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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 103, April 2007

 

 

Fondamenti biblici degli

Orientamenti per una pastorale degli Zingari

 

 

Cardinale Albert Vanhoye, S.I.

Pontificio Istituto Biblico

Italia

 

Gli Orientamenti per una pastorale degli Zingari affermano esplicitamente che "la strada dell'evangelizzazione" degli Zingari "non può... che partire dalla riflessione biblica, alla luce della quale trova una sua cristiana intelligenza anche il loro mondo" (Or. Zing. n. 21). Gli Orientamenti precisano poi che "occorre perciò, a questo punto, fare una lettura attenta della Sacra Scrittura, affinché ci conduca anche ad un retto inserimento della pastorale degli Zingari nel contesto della missione della Chiesa (Or. Zing. n. 21). Questa precisazione fa intendere da una parte che l'evangelizzazione degli Zingari entra nella missione universale della Chiesa e, d'altra parte, che questa evangelizzazione va fatta in un modo specifico. Questi saranno i due punti esposti in questa breve relazione. 

I 

La Chiesa ha il dovere di estendere la sua sollecitudine all'evangelizzazione degli Zingari, perché essa ha ricevuto dal suo fondatore e Signore una missione che abbraccia tutte le popolazioni. Il Nuovo Testamento è molto chiaro ed insistente in proposito e questa è una grande novità nei confronti dell'Antico Testamento. Mi pare opportuno precisare qui e mettere in rilievo questa novità, perché è fondamentale per l'atteggiamento della Chiesa verso gli Zingari e ne dobbiamo quindi avere una chiara coscienza.

L'Antico Testamento esprime in parecchi testi prospettive universali, che preparano il Nuovo Testamento, ma non accenna mai a una missione apostolica universale.

Nella vocazione di Abramo constatiamo subito che il suo particolarismo non esclude, ma al contrario include una prospettiva universale. Il Signore, infatti, dopo aver promesso ad Abramo di fare di lui un grande popolo, di benedirlo e di rendere grande il suo nome, aggiunge: "diventerai una benedizione, [...] in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra" (Gn 12,2-3). Non è possibile esprimere una prospettiva più universale. Il patriarca, però, non viene inviato a "tutte le famiglie della terra". Non gli viene affidata una missione propriamente detta. Dopo il generoso sacrificio di Abramo, la promessa divina viene confermata e precisata: sarà la discendenza di Abramo a portare la benedizione a "tutte le nazioni della terra" (Gn 22,18), ma di nuovo non si accenna a una missione. Stessa constatazione quando la promessa viene trasmessa ad Isacco (Gn 26,4) e poi a Giacobbe (Gn 28,14). Non si parla mai di missione, né di sollecitudine per "tutte le famiglie della terra".

In seguito, il particolarismo d'Israele si è affermato vigorosamente, sino al punto di escludere talvolta l'universalismo. Israele aveva viva coscienza di essere la segulla, "la proprietà personale" di Dio (Es 19,5), "il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra" (Dt 7,6; 14,2), "un popolo particolare" (Dt 26,18). Il salmo 147 dichiara che Dio "annunzia a Giacobbe la sua parola, le sue leggi e i suoi decreti a Israele" e che "così non ha fatto con nessun altro popolo, non ha manifestato ad altri i suoi precetti" (Sal 147,19-20). Il libro di Baruc riprende questa prospettiva, dicendo: "Beati noi, o Israele, perché ciò che piace a Dio ci è stato rivelato", e lungi dall'accennare a una missione universale, precisa: "Non dare ad altri la tua gloria, né i tuoi privilegi a gente straniera" (Bar 4,3-4).

I grandi profeti sono più aperti all'universalismo. La loro visione, pero, non è quella di una missione che andrebbe nei paesi stranieri per annunciarvi la parola di Dio, ma è, al contrario, quella di una venuta delle genti al tempio di Gerusalemme per ricevere la Legge. Un celebre oracolo d'Isaia, che si ritrova anche in una profezia di Michea, esprime chiaramente questo modo di vedere: "Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà elevato sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri" (Is 2,2-3; Mi 4,1-2). Tra parentesi, è sorprendente che Michea aggiunga alla fine di questo oracolo universalista una espressione di particolarismo, dicendo: "Tutti gli altri popoli camminino pure ognuno nel nome del suo dio, noi cammineremo nel nome del Signore Dio nostro, in eterno, sempre" (Mi 4,5). Questa aggiunta manifesta bene quanto lontano si era allora da una prospettiva di missione.

La visione di Isaia si ritrova in un oracolo del profeta Zaccaria, il quale annunzia che "popoli numerosi e nazioni potenti verranno a Gerusalemme a consultare il Signore degli eserciti e a supplicare il Signore" (Zc 8,22). Si può osservare però che l'orientamento di questi oracoli non è tanto il bene delle nazioni pagane, quanto la glorificazione di Gerusalemme. La cosa è ancora più evidente negli oracoli che predicono gli omaggi che saranno resi dalle nazioni pagane alla città santa e le ricchezze che le saranno offerte dai re dei popoli. Dopo aver detto a Gerusalemme: "Cammineranno i popoli alla tua luce", un altro oracolo di Isaia aggiunge: "le ricchezze del mare si riverseranno su di te, verranno a te i beni dei popoli" (Is 60,5); "tu succhierai il latte dei popoli, succhierai le ricchezze dei re" (Is 60,16). Similmente, il cantico di Tobi rivolge a Gerusalemme queste parole: "come luce splendida brillerai sino ai confini della terra; nazioni numerose verranno a te da lontano; gli abitanti di tutti i confini della terra verranno verso la dimora del santo nome, portando in mano i doni per il re del cielo" (Tb 13,13). In un oracolo del profeta Aggeo Dio stesso annunzia: "Scuoterò tutte le nazioni e affluiranno le ricchezze di tutte le genti e io riempirò questa casa della mia gloria" (Ag 2,8). È chiaro che se ci fossero soltanto testi del genere, la Chiesa non sarebbe spinta a preoccuparsi degli Zingari, tanto meno che le loro ricchezze non sogliono essere sovrabbondanti.

Ma il Nuovo Testamento, come ho gia detto, ha introdotto un radicale cambiamento di prospettiva e ha messo in moto un nuovo dinamismo. Più esattamente, Cristo ha introdotto una grande novità, che ha conseguenze anche per gli Zingari. La novità si manifesta già nella vita pubblica di Gesù e prende poi tutta la sua estensione per mezzo del suo mistero pasquale.

Vediamo nei vangeli che Gesù ha svolto il suo ministero in un modo molto diverso da quello di Giovanni Battista, un modo cioè caratterizzato da continui spostamenti. Giovanni Battista non andava da un luogo ad un altro per chiamare la gente alla conversione, ma rimaneva nel deserto o in riva al Giordano e la gente "accorreva a lui, dice il Vangelo, da Gerusalemme e da tutta la Giudea" per farsi battezzare, confessando i peccati (Mt 3,5-6; Mc 1,4-5). Gesù, invece, andava ad incontrare la gente, "percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, predicando il Vangelo del Regno e curando ogni malattia e infermità" (Mt 9,35). Una volta lo volevano trattenere in un luogo, rifiutò dicendo: "Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto" e andò in tutta la Galilea (Mc 1,38-39). Inoltre, questo dinamismo di missione, Gesù lo comunicò ai suoi discepoli. Prese l'iniziativa, mai vista prima nella Bibbia, d'inviare i Dodici a predicare che il regno dei cieli è vicino e a curare ogni sorta di malattie e d'infermità (cf. Mt 10,7-8).

"I dodici discepoli" (Mt 10,1) sono così diventati "i dodici apostoli" (Mt 10,2; cf. Mc 6,30), cioè "i dodici inviati", giacché il titolo "apostolos" è un derivato del verbo apostellein, che significa "inviare".

Prima della Pasqua di Gesù, la missione degli apostoli non era universale, ma si limitava, dice san Matteo, "alle pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 10,6), come la missione di Gesù stesso, che dichiara alla Cananea: "Non sono stato inviato che alle pecore perdute della casa d'Israele" (Mt 15,24). Ma dopo la Passione e la Risurrezione, la missione è diventata universale. Nel Vangelo secondo Matteo, Gesù risorto invia "gli undici apostoli" ad ammaestrare "tutte le nazioni" (Mt 28,19); nel Vangelo secondo Marco, l'espressione è ancora più universale: "Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura" (Mc 16,15). Nel vangelo secondo Luca, Gesù parla della proclamazione, "nel suo nome, a tutte le nazioni, della conversione e del perdono dei peccati" (Lc 24,47). Negli Atti degli Apostoli, Gesù precisa: "mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra" (At 1,8). Nel Quarto Vangelo, Gesù risorto dice ai discepoli: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi" (Gv 20,21), non precisa allora l'estensione della loro missione, ma un brano precedente del Vangelo dimostra che dopo la morte e la risurrezione, questa estensione è universale, perché, in una occasione in cui "alcuni Greci" avevano manifestato il desiderio di "vedere Gesù", Gesù non aveva accolto la loro richiesta, ma aveva annunziato: "Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me" (Gv 12,32; cf. 12,20-24), il che significava che, dopo l'innalzamento di Gesù sulla croce, la missione si doveva estendere a tutti gli uomini.

Conosciamo bene tutti questi testi, vi siamo abituati; forse non percepiamo più abbastanza il loro aspetto di novità stupenda e di intenso dinamismo, e quindi non accogliamo pienamente questo dinamismo. Gli Orientamenti per una pastorale degli Zingari si sforzano di comunicare questo dinamismo e di applicarlo al caso degli Zingari.

La Lettera agli Efesini ci ricorda che, prima della Pasqua di Cristo, una forte discriminazione separava dal popolo eletto le nazioni pagane, che erano escluse dalla cittadinanza d'Israele, estranee ai patti della promessa, prive di speranza (cf. Ef 2,12). Questa situazione provocava inevitabilmente inimicizia reciproca. Cristo, però, "per mezzo della croce" ha distrutto l'inimicizia (Ef 2,16), ha abbattuto il muro di separazione e ha riconciliato tutti e due con Dio e l'uno con l'altro (Ef 2,14.16), facendo dei due un popolo solo, un solo corpo. Gli Orientamenti citano questo brano della Lettera agli Efesini e dichiarano, a ragione, che "con Cristo [...] scompare ogni tipo di discriminazione" (Or. Zing. n. 29). Effettivamente, se viene abolita la discriminazione più fondamentale, quella che separava Ebrei e pagani, a maggior ragione devono scomparire le altre sorte di discriminazione. Ne era ben consapevole l'apostolo Paolo, il quale proclamava che in Cristo Gesù, "non c'e giudeo né greco; non c'e schiavo né libero; non c'e maschio e femmina" (Gal 3,28), "non c'e barbaro o Sciita" (Col 3,11). Paolo quindi riteneva di essere "in debito verso i Greci e verso i barbari, verso i dotti e verso gli ignoranti" (Rm 1,14); egli scriveva ai Corinzi: "pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti ... mi sono fatto Giudeo con i Giudei ... soggetto della Legge con i soggetti della Legge ... senza legge con i senza legge ... mi sono fatto debole con i deboli ... mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad ogni costo alcuni" (1 Cor 9,19-22).

Gli Orientamenti per una pastorale degli Zingari hanno quindi pienamente ragione quando affermano che "tale pastorale è richiamata e richiesta come esigenza interna della cattolicità della Chiesa e della sua missione" (Or. Zing. n. 29). Si tratta, dicono ancora gli Orientamenti, di "una realtà pastorale indubbiamente inserita nello slancio missionario della Chiesa, alla quale essa, spronata dallo Spirito di Dio, intende imprimere una svolta decisiva, impegnandosi a sostenerla, incoraggiarla, e a dedicarle le risorse materiali, umane e spirituali che sono necessarie" (Or. Zing. n. 2).

II

Saldamente "inserita nello slancio missionario della Chiesa", la pastorale degli Zingari non si può pertanto confondere con la missione in genere, ma deve presentare aspetti specifici, perché l'esistenza degli Zingari presenta precisamente aspetti specifici, che costituiscono una sfida per la pastorale.

Questi aspetti specifici hanno il loro lato negativo, che rende più difficile la pastorale, ma anche il loro lato positivo, che la può rendere più feconda. Lato negativo: perché gli Zingari costituiscono una ‘popolazione in movimento’, non è facile raggiungerli e creare con essi relazioni stabili. Questo rende difficoltosa la loro evangelizzazione e, quando sono stati evangelizzati, la catechesi ai loro bambini e l'aiuto spirituale nelle varie circostanze della vita. D'altra parte, la differenza di mentalità complica anche lo stabilirsi di rapporti. Gli Zingari hanno una visione del mondo radicata "nella civiltà nomade, che in una situazione di sedentarietà si ha difficoltà a comprendere in profondità" (Or. Zing. n. 7). Ne risulta che la pastorale degli Zingari si deve ispirare all'atteggiamento, appena ricordato, di San Paolo. L'apostolo si adattava alla gente che evangelizzava, e si faceva "Giudeo con i Giudei", "senza legge con i senza legge" (1 Cor 9,20-22).

Senza citare questo testo della Prima ai Corinzi, gli Orientamenti parlano esattamente in questo senso, quando dicono: "La specificità della cultura zingara è tale da non rendere a loro consona un'evangelizzazione semplicemente ‘dall'esterno’, facilmente giudicata come un'invadenza. Sulla scia della vera cattolicità, la Chiesa deve diventare, in un certo senso, essa stessa zingara fra gli Zingari, affinché essi possano partecipare pienamente alla vita della Chiesa [...] per cui risulta importante per gli Operatori pastorali specifici immergersi nella loro forma di vita e condividerne la condizione, almeno per un certo tempo." (Or. Zing. n. 38). Questo orientamento ha quindi un fondamento biblico quanto mai saldo.

Il lato positivo che l'esistenza degli Zingari presenta per la loro evangelizzazione e per la loro vita cristiana viene espresso a perfezione dagli Orientamenti nel loro Capitolo secondo, nei paragrafi sull' "Alleanza di Dio e itineranza degli uomini" e su "Vita itinerante e prospettiva cristiana" (Or. Zing. nn. 22-28).

È verissimo infatti che "la figura del pastore e della sua prevalente vita itinerante trova un posto privilegiato nella rivelazione biblica" (Or. Zing. n. 22). È significativo, in particolare, che la storia della salvezza abbia cominciato con un ordine, dato da Dio ad Abramo, di condurre un'esistenza itinerante. Il padre di Abramo, Terach, si era sedentarizzato, stabilendosi nella città di Carran (Gn 11,31) a nordovest della Mesopotamia. Abramo, invece, ricevette l'ordine di rimettersi in moto. "Il Signore disse ad Abram: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò" (Gn 12,1; Or. Zing. n. 22). Ordine di distacco completo, come condizione dell'adempimento di promesse meravigliose. Non si tratta, tuttavia, di una vita itinerante priva di qualsiasi determinazione. Infatti, il Signore annunzia subito che indicherà un certo paese come meta dell'itinerario.

Il seguito del racconto rivela che questo paese è la terra di Canaan. Questo fatto costituisce una differenza con la vita nomade degli Zingari, i quali non sono sottomessi a nessuna determinazione del genere. La differenza, però, è di poca entità, perché Abramo non si sedentarizzò, ma condusse sino alla fine una esistenza itinerante. Lo vediamo "partire, come gli aveva ordinato il Signore" (Gn 12,4) e incamminarsi verso il paese di Canaan (12,5), attraversare il paese fino alla località di Sichem (12,6), di là passare sulle montagne a oriente di Betel e piantare lì la tenda (12,8), poi levare la tenda per accamparsi nel Negheb (12,9). Sopraggiunge una carestia, allora Abramo scende in Egitto (12,10). Una serie di circostanze fa sì che venga espulso dall'Egitto (12,18-20). Non di rado gli Zingari, sotto un pretesto o un altro, vengono espulsi dal luogo in cui si sono fermati. Espulso, Abramo si ritrova nel Negheb (13,1), ma non vi rimane: "di accampamento in accampamento egli dal Negheb si portò fino a Betel, fino al luogo dove la sua tenda era stata già prima" (13,3). "Poi Abram si spostò con le sue tende e andò a stabilirsi alle querce di Mamre, che sono ad Ebron" (13,18). Più tardi, veniamo a sapere che "Abramo piantò un tamerice in Bersabea" (21,33) nel Negheb e infine che "fu forestiero nel paese dei Filistei per molto tempo" (21,34).

Da questa abbondanza di informazioni risulta che nella figura di Abramo gli Zingari possono riconoscere se stessi e quindi accogliere due lezioni fondamentali per la loro vita e la loro dignità. La prima lezione è che Dio non disprezza per niente l'esistenza nomade. Spesso gli uomini sedentari la disprezzano, Dio invece no. È stato lui infatti ad aver fatto di Abramo un nomade e con questo nomade Dio ha stabilito una relazione quanto mai privilegiata, al punto di accettare di essere chiamato ormai "il Dio di Abramo". Dio ha concluso con Abramo una alleanza. Questo evento è tanto importante da essere riferito due volte nel Libro della Genesi, dove ne troviamo un racconto jahvista e un racconto sacerdotale. Il racconto jahvista si trova nel capitolo 15 della Genesi, il racconto sacerdotale nel cap. 17. Nel racconto jahvista, Dio s'impegna verso Abramo in un modo particolarmente forte, perché si sottomette a un antico rito imprecatorio, che consisteva nello spaccare in due alcuni animali immolati e nel passare tra le loro carni sanguinanti, per significare che un'eventuale violazione dell'impegno preso avrebbe avuto come conseguenza una sorte simile. Sotto il simbolo di "un forno fumante e una fiaccola ardente", Dio passò "in mezzo agli animali divisi" (15,17). Il racconto sacerdotale, invece, insiste maggiormente sulla relazione personale stabilita tra Dio e Abramo. Dio dichiara: "Porrò la mia alleanza tra me e te" (17,2), poi dice: "Eccomi: la mia alleanza è con te" (17,4) e ribadisce: "Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te" (17,7). D'altra parte, come segno dell'adesione personale dell'alleanza divina, Dio impone l'obbligo della circoncisione (17,9-14).

Ad Abramo nomade, Dio fa promesse generosissime, la promessa di una discendenza innumerevole (15,5; 17,2-6; 22,17) e quella di essere una benedizione per "tutte le famiglie della terra" (12,3), per "tutte le nazioni della terra" (18,18; 22,18). In tutta la misura in cui gli Zingari s'immedesimano con Abramo, la sua storia li può fare esultare di- gioia e dar loro la conferma della loro grande dignità.

D'altra parte, la storia di Abramo insegna loro un'altra lezione, cioè che il loro genere di vita dà la possibilità di una vita spirituale profonda sull'esempio di Abramo, il quale è un modello di docilità verso Dio e di grande fede. La sua docilità si manifesta sin dall'inizio e si conferma sino alla fine. Infatti, la prima cosa che viene detta di Abramo dopo le parole rivoltegli da Dio è che "allora Abramo partì, come gli aveva ordinato il Signore" (12,4). La sua docilità poi non si smentì mai; essa raggiunse il colmo, quando Dio lo "mise alla prova", chiedendogli di prendere il suo figlio, il suo unico figlio che amava, e di offrirlo in olocausto (22,1-2). Abramo allora "si alzò di buon mattino [...] e si mise in viaggio verso il luogo che Dio gli aveva indicato" (22,3). Fù docile fino allo stendere la mano e prendere il coltello per immolare suo figlio, ma in quel momento l'angelo del Signore lo fermò, perché in realtà Dio non voleva questa immolazione, voleva soltanto che fosse resa manifesta l'assoluta docilità del santo patriarca.

La docilità di Abramo aveva come fondamento una grande fede. Quando Dio promise ad Abramo una discendenza altrettanto numerosa quanto le stelle del cielo, "egli non vacillò nella fede" (Rm 4,19) di fronte a questa promessa completamente inverosimile, ma "credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia" (Gn 15,6). Come l'apostolo Paolo ha dimostrato nelle sue Lettere ai Galati e ai Romani, questo atteggiamento di Abramo è fondamentale per la vita di ogni cristiano. Gli Zingari, però, si trovano in una situazione più favorevole di quella di altri cristiani grazie alla somiglianza del loro genere di vita a quello di Abramo.

L'unione di Abramo con Dio si manifesta d'altronde con il fatto che egli, nei luoghi in cui piantava la tenda, costruiva un altare al Signore e invocava il suo nome. Così fece "presso la Quercia di More" (Gn 12,7), poi a Betel (12,8; 13,4) poi alle Querce di Mamre, che sono ad Ebron (13,18). Questo dimostra una pietà profonda. Abramo viveva alla presenza di Dio. Gli Zingari sono chiamati ad imitarlo.

Mi è sembrato utile insistere sull'esempio di Abramo, perché è fondamentale e può essere molto ispiratore per gli Zingari. Questo esempio individuale viene completato nella Bibbia con l'esempio collettivo della storia dell'Esodo che ci mostra l'esistenza itinerante degli Ebrei nel deserto. Gli Zingari non vivono nel deserto; la loro situazione non è quindi identica. Molti aspetti, però, sono comuni. Gli Zingari conducono un’esistenza itinerante come una volta gli Ebrei. L'esistenza degli Ebrei era anzitutto guidata da Dio, il che è un immenso beneficio. Il Libro dell'Esodo dichiara che "Dio guidò il popolo per la strada del deserto" (Es 13,18.21), strada difficile, ma privilegiata. Difficile, perché il deserto non offre per niente le comodità della vita nelle ricche città; privilegiata perché libera da tanti ostacoli che intralciano la relazione con Dio. Difficile, perché l'esistenza itinerante è un tempo di prova e di tentazione, un tempo anche di purificazione; privilegiata, perché è una situazione in cui si può sentire meglio la voce di Dio. In un oracolo del profeta Osea che riguarda la nazione eletta, Dio dichiara: "La attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore" (Os 2,16). Il tempo del camminare nel deserto è stato per Israele come un tempo di fidanzamento con Dio. Così come per Abramo il distacco dalla vita sedentaria è stato la condizione previa per ricevere il dono dell'alleanza con Dio, così anche per il popolo ebreo lo stesso distacco è stato la condizione previa dell'alleanza del Sinai.

Nel Nuovo Testamento, la Lettera agli Ebrei invita i cristiani a meditare sulla vita itinerante dei patriarchi, la quale viene presentata come una splendida manifestazione di fede e di speranza. Questa prospettiva può essere di grande conforto per gli Zingari e di grande stimolo. La vita itinerante è una vita di continuo distacco dalle città e dai possedimenti terreni che può favorire molto le aspirazioni spirituali. Di Abramo, l'autore della Lettera agli Ebrei, osserva che "per fede, chiamato" da Dio "egli partì senza sapere dove andava" (He 11,8) e poi che "per fede, soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende" (He 11,9). Questa situazione paradossale lo spingeva alla speranza: "Egli, dice l'autore, aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio" (He 11,10). Di tutti i patriarchi, l'autore dice similmente che "si dichiaravano ‘stranieri e pellegrini sulla terra’ e aspiravano a una patria migliore, cioè a quella celeste" (He 11,13-16). Alla fine, parlando globalmente di tutti gli eroi della fede, l'autore li mostra che andavano "vagando per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra" (He 11,38).

Occorre notare che questa evocazione non è soltanto confortante e stimolante per gli Zingari, ma è anche una lezione data a tutti i cristiani, una lezione che li deve portare a correggere la loro mentalità, se è segnata da un certo disprezzo per la vita zingara e da uno spontaneo complesso di superiorità. L'autore, infatti, ricorda loro, alla fine della Lettera, che Gesù "soffrì fuori della porta della città" e li invita quindi a "uscire verso di lui fuori dell'accampamento [...] perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura" (He 13,12-14). Tutti i cristiani sono così invitati a una conversione almeno mentale, che li distaccherà dai vantaggi materiali di una vita sedentaria ben protetta e darà loro una profonda stima per chi accetta di vivere nell'insicurezza di continui spostamenti. Ne seguirà un atteggiamento di sincera accoglienza e di generoso aiuto per gli Zingari.

Ciò che abbiamo detto, nella prima parte di questa relazione, sullo spirito missionario che caratterizza la vita pubblica di Gesù e che egli ha comunicato ai suoi apostoli va ugualmente in questo duplice senso, cioè di grande conforto per gli Zingari e di stimolo per tutti i cristiani. Nel Nuovo Testamento, missione e vita itinerante sono strettamente collegate. Pensando alla vita itinerante di Gesù, il quale non aveva "dove posare il capo" (Mt 8,20), gli Zingari possono provare un grande conforto nel vedere fino a che punto egli abbia condiviso la loro sorte e ne abbia dimostrato la connessione con il disegno di Dio. D'altra parte, tutti i cristiani sono invitati da Gesù a distaccarsi dalle ricchezze materiali per seguirlo e partecipare alla missione universale, con un rispetto particolare per la gente itinerante.

Molte cose potrebbero essere dette in proposito, altri punti ottimamente espressi o accennati negli Orientamenti meriterebbero di essere approfonditi, ma i limiti di questa relazione non lo consentono. Spero che nei suoi limiti, questa modesta relazione abbia dimostrato a sufficienza quanto saldi ed estesi siano i fondamenti biblici degli Orientamenti per una Pastorale degli Zingari. 

 

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