

Il vescovo ha ripreso «tutta la straordinaria, infaticabile opera» del sacerdote dalla “tonaca lisa”, «i suoi oltre 15 anni come padre spirituale in seminario, gli anni dedicati allÂ’insegnamento della religione e allÂ’assistenza dei giovanissimi di Azione cattolica, i lunghissimi anni come parroco e soprattutto come fondatore e animatore della comunità Papa Giovanni». Ha poi ricordato il suo impegno  «a favore della vita non ancora nata, dellÂ’umanità emarginata, umiliata e calpestata, a favore della pace e del rispetto dei diritti umani, a cominciare da quello della libertà religiosa». «Tutto – ha detto mons. Lambiasi – ha avuto come unico fine e scopo: fare di Cristo il cuore del mondo, e per questo farne il centro del nostro cuore».


* da Segno, dicembre 2007.

*******

 

AVEZZANO, MEZZANOTTE IN STAZIONE* 

 

Elisabetta Marraccine

Messa nella notte di Natale celebrata in stazione ad Avezzano. LÂ’altare sarà allestito vicino alla serranda chiusa della biglietteria, lo sfondo saranno i muri sporchi e le tabelle con gli orari delle partenze dei treni. Non ci saranno addobbi sfarzosi, fiori, incensi e signori vestiti di tutto punto. Gli ospiti privilegiati saranno proprio quelli che di quel luogo sono costretti a fare lÂ’unica alternativa di vita possibile: i senza fissa dimora. La Messa di mezzanotte del 24 dicembre sarà celebrata nellÂ’atrio biglietteria della stazione ferroviaria di Avezzano dal vescovo Pietro Santoro. Questa scelta è nata da unÂ’intuizione del vescovo che, insieme al direttore della Caritas diocesana don Ennio Tarola, ha voluto riproporre il messaggio della nascita di Cristo in mezzo agli ultimi. Così dunque la capanna di Betlemme, dimora improvvisata di allora, oggi diventa la stazione ferroviaria della notte di Natale. Monsignor Santoro sottolinea il valore della testimonianza nellÂ’essere insieme ai più poveri come i discepoli di Cristo, in un luogo come la stazione che per i più è un luogo di transito, ma è di soggiorno invece per chi non ha dove andare. Simbolicamente rappresenta tutti i luoghi più disagiati della nostra società, che troppo spesso vengono dimenticati. Le condizioni di vita dei senzatetto, degli immigrati, dei clandestini, dei tossicodipendenti che vivono al di sotto del limite della decenza, nella Marsica si fanno sempre più preoccupanti. Dai dati della diocesi emerge che sono 6000 gli immigrati che hanno chiesto aiuto alla Caritas, che offre sostegno con il servizio accoglienza, il centro d'ascolto, la mensa, gli alloggi. Le persone che chiedono aiuto per la maggior parte sono immigrati dai  paesi del Nord Africa, ex-Jugoslavia, Albania, Europa dell'Est; ma anche residenti in Avezzano e in altri paesi della Marsica. La mensa prepara circa 13 mila pasti lÂ’anno, e garantisce il servizio docce e la distribuzione degli indumenti. Tutto ciò è possibile sono grazie alla buona volontà di 200 volontari che ogni giorno si alternano nei vari servizi.

 

* da Avvenire, 23 Dicembre 2007, p. 13.

*******

 

« RALLUMEZ LE FEU » 

Guy GILBERT

 

Encore un livre... 

Oui, encore un livre, intitulé Rallumez le feu. Il contient la compilation de mes émissions sur Radio Notre-Dame.

La demande est forte pour que je mette sur papier ce que je médite sur cette radio chrétienne de Paris, les mercredis soir. Les thèmes sont multiples, aussi bien spirituels qu'éducatifs.

J'ai donc dégagé quelques chapitres que je t'offre en priorité, à toi lecteur fidèle de cette lettre.

Ce livre est la suite de LÂ’Évangile selon saint Loubard et de LÂ’Évangile, une parole invincible, déjà parus.

Johnny Hallyday a une chanson célèbre : « Allumez le feu ». Chantée a plein cÂœur dans les stades, elle est devenue un hymne qui dynamise les supporters des ballons ronds ou ovales.

Puissent ces pages dynamiser ta foi et tÂ’apporter le feu pour la vivre en actes. Il n'y a rien de plus fort que la « convergence de ta foi et de tes actes » pour rendre témoignages a la lumière divine.

Que mes mots tÂ’aident à devenir un « athlète de Dieu », cÂ’est mon seul désir.

Bonne lecture.

*******

 

 Â“LÂ’amore dallÂ’alba al tramonto”*

 

Non è esattamente un libro, ma un volume che raccoglie testi vari destinati a persone anziane e sole, e malate principalmente, coinvolgendole in una lettura riflessiva e orante. È una raccolta con chiare intenzioni cristiane ed, ovviamente, evangeliche al punto di chiudere le ultimissime pagine con alcuni capitoli tratti dal Vangelo secondo Luca.

Il volume è suddiviso in tre parti. Si apre con “Semi di saggezza” (parte I); si inoltra con “I Santi della terra salentina” (parte II); e conclude con diversi contributi di preghiera, infatti “Preghiere, lÂ’Eucarestia Â… Il Santo Rosario, (la) Via Crucis Â… Proposte per i giovani” (parte III). 

La prima è certamente quella più interessante e piacevole da leggere, additando, appunto, ‘semi di saggezzaÂ’. Essa racconta situazioni, o, forse, è meglio dire, particolari di vita, nel senso che si narra anche di farfalle, di grappoli dÂ’uva, di cavallette e di ostriche.

Sono rappresentazioni che indicano particolari della vita da imparare e maturare come esseri umani. E così si scopre nella meditazione che sono cose educative legate alla vita quotidiana di tanti mortali.

Allora, ciascuno di noi si sente coinvolto nella lettura che nello scorrere delle pagine diventa appassionante. A buon dire nellÂ’introduzione si parla di viaggio; e a questo Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti piace questa parola.

È, insomma, una raccolta-libro alla quale inizialmente non ci fai caso. Ha una copertina diversa e strana, sfugge il senso, poi essa tÂ’invita a darle maggiore attenzione.

Agli occhi del lettore si apre un quadro interpretativo straordinario. È la terra di Puglia, la parte più a Sud nel Salento, con il suo territorio discontinuo, dove si ergono alberi secolari e sghembi di olivo.

Sono gli olivi pugliesi che producono quel buon olio. Ma qui importano per la loro simbologia. Corredano il volume e indicano il suo significato centrale: “L’Amore dall’alba al tramonto: ti sostiene, ti custodisce, ti rispetta e ti abbraccia”(titolo completo), a cura di Fr. Angelo De Padova, ofm, della Provincia dei Frati Minori del Salento.

Operette letterarie, come questa recensita, possono essere di buono stimolo alla lettura principalmente nel Sud e nella mia amata Terra pugliese. Buona lettura a tutti e particolarmente ai pugliesi, quindi.

(L. M.).


 

*A cura di Frate Angelo De Padova, ofm, Stampa TorGraf Galatina (Le), Metal.Ma,

Galatina, 2007,  5-351.

 

 

top