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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 108, December 2008

 

 

INTERVISTA AL CARDINALE RENATO

RAFFAELE MARTINO “L’IMMIGRAZIONE CLANDESTINA NON SIA REATO”*

 

di Franca GIANSOLDATI

 

Al cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Giustizia e Pace, viene spontaneo rileggere la Dichiarazione Universale dei diritti umani: «All’articolo 13 c’è scritto chiaro e tondo che ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato e che ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese. C’è da aggiungere altro?». Il governo ha studiato un pacchetto sicurezza in cui l’immigrazione clandestina rientra tra le fattispecie di reato. «Siamo sicuri?» Così sembrerebbe. «Personalmente non sono affatto d’accordo con questa impostazione. Considerare reato l’immigrazione dei clandestini? Basterebbe, per l’appunto, riprendere in mano la Dichiarazione Universale che, ironia della sorte, quest’anno festeggia il suo sessantesimo anniversario. Un testo fondamentale. Mi chiedo se è possibile andare contro questo testo?» Gli italiani chiedono sicurezza e poi maggiore ordine. «Sgombriamo il campo da equivoci. È evidente che occorre fare rispettare la legalità a tutti i cittadini, così come a tutti coloro che si trovano sul territorio. Uno Stato ha poi il compito di provvedere alla regolazione di flussi migratori ma in modo armonico e solidale. Non dimentichiamo che gli immigrati, per l’economia del nostro Paese, sono importanti; ovvio che mica si può dire dall’oggi a domani che non si ha più bisogno di loro. E poi c’è un altro problema legato alla denatalità». Meno male che almeno gli immigrati fanno tanti figli? «Beh le statistiche non offrono margini di dubbio. Tra 15 anni gli italiani non saranno più 57 milioni ma circa 50 milioni. Un vero e proprio disastro per il Paese che ha bisogno delle loro braccia». Due settimane fa lei è volato a Bucarest, per un summit religioso; ha avuto colloqui anche con le autorità rumene? «Ho parlato col presidente. L’ho sentito preoccupato. Ha aggiunto che l’Italia non ha regole per l’immigrazione. Io penso che non si possa demonizzare un popolo come si sta facendo con quello romeno».


 

* Il Messaggero, 13 maggio 2008.

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LA RIFLESSIONE DEL CARDINALE MARTINO SUL MESSAGGIO DEL PAPA PER LA GIORNATA MONDIALE DEL MIGRANTE E DEL RIFUGIATO* 

 

Ha suscitato commenti in tutto il mondo il Messaggio di Benedetto XVI per la prossima Giornata mondiale del migrante e del rifugiato presentato ieri nella Sala Stampa vaticana. Il Papa ha auspicato che questo appuntamento, che si celebrerà il 18 gennaio 2009 sul tema “San Paolo migrante, ‘Apostolo delle genti’”, “sia per tutti uno stimolo a vivere in pienezza l'amore fraterno senza distinzioni di sorta e senza discriminazioni, nella convinzione che è nostro prossimo chiunque ha bisogno di noi e noi possiamo aiutarlo”. Ma sul rapporto tra Chiesa e migrazioni ascoltiamo, al microfono di Francesca Sabatinelli, la riflessione del cardinale Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti:

R. – La Chiesa è fatta di migranti. E questo lo vediamo in tutto il mondo e in tutte le epoche. Adesso ci sono le frontiere che mettono degli sbarramenti alla continua migrazione che c’era prima. La Chiesa ha sempre tenuto conto di questo fenomeno a cominciare da San Paolo migrante. Nei tempi moderni dobbiamo però dire che Pio XII è stato quello che ha richiamato e rimesso l’attenzione al fenomeno dei migranti con il famoso documento “Exul familia”.

 
D. – Eminenza, nel messaggio del Papa si ribadisce come per l'universo dei migranti si intendano studenti fuori sede, immigrati, rifugiati, profughi, sfollati, vittime delle schiavitù moderne e il Papa invita tutti a tenere conto delle loro diversità culturali...

R. – Naturalmente chi arriva in un altro Paese trova delle difficoltà di lingua, di lavoro, di inserimento e questo perché chi arriva ha una cultura, una tradizione e forse anche una religione diversa da quelle che professa nel luogo da dove arriva. Tutti questi fattori devono, quindi, essere presi in considerazione dal Paese ricevente. Per questo c’è questa accoglienza che la Chiesa dà in maniera attenta e generosa. 

D. – Nel messaggio si sottolinea anche come ci debba essere una accoglienza vicendevole…

R. – Certamente, perché questo è un problema di reciprocità: io ti accolgo e tu devi accogliere la cultura che trovi nel Paese dove arrivi e non cercare di creare dei ghetti. Questo avviene, invece, in varie città di Europa. Naturalmente questa deve però essere anche una questione di educazione e di formazione della gente che arriva. 

D. – Questa missione della Chiesa oggi si confronta con delle difficoltà che dipendono dagli Stati o da una certa rigidità che si è manifestata nel tempo anche dal punto di vista delle leggi…

R. – Naturalmente uno Stato per avere sicurezza deve controllare i clandestini, ma osservando anche la situazione dell’Europa va da se che questi Paesi per mantenere il loro livello di sviluppo e di ricchezza hanno bisogno di braccia e queste braccia arrivano, ma vanno rispettate le regole. Bisogna poi tener conto che dietro queste braccia c’è una persona umana, una persona con una tradizione, una cultura, una religione diversa ed insieme a questa persona c’è poi la famiglia. Tutto questo deve essere preso in considerazione. 

D. - Quindi occorre amalgamare le politiche di accoglienza con le politiche della sicurezza ma senza far prevalere l'una sull'altra...

R. - Certamente. È quella celebrazione dell'accoglienza, come ci dice il Papa, questa Agape, questo amore per gli altri, la carità, e questo è importante perché siamo tutti esseri umani con la stessa dignità, gli stessi diritti e quindi è questa convivialità che bisogna instaurare. Naturalmente con amore e seguendo le regole.  


 

* Radio Vaticana, 9 ottobre 2008.

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INTERVISTA DI RADIO VATICANA ALL’ARCIVESCOVO AGOSTINO MARCHETTO, A WASHINGTON PER IL CONGRESSO NAZIONALE SULLE MIGRAZIONI 

 

Sono qui a Washington, su invito della Commissione per la pastorale delle Migrazioni di questa Conferenza Episcopale, e sto partecipando alla quinquennale Conferenza Nazionale sulle Migrazioni.

È organizzata concretamente dai Servizi Migrazione e Rifugiati dell’Episcopato americano e dal Network legale cattolico dell’Immigrazioni (Clirnic è detto) in collaborazione anche con la Caritas USA e il Catholic Relief Services.

Il tema è “rinnovando la speranza cercando la giustizia”. Dunque speranza e giustizia stanno al centro dei dibattiti molto intensi dei partecipanti. Alla inaugurazione ha partecipato anche il Cardinale Mahony con un grande, realistico e profondo discorso, presenti anche i Cardinali Egan e McCarrick, con altri Vescovi, fra cui i Monss. Wester e Sato, direttamente Responsabili Vescovili delle due Istituzioni organizzatrici.

Nella serata d’apertura ho letto il messaggio di S.Em. il Cardinale Renato Raffaele Martino, Presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, impossibilitato a intervenire. Vi si auspica, fra l’altro, una generosa ricezione della nostra Istruzione Erga migrantes caritas Christi, in prospettiva di una visione equilibrata del fenomeno strutturale delle migrazioni, con legame allo sviluppo e ai diritti umani.

Quest’ultimo punto ho avuto modo di riprendere pubblicamente, intervenendo dopo il discorso della Signora Julie Myers, Assistant Secretary for Immigration and Customs Enforcement (ICE), rammaricandomi che gli USA, con il Canada, siano stati i due unici Paesi, all’ONU, recentemente, che si sono opposti, invano, all’inclusione del tema “diritti umani” accanto al binomio “Migrazione e sviluppo” che sarà trattato a Manila in Ottobre nel corrispondente Forum Mondiale.

Finora di particolare interesse è stato pure il Discorso di stamane dell’On. Christopher Smith in materia di rifugiati, di richiedenti asilo, di soggetti al traffico di esseri umani, ecc., dichiarando egli che gli Stati Uniti devono fare di più per queste categorie di persone. Fra l’altro si è parlato anche dei rifugiati iracheni.

Fra poco i partecipanti alla Conferenza, circa 600, “invaderanno” il Capital Hill per incontrarsi con i parlamentari dei rispettivi Stati e fare opera di “advocacy” (sostegno) in favore di una futura “comprehensive” (onnicomprensiva) legislazione a favore dei migranti, che tutti auspicano prossima.

In effetti, ed è questo il punto dolente della Conferenza, la attuale situazione dei migranti irregolari negli USA è pesante, con gravi conseguenze soprattutto per donne e bambini, per le famiglie, insomma, con moltissimi detenuti, e in situazione che definirei non umanamente sostenibile, con difficoltà anche di assistenza religiosa, per esempio.

In questo campo sono rimasto particolarmente ben impressionato da come ci si sta qui organizzando per difendere i più poveri e i più deboli, anche se l’opinione pubblica, pure cattolica, non risulta particolarmente sensibilizzata. 

*          *           * 

Il Congresso nazionale sulle migrazioni 2008, che si chiude oggi a Washington, ha analizzato tra i vari aspetti anche la precaria situazione di tanti stranieri in cerca di migliori condizioni di vita. Durante l'incontro, organizzato dalla Conferenza episcopale degli Stati Uniti, si è sottolineato che spesso la realtà di chi affronta le insidie dell'emigrazione è costellata da grandi difficoltà, insidie che talvolta diventano drammi. Ma la ricchezza della fede può aiutare l’emigrante a superare la miseria, il disagio di aver abbandonato la propria terra? Risponde l’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio consiglio per i Migranti e gli Itineranti, raggiunto telefonicamente a Washington:

R. - Qualcuno ha detto che la fede è una marcia in più: io credo che, nelle situazioni particolarmente difficili, e delicate la fede aiuta molto ad affrontare queste difficoltà; se nei migranti c'è fede, anche passando attraverso questi tunnel oscuri, il Signore è con loro. Il Signore si identifica con lo straniero. Dobbiamo accoglierlo come accoglieremmo il Signore. Sicuramente la fede è una realtà che aiuta i migranti e fa sì che ci sia la speranza nel futuro, che ci sia un destino di carità, di amore.

D. - Perchè nel messaggio del cardinale Martino che lei ha letto, a Washington, si sottolinea che il fenomeno delle migrazioni rende ancora pin visibile il volto della Chiesa universale?

R. - Perchè quello che era lontano adesso diventa vicino. Dunque, c’è una nuova visibilità dell’universalità della Chiesa. Ma c’è anche una visibilità della famiglia umana universale. Oggi, in una città abbiamo rappresentato il mondo intero. 

D. - Secondo lei, è moralmente giustificabile che Paesi sviluppati, tra cui l’Italia ma anche gli Stati Uniti, adottino misure restrittive per contrastare l’emigrazione, fermare o rimpatriare chi per disperazione ha dovuto abbandonare la propria terra?

R. - Io credo che la Chiesa presenti dei principi. Il principio fondamentale è che le persone non debbano emigrare per sfuggire alla fame e al sottosviluppo. Il secondo principio è che c'è una libertà di migrare e questa libertà bisogna che sia tenuta in considerazione. Terzo punto: è vero anche che gli Stati hanno il diritto di regolare i flussi migratori, tenendo conto del bene comune del Paese in cui questi emigrati vanno. Però - io aggiungo sempre - questo bene comune di un Paese deve essere inserito in un contesto del bene comune universale. Oggi si pone una questione molto grave perché le situazioni in cui ci troviamo attualmente lasciano a desiderare per quanto riguarda una visione del bene comune universale. 

D. - Anche perchè c’è il rischio poi che la necessità di garantire la sicurezza indebolisca quelle iniziative orientate verso l’accoglienza, come se l’accoglienza fosse secondaria rispetto alla sicurezza...

R. - Credo che sia il ministero difficile della Chiesa valutare l’equilibrio tra accoglienza e sicurezza: se c’è una tendenza esagerata verso la sicurezza, la Chiesa deve ricordare l'importanza dell'accoglienza. E viceversa, se questa tendenza è esageratamente spostata verso l’accoglienza, si deve sollecitare una maggiore attenzione alla sicurezza dei cittadini.

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INTERVISTA DELL’ARCIVESCOVO AGOSTINO MARCHETTO SU TRISTI FATTI DI VIOLENZA*

 

Apprendo con grande pena la notizia di un altro pestaggio di uno straniero che per me è fratello. E cresce nel mienismo la preoccupazione per il ripetersi di questi episodi di violenza verso chi è legato al mondo dei migranti, verso i quali la Chiesa ha una sollecitudine particolare, una pastorale specifica, istituzionalizzata più di 50 anni fa da Pio XII con la Costituzione Apostolica “Exsul Famiglia”. Fu un’intenzione profetica che trova realizzazione dilatata a causa della globalizzazione. Questi episodi ci devono far riflettere, oltre che invitarci nel nostro piccolo o grande impegno, a vincere il male con il bene, come non si stancò mai di ripetere Giovanni Paolo II, a cui fa spesso eco anche Papa Benedetto.

A proposito di Papa Wojtyla, ricordo che il suo Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato del 2003 era proprio un invito accorato a vincere la xenofobia, il razzismo e il nazionalismo esacerbato.  

Pure soltanto qualche domenica fa all’Angelus Papa Benedetto affrontava la questione del razzismo. Sono inviti che vorrebbero giungere al cuore di ciascuno. La violenza, il disprezzo verso chi è diverso da noi, ma sta presso di noi non è conforme alla natura umana che tutti ci accomuna, non è in linea con la dignità di ogni uomo e donna, e certamente non è cristiana.

Tutti dunque, ciascuno nel suo campo, suo piccolo o grande mondo dobbiamo perciò seminare fratellanza e rispetto nella legalità.

Certo che anche il linguaggio oggi è così contundente spesso offensivo nei confronti degli altri; l’uso delle parole è così sboccato, le ingiurie sono così frequenti che molti sono naturalmente portati all’azione brutta, cattiva. Non offendiamo, non feriamo, non uccidiamo, rispettiamoci, invece, gli uni gli altri. Risvegliamo perciò le coscienze, impegniamoci nelle scuole, sui mezzi di comunicazione sociale nell’arena politica e nei vari ambienti a sostenere la dignità di ciascuno. E anche le Chiese, le comunità delle varie religioni apportino il loro contributo per spegnere ogni focolare di xenofobia e razzismo.


 

* Cfr. Corsera, 2 ottobre 2008.

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Intervista di radio vaticana

ALL’ARCIVESCOVO Agostino Marchetto:

risolvere l'emergenza di milioni di immigrati senza documenti e senza diritti
(24 novembre 2008)

 

Di fronte agli oltre 200 milioni di migranti, sfollati e rifugiati, la Santa Sede esorta ad instaurare una cultura della solidarietà che rispetti i bisogni materiali e spirituali e, soprattutto, la dignità umana di queste persone. Un’esortazione, questa, ribadita durante il seminario sulle migrazioni, promosso a Liverpool dal Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (Ccee) e dal Congresso delle Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar (Secam). L’incontro, conclusosi ieri, è stato organizzato nell’ambito di una serie di incontri volti a “promuovere la collaborazione tra le Chiese dei due Continenti”. Si tratta di una cooperazione importante, come spiega al microfono di Linda Bordoni, del programma inglese della nostra emittente, l’arcivescovo Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti. 

R. – È una grazia che si sia cominciato un dialogo tra questi due Continenti, anche per quanto riguarda la Chiesa. Questo è un segno della collegialità episcopale, intesa in senso largo, naturalmente, su due punti fondamentali: comunione e solidarietà. Questi certamente sono il nostro pane quotidiano: la Chiesa come comunione e la Chiesa con questa solidarietà. Naturalmente, il fatto che si sia deciso di mettere a fuoco questo tema della mobilità umana è anche un conforto ed una consolazione per noi del Pontificio Consiglio della Pastorale dei Migranti, che siamo impegnati in questo campo vivamente.  

D. – Come interpretare oggi il fenomeno della mobilità umana?
 

R. – La mobilità umana è uno dei segni dei tempi e la Chiesa vuole avere una pastorale specifica per queste persone che sono in movimento. Credo che questa sia la grande intuizione di Pio XII nel documento ‘Exsul familia’, che raccoglie tutto quello che era stato già fatto nei primi 50 anni del secolo scorso.

 
D. – Una grande emergenza è quella delle persone senza documenti e, quindi, senza diritti. Emergenza da risolvere...


 R. – Sì, pensiamo agli apatridi, per esempio: sono più di cinque milioni nel mondo e ci sono tanti bambini. Questo significa non aver nessun diritto, praticamente. Significa non poter – in fondo – andare a scuola. Vuol dire non avere assistenza medica oltre ad altre varie conseguenze.
 
D. - Parlando come segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, si può incidere, oltre che con iniziative pastorali, anche nelle decisioni politiche di singoli Stati?


R. – Io credo che le mie dichiarazioni negli ultimi tempi certamente abbiano seguito linee pastorali. Però avevano un desiderio – umilmente – di incidere in quelle che sono le politiche degli Stati, addirittura dell’Unione Europea. Quindi credo che si dimostri che la nostra preoccupazione certamente è pastorale. Ma è bene inserita nella pasta del quotidiano svolgersi della vita di questi nostri fratelli e di queste nostre sorelle in particolare necessità.


D. – In un mondo dilaniato da profonde sofferenze si può aver fiducia nel futuro?

 
R. – Se noi cristiani non abbiamo fiducia e speranza, chi potrà avere fiducia e speranza? Quindi io ho fiducia e ho speranza perché credo che, con tutte le cattiverie che noi uomini abbiamo, c’è anche questa impronta di Dio che è nell’animo di ciascun uomo nonostante i limiti e, a volte, le visioni e le mancanze di visione per quanto riguarda questo strutturale fenomeno della migrazione. Alcuni non devono farsi illusione del fatto che possa essere un fenomeno transitorio. Quindi anche noi dobbiamo considerare che questo tema – non dico “problema” – sarà con noi: dico “tema” e non “problema” perché già Giovanni Paolo II, ma ancora il Santo Padre Benedetto XVI, ha detto che non bisogna vedere solamente come un problema le migrazioni. Si deve vedere tale fenomeno anche come un dono con tutti gli aspetti positivi che questo può portare, vincendo naturalmente tutte le difficoltà. 

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INTERVISTA DELL’ARCIVESCOVO AGOSTINO MARCHETTO CON LA RIVISTA “VIDA NUEVA” 

 

Come si può evitare la mancanza di rispetto ai diritti dei migranti?

Il rispetto per gli altri, specialmente se stranieri, dipende soprattutto dalla convinzione che abbiamo circa la loro dignità.

Può essere una ragione laica e penso a quella fraternità, uguaglianza e libertà proclamata e spesso non realizzata dalla rivoluzione francese o alla sua versione liberale, ma non ideologicamente intesa come in Europa, statunitense. Si è poi arrivati, passando di tragedia in tragedia, nel secolo scorso, alla dichiarazione dei diritti dell'uomo. Almeno i principi di riferimento ci sono, sul cui "consensus", ebbe certamente influsso il dramma dell'ultima grande guerra. Ora, credo, sarebbe difficile conseguire un tale accordo. Sto parlando dal punto di vista laico, ma non dimentico quanto su di esso ebbe a influire l'"humus" cristiano, l'umanesimo integrale cristiano.

In ogni caso, per chi è credente, non c'è dubbio che la motivazione per il rispetto cresce, se si pensa che tutti siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio, se crediamo che l'altro è mio fratello/sorella nella fede, che Gesù Cristo alla sera della nostra vita ci giudicherà sulla carità (dar da mangiare, da bere, vestire gli ignudi, accogliere gli altri). Ciò va oltre il rispetto perchè giunge all'amore del prossimo, dello straniero. In lui è presente Cristo. 

Qual’è la sua diagnosi sulla situazione dei migranti in Europa?

Con il recente Patto fra gli Stati membri della UE, vi è  un retrocedere di quella che chiamerei la "questione migratoria". C'è cioè una criminalizzazione del migrante irregolare (così io lo chiamo, e non clandestino illegale), si è approvata la famosa opzione per una migrazione "scelta", che cristiana non è, risulta evidente un ribasso nell'applicazione delle norme internazionali circa i rifugiati  (pensiamo al respingimento, "refoulement", causato dal FRONTEX), sono evidenti le difficoltà per la riunione delle famiglie di migranti e rifugiati (e si pensi invece all'attenzione cattolica a esse).

Ricordo altresì la preferenza per la migrazione circolare (e le difficoltà che vi sono legate per l'integrazione), ecc., ecc.

Fortunatamente qualche buona notizia, nei giorni passati, ci è venuta da Bruxelles, durante l'ultima riunione del Parlamento europeo, pur se in relazione alla proposta di Direttiva del Consiglio relativa agli immigrati altamente qualificati. Si fa cioè attenzione al ricongiungimento familiare, in tali circostanze, e al pericolo dell'esodo dei cervelli (brain drain) nel settore sanitario e dell'istruzione. Vi si afferma il principio di parità di trattamento dei migranti regolari con i cittadini europei, riconoscendo loro una piattaforma di diritti socioeconomici. Si deve tuttavia notare che il testo non copre i lavoratori stagionali, che saranno obiettivo di una direttiva specifica nel marzo 2009. Inoltre i deputati non hanno adottato un emendamento che avrebbe permesso agli Stati membri di esigere dal migrante la prova di una conoscenza adeguata della lingua per concedere accesso all'istruzione o alla formazione.

I deputati infine hanno invitato gli Stati membri a ratificare la Convenzione delle Nazioni Unite sulla tutela dei diritti dei lavoratori migranti e dei loro familiari.

Concludo peraltro con un giudizio abbastanza negativo sulla situazione in genere dei migranti in Europa, specialmente se penso agli irregolari, che sono milioni e che in qualche paese si giunge a chiedere ai medici di denunciare tale irregolarità. 

Cosa è più difficile per integrarsi in un nuovo paese: avere una cultura o una religione diversa?
Prima di risponderLe affermo che integrazione non significa assimilazione. Voglio dire che a chiedere all'immigrato - come si è scritto nell' "Istruzione" Erga migrantes caritas Christi del nostro Pontificio Consiglio della Pastorale per i migranti e gli itineranti  - di giungere ad amare il Paese di accoglienza fino a difenderlo, oltre a rispettare la sua identità propria, culturale e religiosa, non si ritiene che l'immigrato debba perdere la propria identità culturale e religiosa.
Come vede metto insieme cultura e religione, poiché quest'ultima è anche un elemento culturale.

Qui vi è necessità del dialogo interculturale e anche interreligioso. L'integrazione non riguarda, cioè, solo una parte di chi dialoga e inoltre  mi oriento non in direzione del multiculturalismo che in fondo porta a crescite separate, al ghetto o all'apartheid culturale. Quando dico questo sono pur cosciente delle difficoltà dell'integrazione, ma al tempo stesso, essa è la grande propedeutica per il convivere mondiale, per la realizzazione della pace tra i popoli che devono formare una sola famiglia, quella dell'intera umanità.

La nostra citata Istruzione confermata da Papa Benedetto, attesta che le migrazioni non sono solo un problema ma un segno dei tempi, un'occasione di nuova umanità poiché ci porta vicino coloro che stavano lontano e ce li fa conoscere nell'aiuto che ci danno, mentre noi aiutiamo loro. Lavorare insieme, essere nelle case come badanti, è una grande occasione di pace.  

Cosa può fare la Chiesa per aiutare alla integrazione dei migranti?

La Chiesa, questa magnifica Chiesa impegnata a favore dei migranti (pensiamo alla Exsul familia di Pio XII, per esempio, e al movimento pastorale che ha confermato e creato in aspetti nuovi), è fattore di integrazione. Mi riferisco al ruolo che essa ha nell'accoglienza come prima assistenza, per esempio con le Caritas e le altre generose ed efficaci Organizzazioni di carità, e poi nell'accoglienza successiva accompagnando il migrante con la cultura dell'accoglienza, come diceva Giovanni Paolo II.

In questo contesto, possiamo vedere la funzione della pastorale, di quella specifica della mobilità umana. Per la prima volta, nei relativi documenti ecclesiali, la nostra Istruzione "La carità di Cristo verso i migranti,  ne fa una categorizzazione dando orientamenti per la pastorale di ciascun gruppo, voglio dire cattolici di rito latino, delle Chiese orientali cattoliche, cristiani di altre Chiese e Comunità ecclesiali, credenti di diverse religioni, con attenzione "nominatim" ai musulmani.
"Pastorale anche con essi?", mi chiederà. Sì, perchè la Pastorale di cui parliamo non è intesa in senso stretto ed è considerata verso di loro, per esempio, come un aiuto rispettoso a che conservino l'apertura al Trascendente in una società, la nostra, sempre più secolarizzata e senza Dio. La preghiera è espressione di questa apertura. In tale prospettiva si può capire il mio appello, in Italia, affinché non si accetti la proposta (di un  Partito) di una moratoria nella costruzione di moschee. La libertà di culto va rispettata, anche se i nostri fratelli musulmani nelle loro costruzioni devono considerare l'ambiente (e la popolazione) in cui si integrano. E qui vale l'umiltà anche per essi, come per noi in terra d' Islam.


Secondo Sua Eccellenza, perchè l’Europa è sempre più aggressiva con i migranti?

Credo sia anzitutto questione di numeri, di percentuale di presenza non autoctona in un certo territorio. Più gli immigrati crescono, più le persone possono avere l'impressione di una certa  invasione, quasi di un soffocamento, di restare con meno libertà, di essere meno "padroni" in casa propria. E poi è questione di concorrenza per il lavoro, per la casa, ecc.

Vi sono inoltre Partiti politici che specialmente per calcoli elettorali, cavalcano questi sentimenti e paure. Anche l'aumento dell'irregolarità è fattore di preoccupazione per possibili violenze e mancanza di sicurezza. Da considerare altresì è l'esistenza di flussi migratori misti (di migranti economici e richiedenti asilo), del traffico di esseri umani  (le nuove schiavitù) in crescita, ecc. ecc. Aumenta di conseguenza la xenofobia, forse anche il razzismo o il nazionalismo esacerbato. Dunque si vede che l'aggressività, come Lei dice, ha una base molto vasta.  

La famiglia è uno dei pilastri della integrazione. Come gli Stati devono agire con le famiglie?

Lei ha ragione: la famiglia è uno dei pilastri dell'integrazione e di una convivenza più facilmente pacifica, aggiungerei.

Per questo non capisco perchè, puntando tutti piuttosto sulla sicurezza, nel binomio inscindibile sicurezza-accoglienza, si faccia poi una politica che non facilita, anzi ostacola, il ricongiungimento familiare.
E' uno dei punti, poi, in cui la Chiesa cattolica è più sensibile. Le famiglie separate, divise dalla migrazione, più facilmente si rompono, si sciolgono e tutti comprendiamo cosa questo significhi per i componenti della famiglia, specialmente i figlioli.

E' comunque importante che la Convenzione, a cui sopra facevo menzione, si riferisca a tutti i lavoratori migranti e ai membri delle loro famiglie.


I giovani sono anche un altro di questi pilastri. Come si può lavorare con loro per aiutare alla integrazione?

I giovani costituiscono un'opzione pastorale prioritaria e la priorità vale non solo per la Chiesa.  Pure lo Stato dovrà a essi dedicare attenta cura: sono la nostra speranza, anche per quanto riguarda l'integrazione. Ho affrontato recentemente questo tema in due conferenze pronunciate a Bruxelles, il 14 ottobre scorso, dal titolo "L'integrazione dei giovani con radici migratorie: motivazioni cristiane e contributo delle Chiese" e "Integrazione degli adoloscenti con radici migratorie nella società europea". Secondo stime ufficiali, un terzo dei migranti su scala mondiale ha un'età media compresa tra i 15 e i 25 anni. A essi si aggiungono ragazzi e ragazze, figli di emigrati di prima generazione, nati in contesto migratorio. Dunque è un mondo giovanile di vaste proporzioni che affronta le sfide dell'integrazione, con problematiche particolari, specifiche e necessità di interventi, anch'essi tipici e determinati, dove c'è spazio pure per il contributo delle Chiese motivato da valori cristiani.

Per lavorare con i giovani, diciamo di seconda generazione appartenenti a minoranze etniche, si dovrà innanzitutto tener presente che si tratta di un gruppo soggetto a un forte rischio di doppia appartenenza e marginalizzazione, sia in quanto giovani che si trovano a sperimentare, al pari dei loro coetanei autoctoni, i problemi e le difficoltà legate allo studio e al primo accesso al mondo del lavoro, sia in quanto membri di minoranze più o meno escluse o stigmatizzate.
A questo punto direi che oltre alle risposte spirituali, le istituzioni religiose hanno solitamente fornito ai migranti anche aiuti materiali e poi risorse sociali, fungendo da catalizzatori e, non di rado, da promotori di reti di relazioni basate sulla duplice appartenenza confessionale ed etnica.

Il ruolo della Chiesa è stato perciò, ed è tuttora rilevante, su un duplice versante: quello della salvaguardia dell'identità culturale e quello dell'integrazione nel nuovo contesto. Anziché opporsi - come si potrebbe pensare di primo acchito - i due aspetti si intrecciano: molti giovani immigrati di fatto diventano cittadini di una nuova patria  in cui hanno scelto di riporre le speranze di una vita migliore, proprio grazie alle risorse che l'adesione religiosa ha dato loro.
In effetti, in diversi Paesi, le seconde generazioni hanno dato vita a numerose associazioni impegnate non solo in ambito strettamente religioso ma anche in campo sociale, politico ed educativo, occupandosi di famiglie in difficoltà, gestendo librerie, giornali e case editrici, proponendo attività sportive e animando il tempo libero. Così si costruiscono ponti di intesa, di scambio e reciproco arricchimento.
Qui debbo fermarmi poiché la mia risposta è già abbastanza lunga, ribadendo comunque l'impegno  di formazione scolastica, professionale e lavorativo. 

Sua Eccellenza parla di “nuovi modelli” d’integrazione. Può spiegare cosa sono questi modelli?

Dico anzitutto che non si dovrà pensare al modello dell'assimilazione o a quello del multiculturalismo.

Mi spiego, ricordando un passo del mio discorso a Bruxelles sopra citato, a proposito degli adolescenti con radici migratorie e, ricordo, che qualcuno  attesta che c'è un eterno adolescente in ciascuno di noi.
Dissi: "Una saggia politica modula i suoi interventi sull'accoglienza dell'adolescenza così com'è. L'adolescente è venuto in Europa, in molti casi, come membro della sua famiglia”.

Scuola e associazioni giovanili dovranno  favorire la sua maturazione umana nella salvaguardia della sua cultura di origine. Sarà un buon cittadino europeo - ecco il modello -  quando, e nella misura in cui, sarà stato favorito lo sviluppo della sua personalità. Si dovrà comunque sostenere la sua partecipazione alla scuola di tutti, scuola per tutti, scuola di valutazione delle risorse personali, con misericordia.
Uno dei grandi padri dell'utopia pedagogica, Jean - Jacques Rousseau, nel suo "Discorso sull'origine dell'ineguaglianza" già individuava nell'ignoranza delle culture una delle ragioni di possibili conflitti: "Tutta la terra è coperta di Nazioni di cui non conosciamo che il nome e noi pretendiamo di giudicare il genere umano". Forse oggi conosciamo di più, grazie anche all'emigrazione, ma l'affermazione rimane vera e da ciò anche le nostre paure, le paure dell'immigrazione.
C. Levi Strauss, commentando Rousseau, richiama il concetto di libertà, sottraendolo all'astrattismo ed enumerandone i contenuti concreti: la libertà è fatta di equilibri tra piccole appartenenze, solidarietà minute. Vogliamo noi entrare in queste realtà così delicate come elefanti in una cristalleria?  Certo, la politica europea dovrà rendersi appetibile e sostenibile da parte degli immigrati. Una politica per la famiglia immigrata, e per gli adolescenti che vivono in essa, dovrà più offrire che chiedere. 

L'adolescente costerà allo Stato. Ma se lo consideriamo una risorsa, dovrà essere valorizzato nel suo essere, nella sua cultura, ricordando noi che la risorsa dell'adolescente non sta immediatamente nell'economia  o nel suo contributo lavorativo.

In questa prospettiva la Chiesa non rivendica il posto tenuto dallo Stato, essa non vuole sostituirlo e quindi una sana collaborazione fra la Comunità politica e la Chiesa è possibile, non è infringimento della giusta laicità, ed è un servizio reso all'uomo, anche alla gioventù, alla "generazione della sofferenza" com' è chiamata la seconda generazione di immigrati.

Essa è quasi "straniera a casa propria" (si lamenta più d'uno), da non considerarsi "immigrato a vita", aggiunge qualche altro, o "generazione sospesa", magari con sola "identità di reazione".
 Non tutto deve rimanere molto complicato per i figli di immigrati in Europa ! Per questo fine dobbiamo unire i nostri sforzi.


È l’universalitá della Chiesa un modello per l’integrazione?

La Chiesa cattolica, anche per chi non crede, è Istituzione locale e al tempo stesso universale.

Per il fedele vi è una Chiesa particolare di cui egli è membro, mentre anche è inserito nella Chiesa universale (vedasi la famosa espressione conciliare "in quibus" e "ex quibus" nella relazione Chiese particolari e Chiesa universale).

Orbene, grazie alla profetica intuizione di Papa Pio XII (nella Costituzione "Exsul Familia"), l'immigrato diventa membro della Chiesa di accoglienza, di cui è responsabile il vescovo. Ma è previsto un processo di integrazione con la messa in opera di una pastorale specifica della mobilità umana. La Chiesa d'origine dovrebbe perciò aiutare in questo processo di integrazione nella Chiesa locale, durante la prima e seconda generazione di immigrati, con la presenza di agenti pastorali della stessa lingua, cultura e, direi, religiosità popolare dell'immigrato. Essi dovrebbero essere un ponte anche fra l'immigrato e la società di accoglienza, oltre che con la Chiesa locale. È in fondo una presenza della Chiesa universale nella territorialità, espressa dalla Chiesa di provenienza, un aiuto anche alla località a essere e sentirsi più cattolica, più universale, in festa di Popoli.
Il modello, se vogliamo vedere tutto questo alla luce della Sua domanda, è quello della progressione, della gradualità nel processo di integrazione, che è cammino, credo, anche per lo Stato.

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Sulla Giornata mondiale dei rifugiati la riflessione dell'Arcivescovo Agostino Marchetto intervistato da

Radio Vaticana*


Oltre alla celebrazione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato nella Chiesa cattolica, il prossimo anno, il 18 gennaio, vi è anche quella della famiglia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati, il 20 giugno. Noi pure in questa data ci uniamo al ricordo dei rifugiati, dei richiedenti asilo, dei profughi, di chi è oggetto o soggetto del traffico degli esseri umani, un fenomeno di schiavitù moderna, purtroppo, in grande espansione. Le ultime cifre, fornite dalle Nazioni Unite a questo riguardo sono preoccupanti. In effetti, in soli due anni, parlando di rifugiati, sotto l’ala protettrice dell’Alto Commissariato, il numero è passato da 9,9 a 11,4 milioni. Quello degli sfollati, poi, raggiunge i 26 milioni, di cui la metà è in Africa. A questo proposito, è recente il nostro primo Congresso di delegati di Conferenze episcopali di quel continente, che si occupano della pastorale dei migranti, che ha pubblicato il cosiddetto appello di Nairobi, che è un toccante messaggio di invito, specialmente all’Europa, a globalizzare la solidarietà, e la prima espressione della solidarietà con i rifugiati è la protezione. Che questo sia il tema di riflessione affidato quest’anno alla nostra considerazione dalle Nazioni Unite è significativo, mi pare, poiché ci richiama il bisogno fondamentale di chi è perseguitato. La prima radice della legislazione internazionale, seppur ben rodata, è oggi messa in crisi da sue interpretazioni a ribasso. Chiedevo recentemente ai rappresentanti d’Europa un supplemento di anima, un colpo di reni, per un non scendere ai livelli di protezione non più compatibili con il suo umanesimo, con il suo essere portabandiera nel mondo di un umanesimo che alla fine per noi è evangelico. Proteggere è un atto dovuto a chi è perseguitato e ha il diritto di essere protetto. Assumiamolo anche oggi, pure in epoca non facile di flussi migratori misti.


 

* Radio Vaticana – Radiogiornale, 20 giugno 2008.

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INTERVIEW DE MGR AGOSTINO MARCHETTO

À «La Croix*» (France)

 

Celui qui, est chargé à Rome, de suivre le dossier des migrations souligne les dangers du projet de directive européenne 

L’Église catholique est-elle au fond hostile à la volonté européenne de réguler les flux migratoires?

Mgr Agostino Marchetto: Vous connaissez la complexité des mots «Église catholique»! Le Conseil pontifical «pour la pastorale des migrants et des personnes en déplacement» s’occupe de la pastorale de la mobilité humaine et, pour éviter toute confusion, je réponds ici à titre personnel. Je ne pense pas que nous soyons hostiles à la volonté européenne de réguler les flux migratoires, mais pas au prix d’une orientation à la baisse sur la question des droits de l’homme. Nous avons une attention particulière pour les réfugiés, les demandeurs d’asile, les mineurs, les regroupements familiaux, l’assistance religieuse dans les «camps»Â…

Qu’est-ce qui vous apparaît non négociable dans ces directives?

Je respecte profondément la responsabilité terrible des politiques dans leur choix difficile de combiner accueil et sécurité, ou, par exemple, la grandeur de l’esprit humanitaire et de compassion avec un réalisme talonné par l’opinion publique…

Je considère favorablement l’engagement du Parlement et du Conseil européens d’améliorer le texte de la directive sur la question des mineurs, de la réduction des périodes de détention, de la réduction du bannissement de cinq ans et pour une aide juridique gratuite obligatoire pour les immigrés irréguliers et pour l’attention aux réfugiés…

Je maintiens toutefois l’avis que j’ai déjà exprimé sur Radio Vatican, où je partage l’opinion de la minorité, à Bruxelles, à savoir que les citoyens des pays tiers, tout comme les citoyens communautaires, ne devraient pas être privés de la liberté personnelle, ou sujets de peines de détention, à cause d’infractions de type administratif. Je rappelle aussi que nous parlons de «migrants irréguliers» et non de «clandestins».  

Comment les Églises d’Afrique des pays sources d’immigration réagissent-elles à ces directives?

Nous venons de conclure, à Nairobi, le premier congrès des délégués des conférences épiscopales d’Afrique chargés de la pastorale des migrants, réfugiés, exilés et sujets au trafic d’êtres humains. Je me réfère donc aux conclusions et aux recommandations de «l’appel de Nairobi» (voir le texte).

Est-ce que cette évolution européenne vous surprend?

Non, parce qu’il y a depuis quelque temps un nivellement par le bas de la tendance commune. Je comprends que les flux migratoires actuels créent de plus grandes difficultés, mais je note avec beaucoup de tristesse un affaiblissement des valeurs qui, après la Seconde Guerre mondiale, avaient conduit à la rédaction de la Charte des droits authentiques de l’homme.

Un supplément d’âme est donc nécessaire, y compris pour l’Union européenne. Un coup de rein pour dépasser la limite sous laquelle il n’y a plus d’humanisme…

Si l’on ne réussit pas, se confirmerait notre préoccupation pour l’avenir: si l’Europe perd son rôle de porte-drapeau des droits humains authentique, avec des applications à l’intérieur même de l’Europe, qu’est-ce qui lui restera dans le contexte des grandes puissances existantes ou émergentes? Le produit intérieur brut pourra-t-il suffire? Nous ne devons à aucun prix criminaliser les migrants pour le seul fait qu’ils sont des migrants.
     recueilli par Jean-Marie GUENOIS


L'appel de Nairobi

Du 2 au 5 juin 2008 s'est tenu à Nairobi (Kenya) le premier congrès des conférences épiscopales africaines, qui s'est conclu par «l'appel de Nairobi». En voici les principaux extraits : «Au vu des énormes souffrances que comporte le drame de la migration, l’Église Famille de Dieu doit redoubler d’efforts et d’“imagination de la charité” dans le domaine de la pastorale spécifique de la mobilité humaine. Chaque Église particulière se doit de faire sienne cette préoccupation.

 Nous nous tournons vers les dirigeants politiques et les décideurs économiques, tant nationaux qu’internationaux. Nous leur demandons de veiller constamment au bien commun national et universel, ainsi qu’à la justice sociale. N’est-ce pas l’existence des peuples qui leur confère à eux-mêmes leur raison d’être?

C’est pourquoi il est indispensable qu’ils recherchent les meilleures voies de stabilisation des relations socio-économiques des nations, pour ainsi permettre à chaque personne humaine de se réaliser dans son propre pays, sans être contrainte à la migration. Mais puisque pour toute personne il existe un droit à l’émigration, sous certaines conditions, nous demandons qu’un accueil humain soit assuré à chacun.

Nous en appelons avec confiance à la communauté internationale. Elle se doit en toute urgence d’apporter son aide pour l’amélioration, dans les meilleurs délais, des conditions de vie économique qui aujourd’hui poussent des millions de gens à se mettre en route, en quête du bien-être.»

 

 * Mercredi 18 Juin 2008.

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Vatican Radio One-O-Five Live

Intervista con l’Arcivescovo Agostino Marchetto Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti* 

D.  Quanto si è sviluppata negli ultimi anni la pastorale dei migranti, dei rifugiati e degli sfollati in Asia?

R. Sollecitudine, cura e servizio ai migranti, rifugiati e profughi interni sono stati particolarmente nel cuore della Chiesa in Asia fin dagli anni 80 e anche prima in alcuni paesi. Ad esempio, già nel 1955, il Comitato sull’Emigrazione della Chiesa nelle Filippine ha espresso la propria preoccupazione ai Vescovi, in merito alla situazione dei loro cittadini che vivevano in USA, Hawaii e Guam.

Verso la fine degli anni 70, ci fu il fenomeno dei “boat people”, che fuggivano dal Vietnam e di altri rifugiati che lasciavano il Laos e la Kampuchea. Furono accolti, per la maggior parte, dalla Tailandia e da altri paesi asiatici viciniori. I Vescovi asiatici fecero un appello a favore dei rifugiati durante la loro III Assemblea Plenaria, tenuta proprio a Bangkok, nel mese di ottobre del 1982.

Sempre in quell’anno, l’Istituto per l’Apostolato Missionario della III Assemblea dei Vescovi asiatici fece pure un appello per la cura missionaria degli emigrati per motivi economici. In seguito, nel 1993, l’Ufficio per lo Sviluppo Umano della FABC organizzò un simposio sui lavoratori migranti delle Filippine in Asia, mentre nel gennaio del 1995 la VI Assemblea Plenaria della FABC dichiarava doversi dare un’attenzione speciale ai rifugiati fuggiti per motivi politici ed ecologici, e ai lavoratori migranti. Nel 1998, il I Sinodo dei Vescovi per l’Asia identificò in modo particolare migranti e rifugiati quali beneficiari della missione della Chiesa.

Quindi, nel gennaio 2000, la successiva Assemblea Plenaria della FABC dedicò un intero “workshop” all’approfondimento dell’amore e del servizio dei migranti, rifugiati e profughi interni, mentre l’VIII Plenaria, tenuta a Daejong, Corea, nel 2004, espresse la propria preoccupazione per le famiglie dei migranti e rifugiati. Essa si è rinnovata l’anno scorso in una Conferenza organizzata dall’Ufficio dello Sviluppo Umano della FABC a cui partecipai io stesso.

Dietro tali dichiarazioni vi è il costante sforzo di cappellani ed operatori pastorali che lavorano tra migranti, rifugiati e profughi allo scopo di rispondere ai loro bisogni spirituali e materiali, e anche di operare per la loro promozione umana. Vi è anche una stretta collaborazione tra le Chiese asiatiche di origine e di destinazione, altresì non in Asia, per assicurare a queste persone protezione e sostegno, ma pure per aiutarle a raggiungere la possibilità di essere protagonisti di evangelizzazione.

D. Quali sono oggi gli aspetti problematici di questa pastorale per la Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche?           

R.  Questa area pastorale si trova a dover affrontare molte sfide. Vorrei menzionarne alcune.

Prima di tutto bisogna salvaguardare la dignità umana di migranti, rifugiati e profughi interni e far rispettare i loro diritti umani e lavorativi. Ciò include la previdenza sociale e l’assistenza medica per i lavoratori migranti, l’opportunità di impegnarsi in attività economiche proficue, al fine di offrire ai richiedenti asilo, rifugiati e anche profughi la possibilità di essere autosufficienti.

La questione della migrazione irregolare è pure legata a questo contesto. Quando ci sono flussi misti di rifugiati che sono effettivamente, per definizione, perseguitati e di persone che vi si aggiungono per altri motivi, generalmente meno drammatici, come possiamo determinare chi ha il diritto ad un’assistenza specifica? Quando le persone che abitano in campagna si spostano in città, anche oltre confine, spesso c’è di mezzo pure una migrazione senza documenti. Questa tendenza verso la città cresce sempre di più e sta portando ad un’urbanizzazione incontrollata, con i problemi che essa trae con sé.

Poi, vi è la femminizzazione della migrazione. Le donne stanno diventando sempre più migranti indipendenti e la principale fonte di guadagno delle proprie famiglie. In alcuni paesi asiatici, vi sono più donne che uomini migranti. Questo spesso significa che devono lasciare i propri figli e/o mariti nel luogo di origine. Le donne migranti sono più vulnerabili degli uomini nei paesi di accoglienza, soprattutto in quelli in cui i diritti delle donne non sono culturalmente riconosciuti.

La migrazione sia di uomini che di donne può facilmente avere come conseguenza famiglie fragili, infedeltà coniugali e dissoluzione di matrimoni.

L’integrazione – non l’assimilazione – è un’altra questione importante. Come possono essere aiutati i migranti, rifugiati e profughi interni ad integrarsi nei paesi di destino, nelle Chiese di accoglienza, in modo tale che possano dare il proprio contributo positivo alla società e alla Chiesa?

Potrei andare ancora avanti nel discorso, ma qui mi fermo. 

D. Quale impulso vi attendete dunque dall’incontro di Bangkok?

R. In primo luogo, speriamo di rendere consapevoli i migranti, rifugiati e profughi interni del fatto che hanno una dignità umana che nessuno può loro togliere, indipendentemente dal loro status economico o legale. Quindi i loro diritti umani, che includono quelli sociali, lavorativi ed economici, devono essere riconosciuti e salvaguardati. Speriamo di far capire sempre più ciò a tutti.

Questo significa incoraggiare i governi a ratificare, mettere in atto e addirittura creare ulteriori leggi nazionali che siano in conformità con la legislazione internazionale e le convenzioni che proteggono i migranti, i rifugiati e le loro famiglie. Bisognerà anche lavorare per la protezione dei profughi interni, che non hanno lasciato cioè il proprio paese.

Speriamo che l’incontro di Bangkok faccia capire a tutti gli attori coinvolti che migranti, rifugiati e profughi interni non devono essere considerati come entità separata dalle proprie famiglie.

Come afferma la nostra Istruzione Erga migrantes caritas Christi, la responsabilità per la cura di queste persone vulnerabili ricade sulla Chiesa locale di accoglienza. Quelle in Asia sono piuttosto attente a questo, ma speriamo che l’incontro di Bangkok sensibilizzi ancora di più i fedeli delle comunità ecclesiali. Ci auguriamo, altresì, che la collaborazione tra Chiese di origine e di destinazione, che già esiste, cresca e si sviluppi ulteriormente.

Speriamo soprattutto che da questo incontro nasca o si confermi la convinzione che in ogni migrante, rifugiato e profugo interno è presente Gesù Cristo. In ogni caso il Congresso sarà eminentemente pastorale.     

 

* Rilasciata in vista del Congresso Asiatico per la Pastorale dei Migranti e dei Rifugiati sul tema “Per una migliore Pastorale per i Migranti e Rifugiati in Asia all’Alba del Terzo Millennio”, Bangkok, Thailandia, 5-8 Novembre 2008.

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Vatican Radio One-O-Five Live

Interview avec l’Archevêque

Agostino Marchetto Secrétaire du Conseil Pontifical pour la Pastorale des Migrants et des Personnes en Déplacement* 

 

Q. Dans quelle mesure s’est développée la Pastorale des Migrants et des Personnes en Déplacement en Asie au fil des dernières années?

R. Intérêt, souci, et service aux migrants, réfugiés et PDI ont toujours été tenus à cœur par l’Église d'Asie à partir des années 1980, et même auparavant par certains pays en particulier. Par exemple, déjà en 1955, le Comité sur l’Émigration de l’Église des Philippines a exprimé sa préoccupation aux Évêques philippins au sujet de la situation des Philippins aux États-Unis, Hawaii et Guam.

À la fin des années 1970, il y a eu le phénomène des boat people qui s’échappaient du Vietnam et d’autres réfugiés qui quittaient le Laos et Kampuchea. Ils ont été accueillis surtout par la Thaïlande et d’autres pays voisins. Les Évêques asiatiques, à ce point-là, ont fait un appel au profit des réfugiés au cours de leur 3ème Assemblée Plénière, qui s’est tenue à Bangkok, au mois d’Octobre de 1982.

Aussi en 1982, l'Institut pour l'Apostolat Missionnaire de la 3ème Assemblée des Évêques asiatiques a lancé un appel au profit des Asiatiques émigrés de leur pays pour des raisons économiques. Plus tard, en 1993, le Bureau de la FABC pour le Développement Humain a organisé un colloque sur les travailleurs migrants philippins en Asie, et en Janvier 1995, la 6ème Assemblée plénière de la FABC a déclaré que les réfugiés politiques et écologiques et les travailleurs migrants doivent faire l’objet d’une attention spéciale. En 1998, le 1er Synode des Évêques pour l’Asie a identifié en particulier les migrants et les réfugiés en tant que bénéficiaires de la mission de l’Église.

En suite, en Janvier 2000, la 7ème Assemblée plénière de la FABC a totalement consacré un groupe d’étude au thème aimer et servir les migrants, les réfugiés et les PDI, tandis que la 8ème Assemblée plénière, tenue à Daejong en Corée en 2004, a exprimé sa préoccupation pour les familles des migrants et des réfugiés. Elle a été reprise l’année passé dans une Conférence du Bureau de la FABC pour le Développement Humain, en Malaisie, à laquelle j’ai participé. 

À la base de ces déclarations il y a l'effort continu des aumôniers et des agents pastoraux parmi les migrants, les réfugiés et les PDI pour répondre à leurs besoins spirituels et matériaux, mais aussi pour travailler en faveur de leur promotion humaine, en leur rappelant qu'ils sont fils de Dieu qui les aime. Il y a aussi une étroite collaboration entre les Églises asiatiques d’origine et les Églises de destination, qui ne se trouvent pas seulement en Asie, et qui ne veulent pas se limiter à assurer leur protection et soutien, mais aussi leur offrir la possibilité d'être agents évangélisateurs.  

Q. Pour la Fédération des Conférences épiscopales asiatiques, quels sont les aspects les plus difficiles de cette pastorale, aujourd'hui?

R. Cette pastorale se trouve à faire face à des nombreux défis. J’en voudrais mentionner quelques-uns.

Tout d’abord, la protection de la dignité humaine des migrants, réfugiés et PDI et des droits de l’homme et du travailleur. Cela comprend la sécurité sociale et l’assistance médicale pour les travailleurs migrants, l’opportunité de s’engager dans des activités économiques profitables pour aider les demandeurs d'asiles, les réfugiés et aussi les PDI à gagner leur vie.

La question de l'immigration irrégulière est aussi liée à ce contexte. Quand il y a des flux mixtes de réfugiés, qui sont effectivement persécutés par définition, et de personnes qui les joignent pour d’autres raisons, qui sont, en général, moins dramatiques, comment pouvons nous identifier ceux qui ont le droit à une réponse spécifique? Quand les gens vont vivre en ville de la campagne, aussi dans d’autres pays, cela cause facilement une migration de personnes sans papiers. Cette tendance se développe et mène à une urbanisation incontrôlée avec les problèmes que cela entraîne.

Et puis nous avons la féminisation des migrations. Les femmes deviennent des migrants de plus en plus indépendants qui sont le soutien principal de leur famille. Dans quelques pays asiatiques, les femmes migrantes sont plus nombreuses que les hommes. Cela souvent signifie qu’elles laissent leurs enfants et/ou époux seuls. Les femmes migrantes sont plus vulnérables dans les pays de destination, surtout dans ceux où les droits des femmes ne sont pas culturellement reconnus.

La migration soit des femmes que des hommes peut provoquer une fragilité des familles, l’infidélité entre les époux, et la dissolution des mariages.

L’intégration - pas l’assimilation - est une autre question importante. Comment peuvent les migrants, les réfugiés et les PDI être aidées à s'intégrer dans les pays et les églises de destination de façon à donner leur contribution positive à la société et à l’Eglise?

Je pourrais continuer, mais ça suffit. 

Q. Qu’est-ce que vous voulez obtenir avec votre rencontre à Bangkok?

R. Tout d’abord, nous espérons rendre conscients les migrants, les réfugiés et les PDI qu’ils ont une dignité humaine, peu importe leur condition économique et légale, que personne ne peut leur enlever. Par conséquent, leurs droits, qui comprennent les droits sociaux, au travail et économiques, doivent être reconnus et protégés. Nous espérons le faire comprendre à tout le monde.

Cela signifie encourager les gouvernements à ratifier, mettre en œuvre et même créer d’autres lois nationales en accord avec la législation internationale et les conventions qui protègent les migrants, les réfugiés et leurs familles, et aussi à travailler pour la protection légale des personnes en déplacement qui n’ont pas quitté leur pays.

Nous espérons que la rencontre de Bangkok fera comprendre aux personnes concernées que les migrants, les réfugiés et les PDI ne doivent pas être considérées de façon séparée de leurs familles.

Comme l’Instruction Erga migrantes caritas Christi l’affirme, c’est à l’Église locale d’accueil qui incombe la responsabilité pour la pastorale de ces personnes vulnérables. Les Églises locales en Asie sont plutôt attentives à ce problème, mais nous espérons que la rencontre de Bangkok servira à favoriser une prise de conscience de la part de tous les membres des communautés ecclésiales. Nous espérons aussi que la collaboration entre les Églises d’origine et de destination, qui est déjà en place, augmentera et se développera davantage.

Surtout, nous espérons que, grâce a cette rencontre, tous et chacun de nous prendra conscience et se rappellera que quand nous rencontrons un migrant, réfugié et PDI, nous avons devant nous Jésus Christ qui est présent dans cette personne-là. De toute façon le Congrès sera éminemment pastoral.

 

* En vue du Congrès Asiatique pour la Pastorale des Migrants et des Réfugiés sur le theme : « Pour une Meilleure Pastorale des Migrants et des Réfugiés en Asie, à l’Aube du Troisième Millénaire », Bangkok, Thaïlande 5 – 8 Novembre 2008.

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Vatican Radio One-O-Five Live

Interview with Archbishop Agostino Marchetto Secretary of the Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People*

 

Q.  To what extent has the pastoral care of migrants, refugees and IDPs developed in Asia during these last years?

A. Concern, care and service to migrants, refugees and IDPs have always been in the heart of the Church of Asia since the 1980’s, and even earlier in some specific countries. For example, already in 1955, the Philippine Church’s Committee on Emigration expressed concern to the Philippine Bishops regarding the situation of Filipinos in the USA, Hawaii and Guam.

During the later part of the 1970s, there was the phenomenon of the boat people who escaped from Vietnam, and other refugees fleeing from Laos and Kampuchea. They were received mostly by Thailand and other neighboring Asian countries. The Asian Bishops made an appeal in favor of refugees during their Third Plenary Assembly held in Bangkok, in October 1982.

Also in 1982, the Third Asian Bishops’ Institute for Missionary Apostolate appealed for missionary concern for Asians who have emigrated from their homelands for economic reasons. Later, in 1993, the FABC Office for Human Development organized a symposium on Filipino migrant workers in Asia, while in January 1995, the VI FABC Plenary Assembly declared that special attention must be given to political and ecological refugees and migrant workers. In 1998, the First Synod of Bishops for Asia particularly identified migrants and refugees as beneficiaries of the mission of the Church.

Then, in January 2000, the Seventh Plenary Assembly of the FABC dedicated a workshop entirely to love and service to migrants, refugees and IDPs, while the Eighth Plenary Assembly, held in Daejong, Korea, in 2004, expressed concern for migrant and refugee families. It was reiterated last year at a meeting of the Office for Human Development which I attended.

Behind these declarations is the constant effort of chaplains and pastoral agents among migrants, refugees and IDPs to respond to their spiritual and material needs, and also work for their human promotion by reminding them that they are children of God who cares for them. There is also a strong collaboration between the Asian Churches of origin and the receiving Churches, of course including those outside of Asia, not only to assure them protection and support but also to afford them the possibility of being agents of evangelization.  

Q. For the Federation of Asian Bishops Conferences, what are the challenging aspects of this pastoral care today?    

A. This pastoral area is facing quite a number of challenges. Let me just mention a few.

First and foremost is safeguarding the human dignity of migrants, refugees and IDPs and having their human and labor rights respected. This includes social security protection and medical aid for labor migrants, the opportunity to engage in economically gainful activities in order to be self-supporting for asylum seekers, refugees, and also IDPs.

Related to this context is the question of irregular migration. When there are mixed flows of refugees who are actually being persecuted by definition and people who join them for other reasons which are usually less tragic, how do we determine who have the right to a specific response? When rural folks move to cities, also across borders, this again often involves undocumented migration. This tendency is growing and is leading to uncontrolled urbanization with its related problems.

Then we have the feminization of migration. Women are increasingly becoming autonomous migrants and principal wage earners for their families. In some Asian countries, there are more women than men migrants. This often means leaving their children and/or spouse behind. Women migrants are more vulnerable in the host countries, especially in those where women’s rights are culturally not recognized.

Moreover, migration of both men and women can easily cause fragile families, marital infidelity and broken marriages.

Integration – not assimilation – is another important issue. How can migrants, refugees and IDPs be helped to integrate in their host countries, in the local Churches, so that they may give their positive contribution to Church and society ?

I could go on and on, but I will stop here. 

Q. What do you expect to achieve in your meeting in Bangkok?

A. First of all, we hope to make migrants, refugees and IDPs themselves aware that they enjoy a human dignity that no one can take away from them, whatever may be their economic or legal status. Therefore, their human rights, which include social, labor and economic ones, must be acknowledged and safeguarded. We hope to make everyone else realize this.

This means encouraging governments to ratify, implement and even create further national laws in accordance with international legislation and conventions protecting migrants, refugees and their families, and also to work for the protection of IDPs who, by definition, have not crossed their country’s borders.

We hope that the Bangkok meeting will also make all those concerned realize that migrants, refugees and IDPs should not be considered independently of their family.

As our Instruction Erga migrantes caritas Christi states, the responsibility for the care of these vulnerable people lies in the local Church of arrival. The local Churches in Asia are quite sensitive to this problem but we hope that the Bangkok meeting will raise awareness among all members of the ecclesial communities. We also hope that collaboration between Churches of origin and of arrival, which is already going on, will increase and further develop.

Most of all, we hope that from this meeting, each and every Christian will become aware and remember that in every migrant, refugee and IDP that we meet, we are dealing with Jesus Christ who is present in them. In any case, our Congress in Bangkok will have a highly pastoral characteristic.

 

* Given in view of the Asian Meeting for the Pastoral Care of Migrants and Refugees, on the theme: “Towards a Better Pastoral Care for Migrants and Refugees in Asia at the Dawn of the Third Millennium”, Bangkok, Thailand, 5th – 8th November 2008.

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TROVARE UN EQUILIBRIO

TRA ACCOGLIENZA E LEGALITÀ*

 

«La Chiesa è contro la criminalizzazione degli immigrati». Scuote la testa Monsignor Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio per i Migranti e gli Itineranti. Lui che da anni guida il ministero d’Oltretevere della pastorale del settore, non se ne capacità. Lo «preoccupano» le ronde nei campi rom, l’ipotesi di trasformare in reato l’immigrazione clandestina, l’intolleranza manifesta verso i rumeni. Ma il Vaticano fino a poco fa non calcava l’accento sulla legalità? «Capiamoci bene. Innanzitutto il fenomeno non può essere affrontato sull’onda dell’emotività. A questo vorrei aggiungere che la Chiesa da sempre, insiste sulla necessità di coniugare alla giustizia il concetto di carità e di amore. La conseguenza del rapporto tra accoglienza e legalità implica il rispetto da parte di tutti, cittadini e stranieri, delle leggi in vigore. Ma mi pare una ovvietà. Confesso che sono un po’  preoccupato…» Perché? «Perché vedo che non si sta tenendo conto della situazione. Invece di creare un equilibrio tra accoglienza e legalità, si sta sottolineando soprattutto la legalità sino al punto di non avere più la capacità di mostrare amore. Si dovrebbe avere la lungimiranza di stabilire questo equilibrio. Arrivare a criminalizzare l’immigrazione, e questo è un serio rischio, non si può accettare». Il nuovo governo voleva introdurre il reato di immigrazione clandestina. «Mi pare che non si faccia più. Sarebbero andati contro i diritti umani. Forse erano solo parole dette in un dato momento. Ha presente quel detto che dice predicare bene e razzolare male? Ecco, mi auguro, che possa accadere il contrario: Predicare male ma razzolare bene». Ma uno Stato non ha il diritto di regolare i flussi? «Certo, affrontando il fenomeno in modo armonico, tenendo conto che vi sono, per esempio, anche i rifugiati politici che hanno diritto a un trattamento speciale». La gente è esasperata: mancanza di legalità, favelas sulle rive dell’Aniene, casi di violenze… «Tutto vero ma non è accettando l’esasperazione che si risolvono questioni complesse. Vi sono tanti colori nella tavolozza da tenere presente che concorrono all’affresco». Fare rispettare la legalità agli stranieri va bene ma in un contesto di accoglienza, di dialogo». L’esasperazione è tale che c’è chi ha persino assaltato i campi rom. «Ho letto. È gravissimo. Vuol dire che c’è chi si sta facendo giustizia da sé. Qualcosa non ha funzionato».

 

* Cf. Franca GIANSOLDATI  Il Messaggero, 17 maggio 2008.

 

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