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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 105 (Suppl.), December 2007

 

 

Il dialogo interreligioso

per contrastare il terrorismo

 

 

Cardinale Paul Poupard

Presidente

Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-Religioso

 

1. Il dialogo

La Chiesa è se stessa, diceva Papa Paolo VI, nell’Evangelii nuntiandi, proprio nel momento in cui vive, testimonia e annuncia il Vangelo. L’annuncio, dal canto suo, è veramente cristiano quando non solo è centrato sull’evento di Gesù Cristo come grazia di Dio donata all’umanità, grazia di salvezza, ma quando, nell’atto stesso dell’annuncio, assume quella forma che è tipica di tutta la rivelazione cristiana, come si legge nell’Ecclesiam suam: la forma del dialogo. “La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio” (ES 67).

Nella stessa Enciclica, che Paolo VI emanò il 6 agosto 1964, troviamo ancora riferimenti alla valenza che il dialogo ha per la nostra religione: “La religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l’uomo. La preghiera esprime a dialogo tale rapporto. La rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l’iniziativa di instaurare con l’umanità, può essere raffigurata in un dialogo […] La storia della salvezza narra appunto questo lungo e vario dialogo che parte da Dio, e intesse con l’uomo varia e mirabile conversazione. È in questa conversazione di Cristo fra gli uomini che Dio lascia capire qualcosa di Sé, il mistero della Sua vita, unitissima nell’essenza, trinitaria nelle Persone; e dice finalmente come vuol essere conosciuto; Amore Egli è; e come vuole da noi essere onorato e servito: amore è il nostro comandamento supremo. Il dialogo così si fa pieno e confidente” (ES 72).

“Bisogna - si legge ancora nell’Enciclica - che noi abbiamo sempre presente questo ineffabile e realissimo rapporto dialogico, offerto e stabilito con noi da Dio Padre, mediante Cristo, nello Spirito Santo, per comprendere quale rapporto noi, cioè la Chiesa, dobbiamo cercare d’instaurare e di promuovere con l’umanità” (ES 73).

La Dei Verbum, il documento del Concilio Vaticano II sulla rivelazione, dice che Dio si rivela intrattenendosi con gli uomini come con amici (“Non vi chiamo più servi, ma amici”). L’evangelizzazione stessa, dunque, deve avere la forma del dialogo, inteso nel senso più vero e profondo della parola, ossia accoglimento dell’altro, per potergli donare ciò che in pienezza e novità, attraverso la fede, abbiamo ricevuto da Cristo.

Dialogare è un’arte, in cui si esprime ciò che di più profondo vi è nell’esistenza umana. È un’arte dell’umanesimo autentico ed anche, e ancor di più, del cristianesimo più profondo. Per i cristiani quindi è necessario imparare a dialogare secondo il modo, la forma, i tempi, il metodo vissuti da Gesù, da Dio stesso nel suo rapporto con l’umanità.

Il dialogo della salvezza ha precise caratteristiche, appunto quelle che impariamo dai modi vissuti da Gesù: esso prende l’iniziativa, senza attendere d’essere chiamati, è spinto da amore fervente e disinteressato, è senza limiti e senza calcoli. Pur annunciando la verità, tale dialogo è rispettoso della libertà personale e civile, è possibile a tutti, quindi è universale, cattolico. Pur con il dovuto riguardo alle lentezze della maturazione psicologica e storica e all’attesa dell’ora in cui Dio lo renda efficace, tuttavia esso deve avere sempre l’ansia dell’ora opportuna e la preziosità del tempo. “Oggi, cioè ogni giorno, esso deve ricominciare; e da noi, prima che da coloro a cui è rivolto” (ES 74-79).

Il dialogo esige chiarezza, comprensibilità, è un travaso di pensiero, esige mitezza, non è comando, non è imposizione, poiché la sua autorità è intrinseca alla verità che espone, è pacifico, paziente, generoso, promuove la confidenza e l’amicizia. Con prudenza pedagogica fa conto delle condizioni psicologiche e morali di chi ascolta. “Nel dialogo, così condotto, si realizza l’unione della verità e della carità; dell’intelligenza e dell’amore” (ES 83-85).

“L’apertura d’un dialogo, come vuol essere il Nostro, disinteressato, obiettivo, leale, decide per sé stessa in favore d’una pace libera ed onesta […] non può non denunciare, come declino e come rovina, la guerra di aggressione, di conquista di predominio; e non può non estendersi dalle relazioni al vertice delle nazioni a quelle nel corpo delle nazioni stesse e alle basi sia sociali, che familiari e individuali, per diffondere in ogni istituzione ed in ogni spirito il senso, il gusto, il dovere della pace” (ES 110).

Nell’Enciclica del Servo di Dio Giovanni Paolo II, Redemptoris Missio, pubblicata il 7 dicembre 1990, troviamo altre indicazioni in merito: “Il dialogo non nasce da tattica o da interesse, ma è un’attività che ha proprie motivazioni, esigenze, dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell’uomo ha operato lo Spirito, che soffia dove vuole (cfr. Redemptor Hominis 12). Con esso la Chiesa intende scoprire i germi del Verbo (Ad Gentes 11.15) i raggi della verità che illumina tutti gli uomini (Nostra Aetate 2), germi e raggi che si trovano nelle persone e nelle tradizioni religiose dell’umanità. Il dialogo si fonda sulla speranza e la carità e porterà frutti nello Spirito. Le altre religioni costituiscono una sfida positiva per la Chiesa: la stimolano infatti sia a scoprire e a riconoscere i segni della presenza del Cristo e dell’azione dello Spirito, sia ad approvare la propria identità e a testimoniare l’integrità della Rivelazione, di cui è depositaria per il bene di tutti” (RM 56).

Lo stesso pontefice, di venerata memoria, in un discorso al nostro Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, il 9 novembre 2001, significativamente poco dopo i fatti dell’attentato alle Torri Gemelle, diede le seguenti mirabili e preziose indicazioni: “Quando noi cristiani consideriamo la natura di Dio, come rivelata nelle Scritture e soprattutto in Gesù Cristo, comprendiamo che la comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo è il modello perfetto ed eminente di dialogo tra gli esseri umani. La Rivelazione ci insegna che Dio è sempre stato in dialogo con l’umanità. Nel dialogo inter-religioso dobbiamo tenere presente l’esortazione di San Paolo: ‘Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù’ (Fil 2,5). L’Apostolo poi prosegue nel sottolineare l’umiltà di Gesù, la sua kenosis. Come Cristo, in base a quanto ci svuoteremo, saremo veramente in grado di aprire agli altri il nostro cuore e di procedere con loro come compagni di viaggio verso il destino che Dio ha preparato per noi”.

“S. Paolo, per descrivere il suo metodo di evangelizzazione, diceva: ‘Mi sono fatto ebreo con gli ebrei, [greco con i greci…] tutto a tutti, per guadagnare ad ogni costo qualcuno!’ (1 Cor 9, 20.22). Questa è la lezione del Crocifisso, la kenosis del Crocifisso, che Paolo ha imparato e che ha permesso alla sua evangelizzazione di avere la straordinaria capacità di ‘entrare nella pelle dell’altro’, per fecondare i semi di verità e di bene che già ci sono, per portarli a compimento, trasfigurarli e purificare, con la grazia di Cristo, gli errori e i limiti sempre presenti nella realtà umana”.[1]

Il dialogo tra fedeli di diverse religioni, come credenti in Dio – se svolto secondo l’insegnamento conciliare, se, cioè, “sincero” (Gaudium et spes, 91; Ad Gentes, 11), “ispirato dal solo amore della verità e condotto con la opportuna prudenza” (Gaudium et spes, 92), “fraterno” (Ad Gentes, 16) – porta quasi necessariamente a scoprire, “essendo Dio Padre principio e fine di tutti”, di essere “tutti chiamati ad essere fratelli”. E, se tali, “possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla costruzione del mondo nella vera pace” (Gaudium et Spes, 92), difendendo e promuovendo “insieme, per tutti gli uomini, la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà” (Nostra Aetate, 3).

Alla luce di questi principi, nel 1964 il Papa Paolo VI istituì il Segretariato per i non cristiani, che prenderà poi, nel 1988, il nome di Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Da allora, tramite questo suo Dicastero, la Santa Sede ha moltiplicato contatti, relazioni personali, incontri, scambi di visite, iniziative dirette a promuovere il dialogo nelle sue varie forme e dirette, altresì, ad assicurare ad esso continuità e sviluppo.[2]

Il Santo Padre, instancabile operatore di pace e promotore del dialogo interreligioso e interculturale, durante un’Udienza alla Delegazione della Foundation for Interreligious and Intercultural Research and Dialogue[3], il 1° febbraio scorso,  ricorda a tutti gli Ebrei, i Cristiani e i Musulmani di essere chiamati “a riconoscere e a sviluppare i vincoli che ci uniscono”.

Una chiamata al dialogo, dunque, che è anche una presa di responsabilità da parte delle grandi religioni nei confronti degli uomini di oggi che attendono “un messaggio di concordia e di serenità, e la manifestazione concreta della nostra volontà comune di aiutarli a realizzare la loro legittima aspirazione a vivere nella giustizia e nella pace” (ibid.).

È con forza che Benedetto XVI ricorda la nostra aspirazione, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, alla pace, ribadendo che “la ricerca e il dialogo interreligiosi e interculturali non sono un’opzione, ma una necessità vitale per il nostro tempo” (ibid.). 

2. Il terrorismo internazionale di matrice islamica.

Una delle sfide, che la nostra società ci presenta e che mina profondamente questa legittima aspirazione alla pace e alla giustizia, è il terrorismo. L’umanità assiste sgomenta a questo fenomeno, divenuto uno dei più assurdi e angoscianti mali del nostro tempo, soprattutto per la dimensione “globale” da esso raggiunta, tanto da poter parlare comunemente, dopo l’11 settembre, di “guerra al terrorismo”. Eppure non c’è ancora un accordo su una sua definizione e diverse sono le posizioni al riguardo.

Numerosi musulmani fermamente e pubblicamente condannano il terrorismo: ciò favorisce, come ha notato il Papa, “il clima di fiducia di cui abbiamo bisogno”. E’ peraltro da rilevare che, allo stesso tempo, essi hanno affermato il diritto del popolo palestinese a difendersi anche con mezzi violenti ed hanno qualificato di “terrorismo” la presenza e gli interventi israeliani nei territori palestinesi.

Gli eventi dell’11 settembre hanno mostrato, inoltre, una divergenza tra leaders politici e popolo nei paesi a maggioranza islamica. Mentre i politici davano appoggio – o almeno dimostravano comprensione – per la guerra al terrorismo, il popolo si è mostrato contrario e, a volte, anche simpatizzante con qualche tesi dei terroristi.

I terroristi, com’è tragicamente noto, hanno continuato a colpire nei paesi occidentali (in Spagna, Madrid, l’11 marzo 2004; in Gran Bretagna, a Londra, il 7 luglio 2005), ma anche nei paesi a maggioranza islamica, considerati alleati o troppo vicini all’Occidente (Egitto, Arabia Saudita, Giordania, Indonesia).[4]

Atti terroristici, tutti esecrabili, si susseguono e di essi danno notizia quasi quotidianamente i mass media.  

Benedetto XVI, il 20 agosto 2005, rivolgendosi alle comunità musulmane, in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù[5], si riferisce agli ideatori e programmatori di questi attentati che “mostrano di voler avvelenare i nostri rapporti, servendosi di tutti i mezzi, anche della religione, per opporsi ad ogni sforzo di convivenza pacifica, leale e serena. Il terrorismo, di qualunque matrice esso sia, è una scelta perversa e crudele, che calpesta il diritto sacrosanto della vita e scalza le fondamenta stesse di ogni civile convivenza”.

Il Santo Padre, continuando nel suo discorso ai musulmani, offre anche decise linee guida per un futuro di speranza. Egli infatti aggiunge che “se insieme riusciremo ad estirpare dai cuori il sentimento di rancore, a contrastare ogni forma di intolleranza e ad opporci ad ogni manifestazione di violenza, freneremo l’ondata di fanatismo crudele che mette a repentaglio la vita di tante persone, ostacolando il progresso della pace nel mondo […] Solo sul riconoscimento della centralità della persona si può trovare una comune base di intesa, superando eventuali contrapposizioni culturali e neutralizzando la forza dirompente delle ideologie […] La difesa della libertà religiosa è un imperativo costante e il rispetto delle minoranze un segno indiscutibile di civiltà”.

Nel Messaggio per la Giornata Mondiale per la Pace 2002 (dicembre 2001), Giovanni Paolo II condannò decisamente il terrorismo, dicendo che “chi uccide con atti terroristici coltiva sentimenti di disprezzo verso l’umanità, manifestando disperazione nei confronti della vita e del futuro […] esso strumentalizza non solo l’uomo, ma anche Dio, finendo per farne un idolo di cui si serve per i propri scopi […] Nessun responsabile delle religioni pertanto può avere indulgenza verso il terrorismo, e ancor meno lo può predicare”.

Ad Assisi, il 24 gennaio 2002, ai rappresentanti delle varie religioni del mondo[6], lì convenuti “in pellegrinaggio di pace”, disse: “ Le tenebre non si dissipano con le armi; le tenebre si allontanano accendendo fari di luce. […] L’odio si vince solo con l’amore” (n. 1).

Quella Giornata di Preghiera, promossa dal venerato Servo di Dio Giovanni Paolo II, si concluse con una Dichiarazione dei leaders religiosi presenti, definita da alcuni il “decalogo di Assisi”, col quale essi si impegnarono a “sradicare le cause del terrorismo, a difendere il diritto di ogni persona a una degna esistenza secondo la propria identità culturale e a formarsi liberamente una propria famiglia, a sostenersi nel comune sforzo per sconfiggere l’egoismo, l’odio e la violenza, apprendendo dall’esperienza del passato che la pace senza la giustizia non è vera pace”.

Dal Discorso ad Assisi riportiamo le incoraggianti parole di Giovanni Paolo II: “Dio stesso ha posto nel cuore umano un’istintiva spinta a vivere in pace ed in armonia. E’ un anelito più intimo e tenace di qualsiasi istinto di violenza […] Le tradizioni religiose posseggono le risorse necessarie per superare le frammentazioni e per favorire la reciproca amicizia e il rispetto tra i popoli. […] Chi utilizza la religione per fomentare la violenza ne contraddice l’ispirazione più autentica e profonda” (nn. 2 e 4). 

Alla Conferenza dei Ministri dell’Interno dell’Unione Europea, il 31 ottobre 2003, Papa Giovanni Paolo II disse: “occorre continuare a sperare. Il dialogo a tutti i livelli - economico, politico, culturale, religioso - porterà i suoi frutti. […] La pace è un dono di Dio ed ha in Lui la vera sorgente”.  

Cercando di indagare sulla natura di questa “piaga”, non possiamo dimenticare la profonda verità che risiede nelle parole pronunciate da Giovanni Paolo II al riguardo, quando affermò che il terrorismo è un male che non può essere curato solo nelle sue manifestazioni esterne, ma anche nelle sue cause: l’ingiustizia economica, la mancanza di libertà politica, la strumentalizzazione della religione, il divario tra nord e sud del mondo e, non ultima, una certa cultura di stampo antioccidentale.

A tal proposito, ricordiamo le venerate parole di Paolo VI, “lo sviluppo è il nuovo nome della pace” (cf. Populorum Progressio, nn. 76 e 87).

In questo senso, nel dialogo, si fa urgente la necessità di trovare insieme, sulla base del sentimento di fraternità che accomuna i figli di Dio, strade percorribili per la realizzazione di progetti di solidarietà e di aiuto allo sviluppo dell’intera umanità.

Il documento conciliare, Nostra Aetate, ricorda che “non possiamo invocare Dio Padre di tutti, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati a immagine di Dio. L’atteggiamento dell’uomo verso Dio Padre e quello dell’uomo verso gli uomini fratelli sono tanto connessi che la Sacra Scrittura dice: ‘Chi non ama, non conosce Dio’ (1 Gv 4,8)”.[7]

Combattere il terrorismo, che pure usa i mezzi della violenza contro innocenti, e che costituisce esso stesso, “in quanto ricorso al terrore come strategia politica ed economica, un vero crimine contro l’umanità”[8], pone d’altra parte delle questioni etico-religiose profonde, come la necessità di conciliare tale lotta con il rispetto della dignità umana e dei diritti inalienabili della persona. Il Santo Padre, nell’ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, sottolinea che “la piaga del terrorismo postula un’approfondita riflessione sui limiti etici che sono inerenti all’utilizzo degli strumenti odierni di tutela della sicurezza nazionale […] La guerra rappresenta sempre un insuccesso per la comunità internazionale ed una grave perdita di umanità. Quando, nonostante tutto, ad essa si arriva, occorre almeno salvaguardare i principi essenziali di umanità e i valori fondanti di ogni civile convivenza, stabilendo norme di comportamento che ne limitino il più possibile i danni e tendano ad alleviare le sofferenze di civili e di tutte le vittime dei conflitti”.[9]

“Per essere vincente, la lotta al terrorismo non può esaurirsi soltanto in operazioni repressive e punitive. E’ essenziale che il pur necessario ricorso alla forza sia accompagnato da una coraggiosa e lucida analisi delle motivazioni soggiacenti agli attacchi terroristici. Allo stesso tempo, l’impegno contro il terrorismo deve esprimersi anche sul piano politico e pedagogico: da un lato, rimuovendo le cause che stanno all’origine di situazioni di ingiustizia, dalle quali scaturiscono sovente le spinte agli atti più disperati e sanguinosi; dall’altro insistendo su un’educazione ispirata al rispetto per la vita umana in ogni circostanza: l’unità del genere umano è infatti una realtà più forte delle divisioni contingenti che separano uomini e popoli […] L’uso della forza contro i terroristi non può giustificare la rinuncia ai principi di uno Stato di diritto. […] Superare la logica della semplice giustizia per aprirsi a quella del perdono […] Solo un’umanità nella quale regni la civiltà dell’amore potrà godere di una pace autentica e duratura”.[10]

Bisogna distinguere poi il terrorismo a sfondo religioso da quello a sfondo etnico-nazionalista (per esempio quello dei curdi e dei baschi).

Non si può negare che, alla luce della storia recente e successivamente all’11 settembre 2001, i rapporti tra cristiani e musulmani siano soggetti a preoccupazioni e a vari fattori di rischio, a livello generale e anche, nello specifico, a livello delle minoranze religiose. Tali rischi sono: la polarizzazione su base religiosa/confessionale; l’irrigidimento delle rispettive posizioni; la paura, che si insinua profondamente nel cuore della persona umana; una radicalizzazione dell’islam e un rafforzamento del fondamentalismo religioso; la strumentalizzazione della religione musulmana per finalità ideologiche o politiche (anche per la mancanza di un’autorità centrale e dottrinale); il pericolo di “raffreddamento”, ossia di un calo di tensione nel dialogo: con dubbi sull’utilità del dialogo interreligioso, da parte cristiana, vista la violenza manifestata da certi settori dell’islam, e sospetto, da parte musulmana, che l’apertura cristiana possa nascondere un rinato spirito “crociato” o “colonialista”; la tendenza al relativismo religioso.[11]

Il crescente fenomeno della convivenza con i musulmani costituisce ancora di più oggi, sullo sfondo della minaccia del terrorismo, una sfida per noi cristiani: siamo chiamati ad un forte impegno di formazione e di rafforzamento della nostra identità, affinché siamo in grado di “rendere ragione della speranza” che ci anima.[12]

Esso rappresenta, senza dubbio, una sfida per le religioni dunque, ma anche per i governi e per le intere società.

Al Card. W. Kasper per l’incontro “Religioni e culture: il coraggio di un nuovo umanesimo“, il 3 settembre 2004, papa Giovanni Paolo II ricordava che “nonostante i nuovi conflitti sorti, e tutte le preoccupazioni al riguardo non possiamo perdere la speranza: sempre la pace è possibile […] il conflitto non è mai inevitabile. Il nostro mondo ha bisogno di questo spirito [di Assisi]; […] esso stimola le religioni a offrire il loro contributo a quel nuovo umanesimo di cui il mondo contemporaneo ha tanto bisogno […] Dobbiamo perseverare nel dialogo; […] dobbiamo adoperarci per sradicare quanto può favorire l’affermarsi del terrore: in particolare la miseria, la disperazione e il vuoto dei cuori. Non dobbiamo lasciarci sopraffare dalla paura che porta a rinchiudersi in se stessi e a rafforzare l’egoismo dei singoli e dei gruppi. C’è bisogno del coraggio di globalizzare la solidarietà e la pace; […] la vera via della pace, che mai passa per la violenza e sempre per il dialogo; […] il dialogo rivela il coraggio di un nuovo umanesimo, perché richiede la fiducia nell’uomo. Non pone mai gli uni contro gli altri. Suo scopo è eliminare le distanze e smussare le asperità per far maturare la coscienza di essere tutti creature dell’unico Dio, e perciò fratelli di una stessa umanità” (nn. 2-5). 

3. Gli aeroporti e il dialogo interreligioso

Gli aeroporti costituiscono un punto nevralgico del nostro mondo, dove il trasporto aereo occupa un posto di primo rilievo. Sono luoghi di passaggio, crocevia di incontri tra singoli e popoli, comunità e nazioni, luoghi di dialogo, seppur temporaneo. Sono luoghi in cui talvolta "viaggia" il Male, da un paese all’altro, con progetti di distruzione e di morte verso civili innocenti…sono infatti sentimenti comuni e popolari il pericolo e il timore che incutono le notizie dal mondo.

Dunque gli aeroporti, luoghi chiave, possono e devono diventare luoghi in cui "viaggia" il Bene, luoghi di speranza di vita, non di morte, di testimonianza di possibile dialogo tra le culture e le religioni, recuperando dal profondo le spinte al Bene e alla Pace, insite nel cuore della persona umana, in una parola, luoghi di fraternità.

In questo contesto, i cappellani e gli operatori pastorali che lavorano negli ambienti aeroportuali, hanno un ruolo significativo da svolgere. In essi lavorano o passano anche persone credenti di altre fedi: è importante incoraggiare il dialogo e impedire che la paura e il pessimismo danneggino i rapporti con essi, prevalendo sulla speranza che invece deve animare la nostra fede per un futuro di pace e di bene per l’umanità.

E’ importante che le cappelle cristiane negli aeroporti, come negli altri ambienti, mantengano il carattere di luogo di culto cristiano e non siano concesse per l’uso, il culto o la preghiera ad altra religione.[13]

L’uso condiviso di chiese e di luoghi di culto specifici genererebbe solo confusione nei fedeli, dando luogo all’indifferentismo religioso. In luoghi come gli aeroporti, l’uso condiviso può aver senso occasionalmente poiché non si tratta propriamente di chiese, ma di luoghi di preghiera. Nelle cappelle cristiane, la presenza del Signore nel Santissimo Sacramento dell’Eucarestia rende impossibile celebrare la preghiera di un’altra religione al suo interno.[14]

Alla richiesta di ottenere sale di preghiera islamiche o moschee, negli aeroporti di paesi di tradizione cristiana, è bene rispondere che sarebbe più opportuno predisporre "sale di meditazione interconfessionali", luoghi di culto interreligioso, in cui non una sola religione, ma anche tutte le altre possano trovare lo spazio e gli strumenti necessari per le rispettive pratiche di culto.[15]

E’ auspicabile che i cappellani abbiano anche una buona conoscenza, almeno nelle linee generali, delle altre religioni, per poter ascoltare o rispondere a questioni concernenti il cristianesimo, tenendo conto anche del retroterra culturale e religioso dei singoli viaggiatori. Potrebbe essere utile, per esempio, lasciare su un banco alcuni depliant sul cristianesimo, in varie lingue.

La cappella cristiana dovrebbe essere, quindi, un luogo di culto "parlante" anche per persone di altre religioni, dimostrando loro la massima sensibilità e accoglienza, facendosi portavoce di un messaggio di fraternità, rispetto e pace.

Il viaggiatore, inoltre, è psicologicamente meno condizionato e, in genere, è più aperto e predisposto al dialogo, essendo fuori dal contesto socio-politico di provenienza, durante un viaggio che, solitamente, è per turismo, e durante il quale il maggior tempo libero e la curiosità portano naturalmente a chiedere e ad informarsi, favorendo occasioni di incontro e di dialogo. Pertanto i cappellani, nell’esercizio della loro missione in tali ambienti, potranno assecondare e mostrarsi particolarmente attenti a queste aperture.

4. Il dialogo interreligioso, arma bianca contro il terrorismo

Il Servo di Dio, Giovanni Paolo II, rivolgendosi all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il 5 ottobre 1995, ebbe a dire che noi “non viviamo in un mondo irrazionale o privo di senso […] vi è una logica morale che illumina l’esistenza umana e rende possibile il dialogo tra gli uomini e tra i popoli”.[16]

Sulla stessa linea di pensiero, di recente, ha affermato il nostro amato Santo Padre Benedetto XVI: “Noi crediamo che all’origine c’è il Verbo eterno, la ragione e non l’Irrazionalità”,[17] pertanto la “pace è un compito che impegna ciascuno ad una risposta personale coerente col piano divino. Il criterio cui deve ispirarsi tale risposta non può che essere il rispetto della grammatica scritta nel cuore dell’uomo dal divino suo Creatore”.[18]

Il riconoscimento e il rispetto della legge naturale costituiscono la base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti. È questo un grande punto d’incontro e, quindi, un fondamentale presupposto per un’autentica pace.

La pace nasce dal riconoscimento unanime del diritto alla vita, alla libertà religiosa, all’uguaglianza di natura di tutte le persone, presupponendo il rispetto dei beni della natura e dei diritti dell’uomo, implicando, a carico di quest’ultimo, altresì dei doveri.

Entrando in dialogo con la ricca diversità di nazioni e di culture d’ogni parte del mondo, si osserva che esso deve ancora imparare a convivere con le diversità e le peculiarità dell’altro, sentite talvolta come un peso, o addirittura una minaccia. Si innescano spirali di violenza, dalla quale nessuno viene risparmiato, neppure i bambini. Ma al di là delle differenze che contraddistinguono gli individui e i popoli, esiste tra loro una fondamentale comunanza, in quanto le varie culture non sono che modi diversi di affrontare la questione del significato dell’esistenza personale, un modo di dare espressione alla dimensione trascendente della vita umana. Con le parole di Giovanni Paolo II, si può dire che “il cuore di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei misteri: il mistero di Dio […] La differenza, che alcuni ritrovano così minacciosa, può divenire, mediante un dialogo rispettoso, la fonte di una più profonda comprensione del mistero dell’esistenza umana”.[19]

Non si può dimenticare il carattere preventivo che ogni iniziativa a favore del dialogo interreligioso ha, rispetto alla diminuzione delle tensioni, nella prospettiva di un’auspicata risoluzione dei conflitti.

Il dialogo supera le paure che il terrorismo suscita e apre spiragli di una nuova umanità; il dialogo compiuto a vari livelli, tra le organizzazioni religiose ecc., nelle università, nelle comunità, aiuta a spazzare via la cultura del terrore e a formare "persone nuove" capaci di dare risposte vere e illuminate dalla fede ai mali e le disuguaglianze che attanagliano le nostre società, rinnovandole dal profondo.

Il Servo di Dio, Giovanni Paolo II ricordò la “necessità di edificare una cultura della pace per consentire una reale solidarietà tra gli uomini e dare un’autentica chance ad un avvenire di concordia tra le nazioni. Non si potrà avere pacificazione durevole - continua il compianto pontefice- nei rapporti internazionali se non prevale la volontà del dialogo sulla logica di confronto. I conflitti si nutrono di odi e di desiderio di vendetta reciproci. Il terrorismo flagella numerosi paesi e colpisce duramente gli innocenti. La violenza non porta a niente di buono se non l’odio, la distruzione e la morte”.[20]

In questo senso il dialogo interreligioso è via alla pace e arma bianca contro la sfida del terrorismo.

Il Papa Benedetto XVI, nel richiamare il dovere, per cristiani e musulmani, di far fronte insieme alle sfide proposte dal nostro tempo, aggiunge: “Non possiamo cedere alla paura né al pessimismo. Dobbiamo piuttosto coltivare l’ottimismo e la speranza”.[21]

Ecco perché, dunque, - conclude il Santo Padre, nel discorso sopra menzionato alle comunità musulmane a Colonia –“il dialogo interreligioso e interculturale tra cristiani e musulmani non può ridursi ad una scelta stagionale. Esso infatti è una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro”.

Ancora una volta ricordiamo le parole di Papa Giovanni Paolo II, pronunciate davanti al Corpo Diplomatico in Roma, il 10 gennaio 2005: “Per portare una pace vera e duratura su questo nostro pianeta insanguinato è necessaria una forza di bene che non arretri di fronte ad alcuna difficoltà. E’ una forza che l’uomo da solo non riesce ad ottenere né a conservare: è un dono di Dio […]che ama l’uomo e vuole per lui la pace. A noi è chiesto di essere strumenti attivi di essa, vincendo il male con il bene. Vince in bono malum”.[22]


 

[1] Piero Coda, L’amore di Dio è più grande del nostro cuore. Il dialogo interreligioso, PIEMME, 2000, pp. 26-29.

[2] Pier Luigi Celata, Situazione generale del dialogo islamo-cristiano. Vedi People on the Move (Suppl. 101), Agosto 2006, pp. 201-224.

[3] L’Osservatore Romano, 2 febbraio 2007, p. 5.

[4] P. L. Celata, cfr. sopra, p. 216.

[5] In La Traccia, L’Insegnamento di Benedetto XVI, luglio-agosto 2005, pp. 332-334.

[6] Giovanni Paolo II, Discorso ai Rappresentanti delle varie Religioni del mondo per la Giornata di Preghiera per la Pace nel Mondo, Assisi, 24 gennaio 2002.

[7] Nostra Aetate, n. 5.

[8] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2002, n. 4.

[9] Benedetto XVI,  Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2007. A tale riguardo, il Catechismo della Chiesa Cattolica ha dettato criteri molto severi e precisi: cfr. nn. 2307-2317.

[10] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2004, 8 dicembre 2003, nn. 8 e 10.

[11] P.L.Celata, cfr. sopra, p. 218.

[12] P.L.Celata, cfr. sopra, p. 222.

[13] cfr. PCDI, Officio del N. 34264 del 26 febbraio 1992, Direttive sul culto di altre religioni in luoghi e locali cattolici.

[14] dalla Nota del Vescovo di Cordoba, in L’Osservatore Romano, 29-30 gennaio 2007.

[15] cfr. PCDI, Officio del N.2179/2000 del 6 ottobre 2000, sulla richiesta di addobbo, da parte musulmana, di un luogo di culto cristiano.

[16] n. 3

[17] Omelia all’Islinger Feld di Regensburg, 12 settembre 2006.

[18] Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2007, n. 3.

[19] Giovanni Paolo II, Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 5 ottobre 1995, nn. 9 e 10.

[20] dal Discorso alla nuova Ambasciatrice d’Egitto presso la Santa Sede, 18 settembre 2004.

[21] Benedetto XVI, in La Traccia…ibidem supra, p. 334.

[22] Giovanni Paolo II, Al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Roma, 10 gennaio 2005, n. 7.

 

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