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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move

N° 110, August 2009

 

 

 

ATTIVITÀ DEL PONTIFICIO CONSIGLIO

Intervista DELL’ARCIVESCOVO Antonio Maria Vegliò A L’OSSERVATORE ROMANO*

 

1) Vi è contraddizione tra le due affermazioni contenute nella presentazione del Dicastero: “La migrazione migliora i popoli, come dimostra la storia” e  “La Chiesa difende il diritto dell'uomo ad emigrare (CCC, 2241), ma non ne incoraggia l'esercizio. Sa, infatti, che la migrazione ha un costo molto elevato e che a pagarne il conto sono sempre i migranti. D'altra parte, riconosce anche che la migrazione costituisce, a volte, il male minore”?

R. Poste nei rispettivi contesti, le due affermazioni non si contraddicono, ma si completano. In effetti, il fenomeno migratorio esige di essere analizzato e interpretato da diverse angolature, per la vastità e la complessità dei fattori che lo compongono. La visione del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti anzitutto coglie le migrazioni come conseguenza di situazioni di ingiustizia e come “male minore” per milioni di donne e uomini, anziani e bambini che ne sono coinvolti. Tuttavia, è pure importante non trascurare l’elemento positivo e provvidenziale delle migrazioni, che il Magistero della Chiesa non ha mancato di mettere in luce già a partire da quando, a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, si verificavano migrazioni di massa specialmente dal continente europeo verso quello americano. Del resto, la migrazione è un fatto complesso e ambivalente, con elementi positivi e negativi, nei quali siamo interpellati a riconoscere il progetto di Dio, in dimensione cristiana. Dunque, si tratta spesso di coniugare aspetti diversi, in modo che non accada che nell’interpretazione sociologica prevalgano gli elementi negativi, mentre in quella teologica si intravedano improvvisamente ingenui bagliori. 

2) Il Pontificio Consiglio si occupa di varie categorie di persone, tra le quali i nomadi, i rifugiati, la gente del mare e della strada. A proposito del dramma della tratta degli esseri umani che in questi giorni è stata ripetutamente denunciata e che colpisce spesso bambini e donne, quali iniziative concrete promuove il vostro Dicastero?

R. Secondo stime ufficiali, nel mondo sarebbero 2,5 milioni le vittime della tratta degli esseri umani. Per rispondere alla sua domanda, prendo lo spunto da un esempio concreto: l’Osservatorio pastorale della Conferenza Episcopale dell’America Latina (CELAM) ha recentemente diffuso le cifre sulla tratta dei migranti secondo un’inchiesta della Commissione nazionale dei Diritti umani messicana, durata da settembre 2008 a febbraio di quest’anno. Ebbene, ogni mese in Messico spariscono più di 1.600 persone dirette irregolarmente negli Stati Uniti d’America. È lo scandalo del sequestro massiccio di immigrati trafficati, che sono oltraggiati e, spesso, vengono liberati solo dopo aver pagato un gravoso riscatto a bande organizzate, che contano su reti e risorse. Il Messico – come Paese di origine, transito, meta e ritorno di migranti – rappresenta una delle frontiere con la maggiore affluenza migratoria al mondo. Ogni anno, secondo le cifre del Consiglio Nazionale della Popolazione, circa 550 mila messicani emigrano negli Stati Uniti. Allo stesso tempo, negli ultimi tre anni l’Istituto Nazionale per la Migrazione ha riscontrato una media annuale di 140 mila migranti senza documenti, in maggioranza dei Paesi dell’America Centrale, che cercano di arrivare nel Paese Nordamericano. L’ampiezza di questo fenomeno costituisce una singolare sfida dovuta alla complessità che caratterizza l’immigrazione internazionale attuale. Inoltre questa situazione risulta aggravata dalla grande estensione e dall’alto rischio dei tragitti che le persone devono percorrere, che spesso le espone e le rende vulnerabili a differenti violazioni dei loro diritti umani. Di solito i migranti sono catturati a bordo dei treni che li portano oltreconfine, oppure mentre si nascondono nelle stazioni in attesa di partire. Dopo averli maltrattati, i trafficanti chiedono ai migranti un riscatto dai 1.500 ai 5.000 dollari a persona. Cifre alla mano, il traffico potrebbe aver fatto guadagnare ai malviventi almeno 25 milioni di dollari in soli sei mesi.

In questo contesto, come in altre situazioni simili in diverse zone del mondo, il nostro Pontificio Consiglio esercita una particolare azione di promozione e di sostegno alle Conferenze episcopali, agli Istituti religiosi e a tutti quegli organismi, soprattutto di ispirazione cristiana, che già sono presenti sul territorio e si occupano, nel vasto fenomeno della mobilità umana, anche della tratta dei migranti. Come dice la Costituzione apostolica Pastor Bonus (art. 149), nostro compito è quello di assistere il Santo Padre per dirigere “la sollecitudine pastorale della Chiesa alle particolari necessità di coloro che sono stati costretti ad abbandonare la propria patria o non ne hanno affatto”. Ecco perché incoraggiamo il lavoro “in rete” di tutte quelle cristallizzazioni regionali e continentali in favore dei migranti, dei rifugiati e di altre persone in mobilità. È di esempio la recente costituzione dell’International network of religious against trafficking in persons (Inratip), una rete di religiose, che opera sia nelle Nazioni di provenienza che in quelle di destinazione delle vittime della tratta – che sono in maggioranza donne e bambini –. In tal modo, si promuovono solidi legami tra Chiese, organizzazioni caritative e istituzioni locali, per avviare progetti in grado di studiare e stroncare il tragico fenomeno. 

3) Benedetto XVI, nel suo Angelus di domenica 21 giugno a San Giovanni Rotondo, ha invitato ad accogliere i rifugiati, definendo l’accoglienza stessa come “doverosa”, nonostante le non poche difficoltà. Pensa che si possano contemperare il dovere dell’accoglienza e il superamento dei problemi?

R. Quello dell’asilo è un diritto umano fondamentale, come recita la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo all’articolo 14. Il rispetto di tale diritto viene prima dei problemi concreti legati alla sua attuazione. Si costituisce in tal modo la piattaforma di uno Stato di diritto, il quale deve sentirsi impegnato a fare tutto il possibile per rispettare i diritti umani fondamentali.

Bisogna ricordare che l’80% dei rifugiati del mondo, che solo lo scorso anno 2008 sono stati 42 milioni, si trova nei Paesi in via di sviluppo, così come la stragrande maggioranza degli sfollati, stando ai dati diffusi dal “Global Trends”, il rapporto statistico annuale pubblicato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr). L’Unhcr si occupa di 25 milioni di persone, fra i quali 14,4 milioni di sfollati e 10,5 milioni di rifugiati. Sono, invece, 4,7 milioni i rifugiati palestinesi sotto la competenza dell’Unrwa. Dai dati provvisori del 2009, poi, si assiste a un consistente movimento forzato di popolazioni, principalmente in Pakistan, Sri Lanka e Somalia.

Concretamente, se fissiamo l’attenzione sui Paesi dell’Unione Europea, emergono chiare indicazioni sul diritto d’asilo: la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la Carta Europea dei diritti dell’uomo e le direttive dell’Unione sul diritto d’asilo esplicitano la prassi concordata da adottare nei confronti dei rifugiati riconosciuti come tali. I problemi sorgono, come sempre, laddove vi sono risorse da condividere e ricchezze da distribuire, vale a dire alloggio, casa, sanità, istruzione, impiego lavorativo, ecc. Lo Stato, in tale contesto, deve vigilare e agire in modo da garantire questi beni a tutti, autoctoni e non, comprese le fasce di popolazione più vulnerabili, tra cui vi sono i rifugiati. Ora, per il fatto che essi pesano, soprattutto inizialmente, sulle casse dello Stato, sono gli ultimi arrivati e sono stranieri, negli ultimi decenni è stato facile per alcune frange di alcuni Paesi europei – come Germania, Svizzera, Gran Bretagna, Austria e Olanda – identificarli come intrusi e approfittatori dei sistemi di assistenza sociale. Invece, nei recenti Paesi di rifugio – come Italia, Grecia, Malta e Paesi dell’Est Europeo – il rifugiato è ancora troppe volte confuso con l’immigrato per motivi economici e non gode dei dovuti sostegni sociali. In effetti, non bisogna dimenticare che i motivi di fuga sono molto complessi e spesso le persone non scappano da persecuzioni politiche direttamente rivolte alle loro persone, ma da situazioni generali di pericolo e di violazione dei diritti umani, che rendono la vita impossibile in numerosi Paesi, per cui risulta difficile distinguere tra migranti “economici” e rifugiati.

Il vero problema, poi, risiede nell’accesso allo status di rifugiato. Dal momento, infatti, che esso reclama diritti, gli Stati tendono a concederlo ad un numero limitato di persone per risparmiare denaro e strutture, anche perché tendenzialmente le domande si moltiplicano. Di anno in anno, comunque, le leggi riguardanti l’asilo in Europa si fanno sempre più restrittive. La tendenza recente sviluppata dai Paesi dell’Unione Europea è quella della esternalizzazione del diritto d’asilo, che mira ad impedire l’accesso al territorio dell’Unione e ad obbligare i richiedenti asilo a fermarsi nei Paesi di transito.

Non compete al Magistero della Chiesa valutare le scelte politiche in questo campo, ma certo non posso eludere una considerazione generale, indirizzata a tutte le persone di buona volontà, che domanda conto alla retta coscienza del dovere di solidarietà verso coloro che vivono condizioni di maggiore vulnerabilità, come rifugiati e migranti, ma anche, mutatis mutandis, anziani, disabili e malati terminali, nei confronti dei quali non possiamo tollerare che si avvallino tentativi che vanno contro il diritto alla vita.

È ovvio che bisogna fare i conti con la limitatezza delle risorse, ma dobbiamo anche chiederci: si sta già facendo il possibile per l’equa distribuzione delle ricchezze? A che punto siamo con l’impegno, a livello internazionale, di risolvere conflitti di lunga durata? Quali comportamenti vengono adottati nei confronti di governi dittatoriali che “producono” migranti e rifugiati? Quali orientamenti stanno indirizzando la gestione del fenomeno migratorio, in maniera lungimirante e non populista? 

4) Secondo lei sicurezza e legalità sono conciliabili con il flusso immigratorio che attualmente interessa il continente europeo?

R. È probabile che sicurezza e legalità, in equa e armonica simbiosi, non possano essere raggiunte pienamente in nessuna società. Si constata, infatti, che nelle “società aperte”, come quelle dei Paesi democratici, caratterizzate dall’economia di mercato e dal libero movimento di alcune categorie di persone, è quasi impossibile non correre rischi. D’altra parte, un eccessivo apparato di sicurezza rallenta la mobilità e gli scambi necessari ai sistemi economici e, ciò che maggiormente conta, lede la libertà di cui i cittadini sono legittimamente gelosi.

Nello specifico ambito migratorio, legalità e sicurezza possono essere favorite da politiche lungimiranti, che si basano sulla conoscenza approfondita e oggettiva del fenomeno a livello internazionale e cercano di gestirlo tenendo in dovuta considerazione i suoi differenti aspetti, senza sottovalutare le conseguenze delle scelte politiche. Per fare qualche esempio, possiamo senz’altro accertare che un’eccessiva chiusura delle frontiere determina l’aumento dell’immigrazione irregolare e alimenta le organizzazioni malavitose che trafficano esseri umani; poi, il mancato investimento in progetti di inserimento dei figli degli immigrati nell’area della formazione crea insuccesso e abbandono scolastico, alimentando il disagio giovanile e la conseguente criminalità o devianza; ancora, l’insufficiente attenzione alla situazione abitativa di immigrati e cittadini autoctoni più poveri favorisce la crescita di ghetti e di aree socialmente degradate; infine, le paure dei cittadini possono essere alimentate o sottaciute da chi amministra la cosa pubblica e da chi gestisce i canali dell’informazione, anche in risposta a propri interessi. Tutto ciò non può essere ingenuamente ignorato e deve essere affrontato con oggettività, per non rischiare di creare reazioni xenofobe e razziste.

Ad ogni buon conto, sicurezza e legalità si raggiungono solo con il positivo apporto di tutti, anche degli immigrati. Allo stesso tempo, sia gli immigrati che gli autoctoni devono poter vivere sicuri e rapportarsi in egual misura alle leggi del Paese in cui vivono. 

5) Lei pensa che le paure della gente nei confronti degli immigrati ritenuti responsabili di alcuni mali della società siano gestibili attraverso politiche governative, oppure devono essere coinvolte anche le istanze culturali ed educative? 

R. Senza dubbio non bastano le leggi per favorire la crescita di una società integrata, in cui le varie componenti convivano pacificamente e mutuamente si arricchiscano. Tutte le istanze culturali ed educative devono essere coinvolte in un processo che è epocale e riguarda tutti gli ambiti di vita. L’Europa presenta già un volto multietnico, multireligioso e multiculturale, ma ancor più manifesterà tali caratteristiche nel futuro, in un dinamismo che investirà anche le rimanenti aree del pianeta. Questo dato attualmente non può essere messo in discussione. Negare la metamorfosi che sta avvenendo a livello internazionale non solo è un’assurdità, smentita comunque dalla realtà dei fatti, ma è anche una scelta pericolosa e irresponsabile, perché non accetta di gestire un fenomeno che ha già assunto tratti strutturali e globali, cercando di favorirne gli aspetti positivi e di ridurre quelli negativi. È necessario, quindi, offrire adeguati percorsi di formazione alle nuove generazioni, in modo particolare, ma anche a tutta la popolazione – sia autoctoni che immigrati – per prepararsi alla convivenza con le diversità. Certamente in questo processo i Governi devono essere in prima linea, soprattutto legiferando e adottando opportuni provvedimenti per dare impulso in misura corretta ed equilibrata a tale cammino di apprendimento.  

6) La sfida che gli immigrati pongono alle comunità si gioca anche a livello ecclesiale oltre che sociale. Non vi è il rischio di perdere l’identità cristiana di fronte a consistenti afflussi di rifugiati appartenenti ad altre religioni?

R. Il rischio potrebbe essere reale, quantunque io sia convinto che l’arrivo di migranti e rifugiati appartenenti ad altre religioni sia uno stimolo più che una minaccia per l’identità cristiana. In effetti, essi arricchirebbero se stessi e il nuovo ambiente se si trovassero a confronto con una diversa identità religiosa davvero solida e coerente. A mettere in pericolo l’identità cristiana è piuttosto il processo di avanzata secolarizzazione, che talora sta degenerando in secolarismo intollerante e, nel vecchio continente, sta ormai facendo perdere le radici cristiane dell’Europa, negate in sede istituzionale e in alcuni ambiti della società. Di fatto, mediante il laicismo e il relativismo, l’Europa sta costruendo una comunità senza Dio e ciò non è solo un ostacolo alla sua identità, ma è anche un impedimento alle politiche di integrazione. Se fossimo coraggiosi testimoni del Vangelo, forse un numero maggiore di migranti e di rifugiati, in ricerca e in fuga da realtà oppressive, anche sul piano religioso, sarebbe affascinato dalla fede cristiana o, quanto meno, essa sarebbe apprezzata per il suo contributo nell’ambito culturale, storico e artistico. Mi pare, invece, che il cristianesimo in Europa sia guardato con sospetto da migranti e rifugiati non cristiani allorquando si lascia identificare con uno stile di vita che lo contraddice e con la mancanza di genuina religiosità da parte degli autoctoni.

Talvolta, poi, si paventa l’espansione demografica dei non-cristiani in Europa. Ma anche in questo caso dovremmo chiederci perché non siamo in grado di equilibrare il dinamismo demografico e, soprattutto, di trasmettere la fede cristiana alle nostre nuove generazioni, che, per quanto in calo, sono ancora numericamente in maggioranza. 

7) Riguardo al rispetto dei diritti e della dignità della persona, crede che le Chiese siano adeguatamente impegnate nel sollecitare le coscienze dei fedeli e della società su questo tema?

R. Le Chiese locali sono molto impegnate a sensibilizzare cittadini e società al rispetto dei diritti e della dignità della persona umana, a seconda dei vari contesti nazionali in cui si trovano. Talora, in verità, esse corrono il rischio di limitarsi all’annuncio dei principi fondamentali o alla risposta immediata alle emergenze umanitarie, forse senza tenere sufficientemente in conto che è necessaria anche un’adeguata formazione ed educazione cristiana, soprattutto delle giovani generazioni. Infatti, accanto agli interventi sociali e alle opere caritative, è importante investire molto anche nella formazione dei cristiani, affinché possano comprendere a fondo e applicare negli ambiti della società il rispetto dei diritti e della dignità della persona. Infine, per quanto riguarda i migranti, è urgente superare il tono assistenzialista, che prevale talvolta nelle prese di posizione di chi vede nel migrante soltanto il povero disgraziato, mentre anch’egli è portatore di diritti e di doveri. Così come è indispensabile operare una corretta sensibilizzazione dei media perché offrano un’informazione obiettiva e realistica. 

8) Dopo la pausa estiva, quali sono le iniziative e gli appuntamenti che avete in programma?

R. I migranti non hanno pausa e anche il Pontificio Consiglio, sebbene a ritmo meno serrato, ha continuato senza interruzioni la sua attività di promozione della pastorale specifica della Chiesa nel mondo della mobilità umana. Ora, comunque, ci prepariamo ad importanti appuntamenti, che ci porteranno in varie parti del mondo, in ordine di tempo, a confronto con il Terzo Incontro Nazionale di pastorale della mobilità umana, che si è svolto a Brasilia, dal 16 al 18 settembre. Poi, nella sede del nostro Pontificio Consiglio, celebreremo il Primo Incontro Europeo per la pastorale della strada, dal 29 settembre al 2 ottobre. Nei giorni 27 e 28 novembre, a Bhopal (in India), parteciperemo alla Conferenza Nazionale per la pastorale dei nomadi nel continente Indiano, mentre nella sede del nostro Pontificio Consiglio organizzeremo l’Incontro dei direttori nazionali della pastorale per i circensi e i fieranti, l’undici e 12 dicembre. Nel frattempo, offriremo il nostro contributo a diversi incontri dell’Apostolato del Mare in Finlandia, Australia, India, Oceania, Giappone e Corea. Ma l’evento più significativo sarà senza dubbio il VI Congresso mondiale per la pastorale dei migranti e dei rifugiati, che si svolgerà nella Città del Vaticano dal 9 al 12 novembre. È un appuntamento quinquennale di verifica, studio e progettazione, che convocherà oltre trecento esperti e operatori internazionali della pastorale dei migranti e dei rifugiati. Ne sarà tema “Una risposta al fenomeno migratorio nell’era della globalizzazione”.

 

* cfr. L’Osservatore Romano, N. 221 (45.264), 25 settembre 2009, p. 7.

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Pastorale delle Migrazioni e Formazione

INTERVISTA DELL’ARCIVESCOVO ANTONIO MARIA VEGLIÒ ALL’AGENZIA FIDES

(25 giugno 2009)

 

La formazione degli Operatori pastorali della mobilità umana è un impegno prioritario del Pontificio Consiglio. Dunque bisogna essere “addetti ai lavori” per dedicarsi a tale pastorale specifica?

Incontrando i singoli Operatori pastorali o le Istituzioni, come ad esempio in occasione delle visite ad limina dei Vescovi, il nostro Pontificio Consiglio non perde occasione per ricordare che i mezzi a disposizione delle Chiese locali per la pastorale migratoria sono, fra gli altri, una formazione specifica e l’organizzazione di una Commissione per la pastorale della mobilità umana. Attraverso questi due importanti canali si alimenta la sensibilità dell’intero popolo di Dio ai fenomeni migratori e alle loro implicazioni sociali, civili, religiose, pastorali, apostoliche e missionarie. Vi è, dunque, per tutti la necessità di una formazione generale, capace di offrire informazioni e contenuti, suggerimenti e direttive su un fenomeno di vaste e complesse proporzioni. Certo, questo tipo di apostolato richiede pure prestazioni e persone qualificate, ma non può essere opera esclusiva di specialisti. La responsabilità di una corretta azione pastorale, in linea con la Tradizione e il Magistero ecclesiale, incombe a tutti nella Chiesa e l’opera di chi ha acquisito speciali qualifiche, in questo campo, può essere pienamente efficace soltanto con il sostegno e l’apporto di tutti. 

Quali potrebbero essere le necessarie premesse della formazione specifica?

Sono convinto che si debba puntare su un quadruplice progetto: anzitutto, la formazione nel campo della pastorale migratoria deve incoraggiare il “dialogo di vita”, mediante il quale si apprende ad apprezzare che le persone possono vivere insieme in uno spirito aperto, di vicinanza e di solidarietà, condividendo gioie, sofferenze e preoccupazioni. Poi, è urgente imparare a onorare un “impegno specifico”, con il quale cristiani e non-cristiani si sforzano di collaborare alla liberazione e allo sviluppo integrale delle persone, nel rispetto della dignità di ogni persona umana. Quindi, la formazione deve orientare allo “scambio culturale”, con il quale si approfondisce la conoscenza del rispettivo patrimonio religioso-culturale e si apprezzano i reciproci valori. Infine, fa parte dell’iter formativo il “confronto dell’esperienza”, che aiuta la condivisione di esperienze e tradizioni spirituali, come la fede, la preghiera, la contemplazione e la sincera ricerca di Dio, fino all’annuncio esplicito del Vangelo.

Tali premesse, del resto, coinvolgono tutte le persone, anche le più povere come i migranti, tutte le religioni e tutte le culture. Non si tratta, dunque, di un compito affidato solo a specialisti o teologi di professione, ma coinvolge e sollecita tutti indistintamente, anche i migranti, che possono diventare mezzo di dialogo tra persone, religioni e culture. 

I Paesi ricchi tendono a chiudersi di fronte ai poveri che premono alle loro frontiere. In vista di una corretta formazione degli Operatori pastorali, su questa problematica realtà attuale, come definirebbe l’accoglienza da dare agli immigrati?

Agli immigrati deve essere riservata una accoglienza all’altezza della loro dignità umana. Essi, come tutti i lavoratori, non sono una merce o una mera forza lavoro, e non devono quindi essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione, come ribadisce la Dottrina Sociale della Chiesa. E su questo caposaldo la formazione degli Operatori pastorali non può negoziare.

La Chiesa, poi, da parte sua, grazie a numerose Istituzioni ad essa collegate, cerca di aiutare gli immigrati approntando le più necessarie strutture assistenziali, facendo in ciò opera di sussidiarietà.

In seguito, vi è l’importante passo verso l’integrazione, a cui si dà un contributo specifico proprio facendo leva sulla buona formazione culturale, umana e spirituale degli Operatori pastorali, che sono chiamati a mettere in atto modelli sempre aggiornati di sollecitudine pastorale, in linea con quella che Giovanni Paolo II definiva “fantasia della carità” (Novo millennio ineunte, n. 50).

Ma di fronte a un fenomeno che sempre più diventa sfida internazionale, le istituzioni formative ecclesiali studiano e suggeriscono – in forza dell’identità stessa della Chiesa “esperta in umanità” – alcuni interventi a monte, come per esempio l’aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri, da cui hanno origine i più importanti flussi migratori. Del resto, è proprio nell’ambito formativo che si può adeguatamente proporre anche una giusta normativa nazionale e internazionale per i flussi migratori stessi, sollecitando ad esempio accordi bilaterali o multilaterali tra Paesi di origine, di transito e di destinazione. Infine, la formazione degli Operatori pastorali ha anche il compito di studiare la gestione integrata di tutti gli aspetti correlati alla buona accoglienza dei migranti, soprattutto per contrastare il più efficacemente possibile l’opera di organizzazioni criminali che fanno traffico e contrabbando di esseri umani. 

Un tempo la formazione nei Seminari e nelle istituzioni particolarmente sensibili alle dinamiche sociali, come la mobilità umana, probabilmente incontrava meno ostacoli, poiché si svolgeva in ambiti per lo più “mono-culturali”. Oggi, però, l’incontro di molte culture, assai diversificate, fa emergere nuove difficoltà. Come indirizzare, allora, la formazione degli Operatori pastorali?

Pure sollecitati da quotidiani fatti di cronaca, che pongono interrogativi sull’accoglienza allo straniero – nel Mediterraneo e in Europa come ai confini tra Messico e Stati Uniti d’America; in Estremo Oriente come all’interno dei Paesi dell’Africa sub-sahariana – oggi siamo tutti consapevoli di vivere in un mondo da una parte sempre più globalizzato e dall’altra segnato profondamente da diversità culturali, sociali, economiche, politiche e religiose. Si presentano così nuove sfide alla nostra coscienza cristiana, una delle quali è certamente la formazione alla “interculturalità” nel rispetto della identità del Paese che accoglie, delle sue leggi e dei suoi valori. In effetti, credo che la formazione interculturale degli Operatori pastorali della mobilità umana possa diventare chiave di soluzione al difficile problema e allo sforzo di armonizzare l’unità della famiglia umana nella diversità dei popoli che la compongono. Questo implica ovviamente l’impostazione di tutta una pedagogia per l’accoglienza delle differenze, per la cultura del dialogo, nella reciprocità e solidarietà. Con una precisazione: il dialogo interculturale non è un concetto circoscritto ad una azione puramente accademica, ma coinvolge pienamente la capacità di ognuno di incontrare le persone di altra cultura, non solo, ma anche di diversa confessione e di altra religione. È necessario allora accostarsi a tutte le culture con l’atteggiamento rispettoso di chi è cosciente che non ha solo qualcosa da dire e dare, o da giustamente pretendere, ma anche da ascoltare e ricevere. 

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Rispettare sempre i diritti dei migranti,

le società sviluppate non si chiudano nell’egoismo.

INTERVISTA DELL’ARCIVESCOVO ANTONIO MARIA VEGLIÒ A RADIO VATICANA-RADIOGIORNALE

(22 agosto 2009) 

 

D.   L’ennesima tragedia della migrazione, avvenuta nel Canale di Sicilia, ci ricorda quanto scrive Benedetto XVI nella Caritas in veritate: “Ogni migrante è una persona umana” che “possiede diritti fondamentali inalienabili” da rispettare “in ogni situazione”. È quanto afferma il presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, mons. Antonio Maria Vegliò, che al microfono di Alessandro Gisotti si sofferma sull’insegnamento del Papa sul fenomeno delle migrazioni:

R. - Il n. 62 dell'Enciclica sociale di Papa Benedetto XVI, Caritas in veritate, coglie in maniera molto pertinente la situazione attuale delle migrazioni a livello mondiale che poi si riflette a livello locale. Infatti, anche se le situazioni si verificano geograficamente in zone diverse, come accade nel Mediterraneo, nello stesso tempo ci sono circostanze di disperazione anche nel deserto alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, oppure in Estremo Oriente, all'interno dell'Africa sub-sahariana, e ovunque ci siano rilevanti flussi migratori. La realtà è la medesima. Colpisce esseri umani che cercano di raggiungere Paesi o regioni economicamente più sviluppati, per fuggire povertà e fame. Per questo sono pronti a rischiare tutto, anche la loro stessa vita.

D. - Cosa possono fare gli Stati e la comunità internazionale?

R. - Questo problema, come dice il Santo Padre, "richiede una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato". Quindi se da una parte è importante sorvegliare tratti di mare e prendere iniziative umanitarie, è legittimo il diritto degli Stati a gestire e regolare le migrazioni. C'è tuttavia un diritto umano ad essere accolti e soccorsi. Ciò si accentua in situazioni di estrema necessità, come per esempio l'essere in balia delle onde del mare. Per centinaia di anni i Capitani delle navi non sono mai venuti meno al principio fondamentale del diritto del mare, che prevede si debbano sempre soccorrere i naufraghi che si incontrano. Il Santo Padre aggiunge che si dovrebbero "armonizzare i diversi assetti legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati". 

D. - C’è poi una questione di mentalità. Oggi l’immigrato viene visto con sospetto, addirittura con paura…

R. - Certamente le nostre società cosiddette civili, in realtà hanno sviluppato sentimenti di rifiuto dello straniero, originati non solo da una non conoscenza dell'altro, ma anche da un senso di egoismo per cui non si vuole condividere con lo straniero ciò che si ha. Poi si raggiungono estremi, ove la condivisione dei beni viene fatta provvedendo piuttosto al benessere degli animali domestici. Purtroppo i numeri continuano a crescere, infatti, secondo le ultime statistiche, dal 1988 ad oggi il numero di potenziali migranti naufragati o vittime alle frontiere dell'Europa ha contato oltre 14.660 morti. Il nostro Pontificio Consiglio è addolorato per il continuo ripetersi di queste tragedie e riafferma quanto detto dal Santo Padre nella Caritas in veritate: che “Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione (142)”. 

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the World Day of Migrants AND REFUGEES 2009 INTERVIEW OF ARCHBISHOP AGOSTINO MARCHETTO to Vatican Radio

(12th January 2009)

 

1. What inspiration can the Apostle to the Gentiles’ life give to those who have to live with the increasingly marked phenomenon of migration and govern it?

Will you allow me to make a preliminary remark? This year we are celebrating the Catholic Church's 95th Day of Migrants and Refugees. It became worldwide over the course of the years, but it began in a more limited area at the beginning of the last century. Well, this tells us something about the Church's age-old attention to the phenomenon of migration which has now become structural, also because of its association with the phenomenon of globalization.

Then, as always, it was a question of pastoral attention, a specific care, which, however, should not be understood in a strict sense. On the occasion of these Days, the Holy Father addresses a message that crystallizes attention for the whole Church, on the migratory phenomenon and its specific pastoral care on a date close to the Holy Family's flight into Egypt-and isn't this highly significant? after Epiphany.

On the ideal circumstance of the Pauline Year, for 2009 the Holy Father decided to take Saint Paul into consideration, a migrant and the Apostle to the gentiles, for his message, which we presented in the Vatican Press Hall last October 8th in order to give the possibility to prepare this Day appropriately all over the world.

You asked me what inspiration the Apostle of the gentiles life can give in the migratory context. I would, first of all, consider his thoughts, which the Holy Spirit inspired and became God's Word. Here I refer back to our Instruction The Love of Christ Towards Migrants, which presents the biblical teaching on the subject of migration especially in numbers 12-18. In it, Saint Paul reaches a peak in Chapter 13 of the First Letter to the Corinthians, which is the hymn to charity.

Do not be surprised if I point this out both for Christians, in the sense of hospitality that is paired with security, and for governors, because for them the service of governing is, or ought to be, an eminent form of charity, a fulfillment of love expressed in the search for the national, surely, but also universal common good. The beginning of this approach was already found in Pope Paul VI.

The thought and life of the Apostle - who was a migrant himself, a Roman citizen, that is, a citizen of the world - are projected towards the universal, which is characteristic of Christianity beyond any particularism. With his life Paul attests to what he preaches. He goes further and feels the Church as ferment, as hope for all, in the possibility of a cohabitation of legitimate diversities. The resurgences of exacerbated nationalism will not stop the world from feeling that it is finally one, one human family of peoples, which is already manifested in human mobility, in being near, for the common good, to those who are geographically distant. 

2. Why, in your opinion, do the Church's appeals to welcome migrants have difficulty in being asserted in the current political and juridical context of many States?

The difficulty in listening to the ecclesial appeals, even before the political and juridical context of many States, is found in the human heart and Christians are also men and women. Moreover, the heart, in addition to the dangers of selfishness, hardness, violence, xenophobia and even racism, is conditioned by feelings and there lies the sense of being surrounded "in one's own home" and the fear of those who are different from us, and this, all the more so, the greater the diversity and the number of "outsiders".

Of course, there are those who ride these sentiments and echo them, also for reasons of party politics, and then pass them on to the juridical level of many states.

But in this sense there is one action, one voice together with others, of course, which recalls realities that go beyond one's own borders, including state borders. We can indicate the source of this voice that appeals to consciences in the dignity of every human person, which for us is reinforced in the light of the Gospel. We can discover this source in human rights, in international humanitarian legislation, and here I refer in particular to refugees and asylum seekers, displaced and stateless persons, those subject to trafficking in human beings (here we are in situations of new forms of slavery), child soldiers. I could continue the sorrowful list of situations that are a product of persecution, war and violence to which we are often powerless and desolate witnesses.

Here we are witnessing also a general lowering in the levels of protection which tells us many sad things, because they mean a decrease in humanity and a lack of humanism. And while considering the particular situation of Malta, which needs to be supported by all the countries of the European Union in welcoming the forced migrants, let me say that it is discouraging, at least for me, that this very Catholic nation was the only one that opposed a common European orientation more favorable to refugees and asylum seekers or to those welcomed for humanitarian reasons. Finally, my thinking with regard to immigrants, including irregular ones, is well known. It is not my thinking, however, but of course that of the Church's social doctrine and the consequence of the right to emigrate contained in the 1948 Universal Declaration of Human Rights.

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INTERVISTA DELL’ARCIVESCOVO AGOSTINO MARCHETTO ALLA RIVISTA “JESUS”

(6 giugno 2009)

 

Problema migrazioni di massa. L’Europa tenta di difendere le sue frontiere in vari modi. A suo parere quali sono gli stati che meglio contemperano il principio di sicurezza e quello di accoglienza? Quali legislazioni potrebbero suggerire qualcosa al nostro paese? E come l’Europa nel suo insieme sta lavorando su questo tema?

R.  Lei dice bene, oggi le migrazioni sono fenomeno strutturale e di massa, in linea con quello della globalizzazione che del resto sarà al centro del nostro prossimo congresso mondiale in novembre a Roma, cinque anni dopo la pubblicazione dell’Istruzione Erga migrantes caritas Christi. Essa meriterebbe di essere più conosciuta e non credo di essere in questo caso Cicero pro domo sua.

Con la crisi mondiale che viviamo, certamente ci sarà una diminuzione o un rallentamento della presenza dei migranti. L‘Europa comunque – Lei dice – tenta di difendere le sue frontiere in vari modi. E qui subito distinguerei l’Unione Europea e il Consiglio d’Europa, che inquadrano i Paesi membri dell’una o dell’altro o di entrambi. Aggiungerei che la Chiesa ribadisce che esiste il diritto a non emigrare e pure quello di farlo, ma riconosce al tempo stesso che gli Stati hanno la “potestas” di regolare i flussi migratori, che comunque – cosa atta a complicare i loro compiti – sono misti.

In essi vi sono cioè rifugiati o richiedenti asilo e migranti “economici”, per parlare in termini generali. E sappiamo che i rifugiati godono di una legislazione internazionale favorevole che gli altri immigrati non hanno. Tale regolamento dei flussi dovrà certo tener conto del bene comune del paese di accoglienza ma anche di quello universale.

Una volta fatto così, come schizzo, il quadro generale di riferimento, ho detto – e lo ripeto qui – che vi è una riduzione dell’accoglienza anche a livello legislativo e ciò vale sia per i migranti detti “economici” sia per quelli che fuggono dal loro paese per persecuzione, guerra o anche per questioni ecologiche (è una categoria che si dilaterà in futuro). L’accoglienza, dunque, è al ribasso un po’ dovunque o diventa una scelta solo a favore di chi interessa a un certo paese (per il suo sviluppo, le sue necessità), con esclusione degli altri, indipendentemente dalle loro necessità, dal bene comune universale. Per questo non mi sento di indicare nazioni che potrebbero essere modello per gli altri nella combinazione dei principi di sicurezza e accoglienza, binomio che deve essere mantenuto. Naturalmente, per noi, Chiesa, la situazione è particolarmente delicata e difficile poiché dovremo aiutare a discernere se si pecca di eccessiva rigidità o di “buonismo”, come si dice. La bontà è invece atteggiamento cristiano, mentre essere cattivi non lo è. Bisogna essere giusti, questo sì.

Un segno contro corrente potrebbe arrivare prossimamente dagli USA di Obama, mentre è già giunto in genere dall’America Latina. Essa, anche per essere coerente con le sue richieste di giusto trattamento dei propri emigrati in America del Nord e in Europa, scopre di dover mettere un po’ a posto le cose anche in casa propria. Pure l’Africa in generale ha ordinamenti meno restrittivi, ma bisognerebbe qui analizzare paese per paese.

In ogni caso considero che la criminalizzazione degli immigrati irregolari è un “peccato originale” che genera altri gravi peccati.  

La regolamentazione internazionale prevede il principio di non respingimento per rifugiati e richiedenti asilo. Cosa significa in concreto applicare questo principio ai barconi che si avvicinano al nostro paese anche se sono ancora in acque internazionali?

R. Sta toccando un tasto molto sensibile. Anche per questo sono intervenuto con molta convinzione in Italia in difesa del principio di non respingimento dei rifugiati o richiedenti asilo, che è una delle colonne di sostegno della legislazione internazionale espressione di umanesimo (oltre che di cristianesimo, per noi). È frutto – direi – delle sofferenze immani prodotte dall’ultima grande guerra e dal successivo dopoguerra, che ha visto quasi 20 milioni di rifugiati muoversi in Europa.

Alcuni infatti definiscono lo scorso secolo quello dei rifugiati. È da tenere inoltre presente che la Santa Sede è membro fondatore dell’UNHCR, con sede a Ginevra (non vi ha quindi lo status di osservatore ma di membro), e bene si adoperò nel 1951 per l’adozione di quel tale principio di non respingimento. Nel caso dei “barconi”, a cui si riferisce, vi è poi la legislazione internazionale che riguarda il soccorso in mare ad accrescere la responsabilità delle pubbliche autorità , oltre che di quanti concretamente stanno a bordo di una nave, considerata “territorio nazionale”, con conseguenze chiare pure per il principio di cui stiamo dibattendo.

Concretamente, quindi, non si può respingere senza aver prima analizzato la situazione di ciascuno per quanto riguarda la possibilità di accettazione della richiesta di asilo.

Se poi, come ho visto, le persone soccorse sono salite a bordo delle navi italiane , la cosa è ancora più chiara e l’esigenza dell’esame prescritto più doverosa e stringente. 

La grande distinzione, lei ha dichiarato, è tra migranti e rifugiati e richiedenti asilo e coloro che sono soggetti al traffico di esseri umani. Come commenta la preoccupazione dell’Onu sulla politica del governo italiano?

R. La preoccupazione dell’ONU mi pare doverosa e comprensibile. Se non si rispettano certe distinzioni si minano dei principi fondamentali per me legati ai diritti umani e traballa la legislazione internazionale. Se essa è messa in crisi su un punto, perché non si potrà farlo su un altro, e penso per esempio al diritto umanitario in tempo di guerra o altro.

L’Italia sembra essersi presa il ruolo di tirare la volata ad altri Paesi con uno zelo degno di

miglior causa. Il riferimento continuo, poi, a una tendenza, o comuni intendimenti, in seno alla Comunità Europea, non toglie la responsabilità di ciascuno Stato e non esclude gli adattamenti previsti alla varie situazioni, tenendo in conto la cultura di un popolo. Tra l’altro, in un passo relativo al traffico di esseri umani, l’UNHCR auspica un trattamento equipollente a quello riservato ai rifugiati per chi è oggetto/soggetto del traffico di esseri umani. Cito qui il passo di cui sopra che appare nelle Linee Guida dell’UNHCR relative al  traffico, per cui alcune sue vittime “potrebbero rientrare nella definizione di rifugiato di cui all’articolo 1A della Convenzione di Ginevra, del 1951 relativa allo status dei rifugiati e quindi avere il diritto alla protezione internazionale per i rifugiati” (n. 12). Infatti l’Agenda UNHCR per la protezione, del 26 giugno 2002, fa appello agli Stati affinché assicurino che i propri processi per l’asilo siano aperti a ricevere richieste dalle singole vittime del traffico, soprattutto donne e bambini che possano motivare la loro richiesta d’asilo con ragioni non manifestamente senza fondamento”. 

L’associazione studi giuridici lancia l’allarme: le norme del pacchetto sicurezza rischiano di creare una società di invisibili, parallela, di immigrati irregolari. Condivide questa preoccupazione?

R. Devo dire che le mie preoccupazioni sono tante anche perché l’Italia… è l’Italia. Le ho espresse parecchie volte e non ritornerò qui a elencarle anche perché a esse si è fatto molto riferimento. Il rischio di creare una società di invisibili, per me, in questo momento in cui parlo, ancora esiste. I chiarimenti richiesti vanno apportati, poi, sul testo di legge stesso.

Non dobbiamo creare una società parallela, con gli immigrati, prima di tutto per non avere ghetti con reazioni imprevedibili e poi per il senso della dignità della persona umana di ognuno, in situazione regolare o meno. Vi è a questo proposito una Convenzione internazionale a difesa dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, ratificata da più di 40 Stati. Tra essi non c’è l’Italia e nemmeno Paesi cosiddetti “sviluppati”. È una grande pena, anche perché nel caso da lei proposto, il rischio è di far crescere altresì in Italia il numero degli apolidi (nel mondo sono circa cinque milioni). E non auguro a nessuno di essere apolide.  

Le vicende degli sbarchi, che probabilmente continueranno nei prossimi mesi, suggeriscono anche una riflessione sulla nostra società. Quale spazio c’è per l’accoglienza del diverso? L’altro, con il suo carico di dolore e miserie, che posto ha nell’Italia di oggi (in concreto e nell’immaginario collettivo e individuale)?

R. Lei sta facendo presente una questione fondamentale della società italiana. Di che  tipo è al presente? È centrata su di sé? Certo, più l’altro è diverso da me, più ne ho paura e meno facile è accettarlo, ma dobbiamo stare attenti che nell’immagine collettiva e individuale non si crei il collegamento tra chi è legittimamente diverso e chi è mio nemico.

Bisogna, cioè, combattere la discriminazione, la xenofobia, il razzismo che sono cose diverse ma che spesso conducono agli stessi atteggiamenti di chiusura, animosità, offesa, violenza. Da qui anche il recente richiamo del Signor Presidente della Repubblica.

Forse pensare al carico di dolore e miserie che il mio prossimo, proveniente da lontano, porta con sé, potrebbe aiutare a vincere la xenofobia e ad aprire il cuore. Ricordo che Giovanni Paolo II ebbe a dire che noi di fronte al fatto di una richiesta di asilo, non pensiamo alle cause, alle situazioni che l’hanno prodotta. E poi non si pensa all’opera di centinaia di migliaia di irregolari che operano e servono nelle nostre case e danno forse il contributo più valido all’opera di costruzione di una società interculturale (non uso, a ragione, l’aggettivo multiculturale). E si pensi al legame sviluppo-migrazione, binomio che sta andando sempre più nell’agenda degli incontri internazionali. Cosa impensabile fino a cinque anni fa. 

Un linguaggio aggressivo, violento e talvolta volgare sembra caratterizzare sempre più la discussione politica. Sembra di trovarsi di fronte a un progressivo deterioramento del vivere civile. Condivide queste preoccupazioni? Quali le cause e le vie d’ uscita? Quale il ruolo della Chiesa?

R. Sa che io ho un grande rispetto per la politica e anche per gli uomini che vi sono impegnati? Molte volte mi fanno pena, nel senso buono di questa espressione, quando li vedo assumere (e penso ritengano così di difendere le proprie posizioni di Partito) atteggiamenti aggressivi, nel linguaggio, anche violenti, non rispettosi dell’altro, che poi è un uomo politico come loro.

E faccio memoria della politica, quella alta e nobile, rispettosa e al tempo stesso convinta delle proprie ragionate posizioni, senza preconcetti, con capacità di tutti unire nella superiore ricerca di un bene comune che faccia attenzione specialmente ai più poveri, ai bisognosi, a chi non ha il necessario per vivere. È anche questione di cuore! Ma ha ancora cuore questa nostra società tecnologica e della rivoluzione sessuale. Qui peraltro non parlo dei singoli. Penso dunque alla politica superiore, in senso largo (e non solo di lotta partitica), che Paolo VI, un grande italiano (forse il migliore scrittore religioso del secolo scorso, diceva qualche letterato) definì “eminente espressione di carità”. Sì, la carità, la pietà, nel senso del prete romano don Giuseppe De Luca, è ancora caratteristica della società italiana? Certo la carità, la solidarietà vanno insieme con la giustizia, la verità e la libertà. Sono i quattro pilastri dell’edificio della pace nella Pacem in terris, insegnamento ripetuto dai Pontefici successori del beato Giovanni XXIII. Credo che qui la Chiesa ha un ruolo importante, specialmente per quel che si riferisce alla cultura. E penso anche al progetto culturale sostenuto contro venti e maree dalla CEI.    

Italia multiculturale. Mi ha colpito, visitando l’Abruzzo, notare quanti sacerdoti del sud del mondo sono parroci, e oggi in prima linea, in questa parte di Chiesa italiana. Esiste già una società multiculturale? Come rapportarsi a essa?

R. Ho già detto che penso piuttosto all’aggettivo e alla realtà interculturale. L’esperienza definita multiculturale non ha dato buoni frutti. Ciascuna nuova porzione di società nazionale corre in essa il rischio di andare per conto suo, non tenendosi in considerazione la mentalità, la cultura e la religione maggioritaria del Paese che accoglie. In fondo c’è il rischio, per ciascuno, di un’apartheid verso gli altri. Non vale ognuno per sé, bisogna invece costruire insieme una società dove si rispettino gli altri, ma nell’impegno fraterno, solidale e buono. Utopia? Sì, ma nel senso giusto del termine. E poi, è vero, non si può accettare tutto e la legge ha un compito pedagogico importante, sotteso a una civiltà, quella che accoglie. Il dialogo fra religioni e civiltà,  com’è importante, direi fondamentale, per la pace nel mondo! Recentemente, all’Università Cattolica di San Diego, in California, mi hanno chiesto di parlare di “migrazione e identità nazionale”. Tema non facile negli USA ma nemmeno altrove.

Bel tema, che non posso qui sviluppare. Sì, certamente c’è un’identità italiana, anche se la globalizzazione la insidia, con l’apporto dei suoi standard culturali che livellano le diversità che fanno bella l’umanità. Concludo pregando il lettore di voler leggere l’Erga migrantes caritas Christi perché vi troverà risposte più esaurienti di quelle che ho cercato di dare in questa intervista. Grazie!

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INTERVISTA  DI RADIO VATICANA

ALL’ARCIVESCOVO AGOSTINO MARCHETTO

(12 febbraio 2009)

 

1)Eccellenza, sappiamo che è tornato da poco da un pellegrinaggio, diciamo così, ai  Â“santuari” culturali cattolici degli USA, cioè gli High Colleges e le Università. Qual è stata la finalità principale della visita?

Mi piace la sua domanda posta in termini religiosi, in effetti le università cattoliche sono, dovrebbero essere, santuari culturali. Dopo aver partecipato al Congresso mondiale per la Famiglia, in Messico, dove ho parlato della famiglia migrante, ero stato invitato a tenere la conferenza centrale dell’annuale riunione dell’Associazione Statunitense dei Colleges e delle Università Cattoliche (A.C.C.U.), a Washington, a fine gennaio, per aiutare quelle istituzioni a essere espressione dell’apostolato della speranza, un tema attualissimo.

Orbene, la Presidenza dell’Associazione mi ha proposto, senza rientro a Roma dopo il Messico, di visitare una quindicina di Università  Cattoliche per presentare e stimolare la pastorale specifica degli studenti internazionali, un settore del nostro Pontificio Consiglio, poiché quel grande Paese ne accoglie 650.000, mentre più di 250.000 universitari americani fanno una parte dei loro studi all’estero. 

2) Allo scopo principale da Lei definito se ne sono aggiunti altri?

L’appetito vien mangiando, dice un nostro proverbio, e così è stato. Voglio dire che, sapendo coloro che mi hanno invitato del mio ministero a favore della mobilità umana in generale e nelle sue espressioni di migrazione volontaria e forzata, di rifugiati e richiedenti asilo, mi hanno chiesto di aggiungere incontri e conferenze su tali realtà, con esame delle nuove forme di schiavitù e traffico di esseri umani. Mi sono quindi dedicato anche a far conoscere e “ricevere”, in linguaggio teologico, la nostra Istruzione “La carità di Cristo verso i migranti”. Non è mancata pure l’opportunità di auspicare una corretta ricezione ed ermeneutica del Concilio Ecumenico Vaticano II, poco conosciuto dai giovani, peraltro. 

3) Che impressione generale ha al termine di questo suo pellegrinare?

L’impressione è buona. Anzitutto per l’ingente sforzo educativo e formativo della Chiesa cattolica negli USA, ancora oggi e nonostante tutto,   come servizio alla gioventù cattolica e   non. È cosa unica, direi. Aggiungo che ho notato un rinascere – ed è un bell’auspicio –    dell’attenzione all’identità cattolica di tali istituzioni con impegno a volte molto notevole di  pastorale universitaria quasi capillare. Naturalmente non v’è dappertutto la stessa situazione.

Ho notato infine un buon interesse per la questione molto viva dei migranti senza documenti. Si spera da parte di molti in una futura “comprehensive law” propugnata dal nuovo Presidente, il cui discorso di investitura mi è piaciuto molto per le espressioni riferentesi  all’identità nazionale, in una legittima pluralità di culture e di etnie. In attesa di una  tale “comprehensive law” non ho mancato comunque di incoraggiare i miei ascoltatori ad adoperarsi per sostenere la posizione dell’Episcopato in materia  di migrazione,  incontrando anche, nella sede della Conferenza episcopale, a Washington, i rappresentanti di vari organismi che se ne occupano con molta generosità e zelo.  Ho ricordato soprattutto le questioni del trattamento dei minorenni, della visita dei migranti nelle carceri, della riunificazione familiare, della necessità di non separare genitori e figli e di un supplemento di umanità, secolare o cristiana che sia, specialmente a proposito del rimpatrio dei migranti irregolari. Almeno su questo i cattolici devono essere d’accordo.

Ho visto anche il muro eretto tra USA e Messico: è stata una grande pena.  

4) Sta provocando perplessità l’approvazione in Italia – per il momento solo al Senato – del disegno di legge sulla sicurezza che contiene, fra le altre, norme che darebbero facoltà ai medici di denunciare i pazienti che siano immigrati irregolarmente.  Qual è la sua opinione in proposito?

Al rientro a Roma ho trovato la brutta novità, fra le altre, delle norme, approvate per ora   solo dal Senato,  che cancellano il divieto per i medici di denunciare gli immigrati irregolari.  

Se essi si fanno prendere dalla paura della possibilità di un tale procedere, perderanno  fiducia nei medici, non conoscendo i loro orientamenti al riguardo, e potrebbero non  rivolgersi più alle strutture del servizio sanitario nazionale. Le conseguenze possono essere   gravi, oltre alla cosa in sé.  Potrebbero svilupparsi strutture clandestine con effetti nefasti  per la salute dei migranti stessi e di tutti gli italiani. Faccio menzione a  due esempi, quelli del parto e della prostituzione , con possibile contagio di malattie gravi.  Esami medici,  per questi due esempi, senza considerarne altri, richiedono strutture specializzate e una fiducia  totale nel medico…sono cose gravi. 

5) Il ddl introduce il reato di immigrazione clandestina. Perché la Chiesa è contraria?

Criminalizzare l’immigrazione irregolare, metterla alla pari di reati comuni, vuol dire non riconoscere che in principio c’è un diritto all’emigrazione. Lo attesta la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e, da parte ecclesiale, per esempio la Pacem in terris (“quando legittimi interessi lo suggeriscono”), il Concilio Ecumenico Vaticano II, ecc.

So naturalmente che spetta allo Stato regolare i flussi migratori ( ora, peraltro, misti perché composti da migranti economici, per così dire, e richiedenti asilo, che non possono essere trattati allo stesso modo)  e ciò in vista del bene comune di un certo Paese, che comprende pure l’aspetto sicurezza, ma nel contesto del bene comune universale.

Tutto ciò deve far riflettere, anche considerando le situazioni di estrema necessità di molti migranti. La criminalizzazione non rispetta la dignità di queste persone che fuggono dai loro Paesi, sì in cerca di una vita migliore, ma spesso spinti dalla fame e dalla disperazione (“Preferisco la morte piuttosto che il ritorno al Paese d’origine”, dice espressamente qualcuno).

 Le ronde, poi, di volontari civili…mi sembrano un’abdicazione dello Stato, e non credo sia questa la strada per risolvere il problema migratorio, che del resto non è solo un problema, come attestato dal nostro Papa Benedetto; è in effetti anche una sfida e un’opportunità.      

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DIRITTI DEI MIGRANTI:

TESTO DELL’INTERVISTA DELL’ARCIVESCOVO

AGOSTINO MARCHETTO CONCESSA ALLA RIVISTA “VITA”

(20 febbraio 2009)

 

Che cosa non la convince del pacchetto sicurezza…?

Tante cose. Ad esempio, non convince la cancellazione del divieto per i medici di denunciare gli immigrati irregolari. Se gli immigrati si fanno prendere dalla paura e non si rivolgono più alle strutture del servizio sanitario nazionale possono esserci conseguenze gravi. Potrebbero svilupparsi strutture clandestine. Con l’effetto di un peggioramento della salute, loro e di tutti gli italiani. Faccio solo due esempi che riguardano le donne. Immaginiamo le interruzioni della gravidanza eseguite in clandestinità… Oppure pensiamo al fenomeno della prostituzione e al possibile contagio dell’Aids… Esami medici che richiedono strutture specializzate e una fiducia totale nel medico… Sono cose gravi. 

C’è chi invita i medici all’obiezione di coscienza – linguaggio non esatto del resto - ma bisogna dire che la denuncia non è un obbligo di legge e quindi non si tratta tanto di fare obiezione di coscienza quanto di avvalersi di una possibilità prevista dalla stessa normativa …

Io credo che (tolgo “tutti”) i medici agiranno comunque secondo una coscienza ben formata… In particolare i medici cattolici sentiranno il dovere della carità verso i malati più bisognosi e poco tutelati… Ma non è solo questo punto a sollevare riserve e contrarietà. 

Si riferisce alla nuova  ‘tassa’ sul permesso di soggiorno…

Anche. Ma qui il vero problema non è tanto il contributo richiesto ma i tempi per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno. Se almeno fosse rilasciato in tempi ragionevoli! Succede delle volte che quando arriva il sospirato permesso sia già tempo di pagare la nuova tassa per il rinnovo… Legata a questa misura c’è poi un’altra questione fondamentale, che riguarda la possibilità di mettere su una famiglia normale. Al matrimonio contratto da un immigrato privo di permesso di soggiorno non è riconosciuta la capacità di produrre effetti civili.  

Le nuove norme stabiliscono anche un’anagrafe dei senza fissa dimora, una schedatura dei barboni?

Tutti i senza fissa dimora (tolgo “clochard”) dovranno essere iscritti in un registro presso il Ministro degli Interni. Non mi pare sia una decisione neutra…  

E poi l’introduzione del reato di clandestinità… E ancora, le ronde civili….

Si va, purtroppo non solo in Italia, verso una ‘criminalizzazione’ degli irregolari, una tendenza che non rispetta la dignità di queste persone che fuggono dai loro paesi in cerca di una vita migliore o spinti dalla fame (tolgo “dalla guerra”). Le ronde poi… Vengo dagli Stati Uniti, dove lungo il confine hanno eretto un vero muro, con pattuglie anche di volontari civili a sorvegliare il confine per impedire l’ingresso (tolgo “dei clandestini”).

Non credo sia questa la strada per risolvere il problema.

Lei dice tanti no. Ma non teme di esporre la Chiesa all’accusa di buonismo, di chiudere gli occhi di fronte all’esigenza molto diffusa nella popolazione di una maggiore sicurezza? Il ministro Maroni ha detto che, invece, bisogna essere ‘cattivi’ con i clandestini…

La Chiesa non è buonista, è realista (nessuno è stato più realista di Gesù Cristo) perché tiene conto di tutta la realtà e di tutte le esigenze dell’uomo. Noi non dimentichiamo le esigenze legittime della sicurezza dei cittadini. Diciamo sempre che accoglienza e sicurezza non vanno separate. La congiunzione et è molto cattolica. Né buonisti né cattivi. Bisogna invece essere giusti. Applicare leggi giuste. Muoversi in direzione di quella che in America chiamano “comprehensive law”, leggi che tengano conto di tutti gli aspetti del problema. Se si vuole più sicurezza, ad esempio, non si dovrebbero contrastare i ricongiungimenti familiari. La famiglia è elemento di stabilità, di maggiore ordine sociale.  

Ma i governi hanno il diritto di regolare i flussi dell’immigrazione...

Certo, hanno questo diritto. Nessuno lo contesta. Ma essere giusti significa per esempio anche riconoscere che i flussi sono misti. Fra chi bussa alle nostre porte, ad esempio, ci sono anche tanti richiedenti asilo. E queste persone non possono essere respinte. È una questione di civiltà, di giustizia, appunto, di diritto internazionale pluridecennale e rodato.

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PASTORALE DELLA MOBILITÀ UMANA

INTERVISTA DELL’ARCIVESCOVO AGOSTINO MARCHETTO ALL’AGENZIA FIDES

(25 aprile 2009) 

Eccellenza Reverendissima, di cosa si occupa il Pontificio Consiglio di cui Lei è Segretario?

Il Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti ha il compito di assistere il Santo Padre per dirigere “la sollecitudine pastorale della Chiesa alle particolari necessità di coloro che sono stati costretti ad abbandonare la propria patria o non ne hanno affatto … [Esso] procura di seguire con la dovuta attenzione le questioni attinenti a questa materia [e] … si impegna affinché nelle Chiese locali sia offerta un’efficace ed appropriata assistenza spirituale, se necessario mediante opportune strutture pastorali, sia ai profughi e agli esuli, sia ai migranti, ai nomadi e alla gente del circo … Favorisce parimenti … la cura pastorale in favore dei marittimi sia in navigazione che nei porti, specialmente per mezzo dell’Opera dell’Apostolato del Mare, della quale esercita l’alta direzione [e] … svolge la medesima sollecitudine verso coloro che hanno un impiego o prestano il loro lavoro negli aeroporti o negli aerei. [Inoltre, il Pontificio Consiglio] si impegna affinché i viaggi intrapresi per motivi di pietà o di studio o di svago favoriscano la formazione morale e religiosa dei fedeli” (Pastor Bonus, art. 149-151). 

Come Chiesa, in che modo possiamo essere effettivamente presenti, con una pastorale adeguata e specifica, tra migranti, rifugiati, sfollati, studenti internazionali, e quanti vivono e subiscono i condizionamenti che derivano dalle molteplici esperienze della mobilità umana? Come può questa presenza essere anche evangelizzatrice e missionaria? Come può essere legata alla promozione umana e allo sviluppo integrale, tanto necessari e urgenti? In concreto, nell’adempimento del suo mandato, il nostro Pontificio Consiglio cosa ritiene debba essere promosso da parte delle Chiese particolari?

L’esperienza del nostro Consiglio insegna che un’effettiva presenza pastorale della Chiesa tra i migranti, i rifugiati e gli itineranti dipende, in generale, dalla formazione di sacerdoti e di altri operatori pastorali nel campo della mobilità umana, da un’adeguata organizzazione pastorale (“solidarietà pastorale organica”), e dalla cooperazione interecclesiale a livello diocesano, nazionale, regionale, continentale e universale, come espressione e realizzazione della summenzionata solidarietà.

a. Formazione

Il primo passo da compiere, perciò, è la preparazione dei futuri sacerdoti e degli altri operatori pastorali, come pure la formazione permanente di quanti sono già attivi nel ministero.  I Documenti della Chiesa vi fanno riferimento innumerevoli volte. Noi riteniamo, perciò, indispensabile lo sviluppo di una mentalità e di una spiritualità che incontrino Cristo nel rifugiato, nel migrante e nello straniero. Nel 1986, la Congregazione per l’Educazione Cattolica, in stretta collaborazione con il nostro Dicastero, redasse una Lettera circolare ai Vescovi e ai Rettori dei Seminari allo scopo di assicurare che la formazione dei futuri sacerdoti, oltre che dal punto di vista accademico, li avrebbe adeguatamente preparati ad affrontare il crescente fenomeno della mobilità umana e ad essere efficaci in una missione pastorale specifica. Nel 2005, i nostri due Dicasteri hanno ribadito, in un’altra Lettera congiunta, la comune preoccupazione riguardo la formazione di sacerdoti e seminaristi sulle questioni relative alla mobilità umana (v. A.A.S. XCVIII/1). La formazione, tuttavia, non è solo accademica; essa richiede spiritualità, come afferma Papa Giovanni Paolo II in Ecclesia in Africa (n. 136): “Non basta rinnovare i metodi pastorali, né organizzare e coordinare meglio le forze ecclesiali, né esplorare con maggiore acutezza la basi bibliche e teologiche della fede: occorre suscitare un nuovo ‘ardore di santità’ fra i missionari e in tutta la comunità cristiana,”  per servire, in questo caso, Cristo presente nello straniero (cfr. Mt. 25, 37-40).

b.  Strutture pastorali

La seconda azione è la creazione di appropriate strutture nazionali e diocesane, in particolare di Commissioni per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti (della mobilità umana) oppure, ove ciò non sia possibile, la nomina di un Promotore Episcopale. Questo passo, che richiede l'impegno di un numero minimo di persone e un investimento ridotto di risorse, dipende in grande misura dalla convinzione della sua importanza e della sua necessità, espresse specialmente attraverso la formazione in mobilità umana. Laddove Commissioni di questo tipo già esistono, esse sono un punto stabile di riferimento pastorale, distinto dalla Caritas o dalla Commissione Giustizia e Pace, con cui, naturalmente, collaborano. Esse sono volte a promuovere in maniera specifica l’accoglienza, per essere Chiesa-Famiglia con coloro che hanno subito e subiscono ancora il trauma e la croce dell’esilio o che sono stranieri in terra straniera. Promuovendo le celebrazioni sacramentali e liturgiche, le devozioni, le visite pastorali, la catechesi, e la pastorale missionaria, tali Commissioni aiutano la Chiesa locale a stabilire la propria presenza tra i migranti e i rifugiati, in un modo che, di solito, la differenzia da altre agenzie umanitarie e organizzazioni non governative. Purtroppo, molti Paesi che affrontano quotidianamente sfide significative nel campo della mobilità umana non dispongono di una struttura funzionante. Noi crediamo che sia urgente porvi rimedio almeno, all’inizio, con la figura del Promotore episcopale.

c. Cooperazione pastorale

Terzo, formazione e strutture adeguate vanno di pari passo con la cooperazione tra parrocchie, diocesi, Conferenze episcopali, strutture regionali, continentali e universali di comunione ecclesiale. Poiché migranti e rifugiati superano i confini ecclesiastici e nazionali, la risposta della Chiesa comporta necessariamente uguali dimensioni (“Chiesa senza confini”). Ad esempio, la presenza di un vasto numero di esuli e di persone in cerca d’asilo che fuggono in un Paese vicino, costituisce un obbligo pastorale che può essere difficile da adempiere. Qualcosa di simile si può dire dei bisogni pastorali di vasti gruppi di migranti, compresi quelli interni (e profughi), che si stabiliscono in città di più ampie dimensioni. Queste e simili situazioni richiedono contatti, legami e accordi tra Chiesa di partenza e quella di arrivo, per assicurare un’adeguata presenza pastorale.

(1) Nella Chiesa di arrivo

La formazione, un minimo di strutture e la cooperazione possono meglio assicurare l’accoglienza, la comunicazione e la risposta all’esperienza della lontananza dalla propria casa. Ciò stimola la Chiesa locale di arrivo a seguire l’esempio del Buon Pastore, ad andare a cercare coloro che forse esitano ad avvicinarsi ad essa per motivi di lingua, cultura e perfino status legale, e ad invitarli nella sua Famiglia. Essi dovrebbero trovarvi un atteggiamento di simpatia che sostenga la loro fede e la loro fiducia in Dio, cosa anche questa molto importante. Là i migranti possono trovare sollievo da altre comuni esperienze, quali la discriminazione o il fatto di essere emarginati per mancanza di lavoro o attività illegali. Tutto questo li può preservare da ciò che indebolisce la Chiesa-Famiglia, come l’attrattiva delle sette o dell’Islam. La sicurezza che deriva dalla consapevolezza di fare anch’essi parte di questa Famiglia permette ai migranti di integrarvisi e portarvi il loro contributo.

Se i migranti appartengono ad altre Chiese o comunità ecclesiali cristiane, o sono seguaci di altre religioni, il fatto di accoglierli con rispetto fornisce l’opportunità di stabilire quel dialogo di vita che è un aspetto chiave dell’ecumenismo e delle relazioni inter-religiose. È anche occasione per presentare il Vangelo, specialmente spiegando la nostra testimonianza dell’amore di Cristo (cfr. 1 Pt. 3,15).

(2) Nella Chiesa di partenza

Una pastorale specializzata è necessaria anche nei luoghi da cui provengono i migranti. La migrazione, ad esempio, colpisce la famiglia, specialmente quando separa i coniugi e aumenta il fardello delle donne capofamiglia. Ciò è ancor più drammatico se le persone sono costrette a fuggire dalle proprie case e ad abbandonare le proprie famiglie. Tali realtà richiedono, ove possibile, una particolare attenzione pastorale e programmi specifici.

Un altro servizio pastorale riguarda la preparazione di coloro che prendono in considerazione la possibilità di migrare, come avviene in alcuni Paesi. Ciò può offrire loro un’occasione per discernere con saggezza se devono emigrare, dotandoli delle “armi della luce” (Rom 13,12) per far fronte a una esperienza tanto difficile e molte volte pericolosa. Può anche facilitare il contatto con la Chiesa locale nei Paesi di arrivo e ricordare loro la chiamata a testimoniarvi il Vangelo.

Tutto ciò richiede una pastorale che combini approcci territoriali e specifici (cf. CIC can. 529, § 1; 568; 518; 564 e CCEO can. 280, §1) in adempimento alle direttiva del Concilio Ecumenico Vaticano II: “Si abbia un particolare interessamento per quei fedeli che, a motivo delle loro condizioni di vita, non possono godere dell'ordinario ministero dei parroci o sono privi di qualsiasi assistenza: tali sono i moltissimi emigranti, gli esuli, i profughi … ed altre simili categorie … Le Conferenze episcopali … dedichino premurosa attenzione ai più urgenti problemi riguardanti le predette categorie di persone, e con opportuni mezzi e direttive, in concordia di intenti e di sforzi, provvedano adeguatamente alla loro assistenza religiosa, tenendo presenti in primo luogo le disposizioni date o da darsi dalla Santa Sede e adattandole convenientemente alle varie situazioni dei tempi, dei luoghi e delle persone” (Christus Dominus, 18).

Conclusione: il nostro profondo desiderio di lavorare in particolare con i vescovi responsabili della cura pastorale di migranti, rifugiati e itineranti.

Il nostro Pontificio Consiglio desidera profondamente lavorare con i Vescovi, le Conferenze episcopali e le Organizzazioni regionali e continentali in comunione ecclesiale, da un punto di vista pastorale, in favore dei migranti, dei rifugiati e di altre persone in mobilità. I mezzi a disposizione delle Chiese locali sono, fra gli altri, una formazione specifica e un minimo di organizzazione. Come rappresentanti della sollecitudine universale affidataci dal Santo Padre, siamo desiderosi di cooperare con l’Episcopato universale per promuovere la presenza specifica della Chiesa nel mondo della mobilità umana, cioè tra migranti, rifugiati, richiedenti asilo, soggetti al traffico di esseri umani, apolidi, studenti esteri, marittimi, aeronaviganti, nomadi, circensi e fieranti, gente della strada, chi corre sulle strade, turisti e pellegrini. 

Secondo la Sua esperienza, l’opera pastorale nei confronti dei migranti e degli itineranti può anche essere opera missionaria?

Dalla presentazione che ho fatto del nostro Pontificio Consiglio si può già dedurre il tenore della mia risposta affermativa alla Sua domanda. Ma aggiungo proprio un’esperienza personale che – con il senno di poi – preludeva al mio attuale incarico. Durante le mie vacanze, per praticare un po’ il mio tedesco, nel 1965 sono stato ospite di una parrocchia a Mainz Kastel.

Ebbene, colà ho trovato molti italiani, alcuni abitavano baracche in cui ballavano i topi e ho organizzato per loro qualche corso di tedesco rudimentale ma anche l’assistenza spirituale, la Santa Messa, la possibilità della confessione, ecc. Certo consideravo un’opera missionaria la mia, forse non nel senso comune del termine nei territori missionari. Ma anche qui  bisognerebbe rinnovare la visione. In passato i nostri missionari (vi fu un’epopea missionaria in Africa, nel secolo scorso) andavano in capo al mondo per evangelizzare e promuovere umanamente tante popolazioni. Ebbene, ora parte di quelle popolazioni viene a noi, arriva in Occidente. Forse che questo non potrebbe essere un invito anche alle Congregazioni religiose missionarie, per esempio, a considerare i loro “piani pastorali” tenendo conto di questa realtà anche nella destinazione delle proprie forze, del proprio personale, diciamo così?  

Spesso i migranti e gli itineranti vengono discriminati. Come è possibile far sì che la società odierna impari a guardare diversamente a queste persone, senza pregiudizi?

C’è l’intolleranza, la discriminazione, la xenofobia, il razzismo: sono cose diverse ma che portano spesso agli stessi risultati, più o meno gravi. Ed è vero che tutti noi abbiamo i nostri pregiudizi, idee radicate e magari ingiuste.

 Lei parla della società odierna, ma questo concetto va incarnato in vari tipi di società.

Se penso alla società civile, ritengo prioritaria l’opera di educazione, la famiglia e la scuola dunque, per vincere i pregiudizi, per far conoscere i diritti umani, la dignità di ogni persona, la bruttura della violenza, dell’offesa, del turpiloquio, la necessità dell’attenzione e del rispetto verso i più deboli, anche delle leggi naturalmente.

La società ha bisogno di un supplemento d’anima, di solidarietà, di altruismo. Ma più l’altro è diverso da me, con più difficoltà lo accolgo e ne ho quasi paura anche perché ci sono episodi di illegalità e violenza degli uni e degli altri. Ma la paura non è buona consigliera. Lo Stato deve fare la sua parte per creare sicurezza, ma essa va insieme con accoglienza. È un binomio inscindibile che la Chiesa continuamente ripropone.

A proposito di Chiesa, anch’essa ha la sua missione, per aprire i cuori alla carità e all’accoglienza. Nello straniero è presente Cristo in modo speciale, lo sappiamo. In questa linea deve andare la catechesi,  la predicazione, la nostra scuola, eccetera.  

Lei più volte ha parlato della pastorale per coloro che viaggiano nelle nostre strade, per i camionisti ad esempio, ma anche di una pastorale negli autogrill. Quale le indicazioni principali che si sente di dare in merito?

Sette anni fa abbiamo risuscitato, nel Pontificio Consiglio, il settore della pastorale della strada. È stata una bellissima e audace decisione che ha portato nel 2007 alla stesura di “Orientamenti pastorali” a tale riguardo, il cui testo si può trovare sulla nostra rivista People on the move o sul sito del Vaticano → Curia Romana →Pontificio Consiglio.

Da essi risulta che questo “ambiente” stradale comprende 4 sottosettori. Essi riguardano gli automobilisti, i camionisti, chi usa la ferrovia e chi è al loro servizio, e poi i ragazzi e le donne di strada,  e i senza fissa dimora.

Abbiamo già avuto, lo scorso anno, un incontro continentale a Bogotà, al riguardo, e fra qualche mese ve ne sarà uno europeo.

Ho partecipato da poco a Innsbruck a un incontro europeo per la sicurezza della strada, con particolare attenzione ai camionisti e questo dice della possibilità di collaborazione tra autorità governative, civili  e Chiesa al servizio della difesa della vita anche sulle nostre strade, affinché non vi siano su di esse morti e feriti in così gran numero che sembra di essere in presenza  di una guerra stradale.

Su questo tipo di pastorale siamo agli inizi, direi, e non mi riferisco al magistero ecclesiale che a tale proposito ha più di 50 anni.

Belle esperienze ci sono in Germania meridionale, in Brasile, in Spagna, in Austria e in altri paesi.

Qui molto vale la creatività degli agenti pastorali, il loro zelo e la ricerca di occasioni di incontro. 

L’Italia è un paese accogliente? Sappiamo accogliere chi passa sul nostro territorio? E la politica riesce a capire davvero i problemi che queste persone hanno?

Preferisco allargare lo sguardo oltre l’Italia, anche perché il mio pensiero a suo riguardo l’ho espresso anche recentemente.

In una visione generale, dunque, direi che vi è una riduzione dell’accoglienza anche a livello legislativo e ciò vale sia per i migranti diciamo economici sia per quelli che fuggono dal loro paese per persecuzione, guerra o anche per questioni ecologiche (è una categoria che si dilaterà in futuro).

L’accoglienza dunque è al ribasso o diventa una scelta solo a favore di chi interessa un certo paese (il suo sviluppo, le sue necessità), con esclusione degli altri, indipendentemente dalle loro necessità, dal bene comune universale. Certamente nel mondo intero c’è chi opera, lotta, pensa, a favore dei migranti anche forzati e difende i diritti umani pure dei migranti irregolari, e me ne rallegro.

 Nella mia ultima visita negli Stati Uniti ho ammirato di nuovo l’organizzazione di quella Chiesa a favore dei migranti, anche se la pastorale specifica prevista dalla EMCC incontra le sue difficoltà.

La politica riesce a capire? Lei domanda.

Sì, quella alta, in senso largo e non solo di lotta partitica, dovrebbe capire, perché – come diceva Paolo VI – è un’eminente espressione della carità che va insieme con la giustizia, la verità e la libertà. Sono i quattro pilastri dell’edificio della pace nella Pacem in terris, insegnamento ripetuto dai Pontefici successori del beato Giovanni XXIII.

La politica riesce a capire? Invito ciascun lettore a rispondere in cuor suo, davanti a Dio e al cospetto dell’umanità sofferente.

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MIGRACiÓN, INTEGRACiÓN

EL PAPEL DE LA IGLESIA EN EUROPA.

Entrevista a Su Excelencia Agostino Marchetto

PUBLICADA EN "Vida Nueva"

(31 de agosto de 2009)

 

"El primer derecho debe ser no verse forzado a emigrar"

El Pontificio Consejo de la Pastoral para los Emigrantes e Itinerantes es uno de los dicasterios de la Santa Sede que con mayor asiduidad aparece en la primera línea de la actualidad. Denuncia sin miedo los abusos sufridos por los inmigrantes y defiende sus derechos, lo que le ha granjeado la antipatía de los partidos políticos más xenófobos. Su Secretario, el arzobispo titular de Écija Agostino Marchetto, se ha convertido en una de las voces europeas que con más insistencia y autoridad despierta la conciencia de ciudadanos y Gobiernos sobre el drama de la inmigración. Su última intervención pública tras la muerte de 73 irregulares africanos que intentaban llegar desde Libia hasta Italia le ha valido que un miembro de la Liga Norte le llamase primero “catocomunista” y luego “comunista” a secas. 

1-¿Se ha sentido ultrajado por estas acusaciones?

Si la doctrina social de la Iglesia es comunista yo acepto ser comunista, en el sentido de los Hechos de los Apóstoles. Pero no creo que nosotros, representando esta posición en el campo de las migraciones, seamos comunistas. El problema es que la gente no conoce dicha doctrina. Muchos que se dicen católicos tampoco le hacen caso, lo que es algo sorprendente. Después de tantos años de magisterio de Juan Pablo II en los que decía que la doctrina social de la Iglesia es una realidad de teología moral y ética, no sé cómo la gente dice que es católica y no se inspira en ella. Nuestra actitud, además, defiende el bien común y la dignidad de las personas, no sirve a intereses políticos de ningún partido, gobierno u oposición. 

2-¿Hay riesgo de que se radicalicen los partidos políticos en Europa al estilo de la Liga Norte, que hacen de la inmigración un campo de batalla político?

El riesgo siempre existe y hay partidos en Europa con una actitud parecida. Hay un legítimo deseo de seguridad entre los ciudadanos, pienso que constituye una de las primeras obligaciones de los Estados: deben hacer que la gente se sienta segura. Por otro lado, debe haber consideración de que existe una necesidad de la presencia migratoria, se trata de una realidad estructural en el mundo de hoy.

3-¿Por qué algunos países como Italia están teniendo tantos problemas para aceptar a los inmigrantes?

Hay una falta de memoria histórica. Se han olvidado las experiencias nacionales. Deberíamos aprender de los sufrimientos de las generaciones anteriores. Creo además que Italia, como España, ha tenido un fuerte aumento en el porcentaje de población extranjera durante los últimos años. La crisis económica también es otro elemento que ha influido, así como el mal comportamiento de una minoría de los inmigrantes. En estos casos la prensa tiene un papel fundamental: dificulta la integración si da demasiado relieve a estos casos y no cuenta las millones de historias buenas. 

4-¿ Recientemente se ha producido la tragedia de la muerte de 73 inmigrantes eritreos que intentaban llegar a Italia desde las costas libias. ¿Cree que si la Unión Europea tuviese más competencias en inmigración se evitarían casos así?

Los problemas de la inmigración no se pueden resolver con el compromiso de un solo país. Hace falta una colaboración entre las naciones de salida, las de tránsito y las de llegada. Hasta ahora la cuestión migratoria en Europa ha sido dejada a los Estados con excepción de los refugiados. Espero, eso sí, que una nueva política común no signifique una disminución en el nivel de atención a los inmigrantes. Se debe, además, llevar a cabo un compromiso con los refugiados, con los perseguidos y con los que tienen derecho a asilo para que no ocurra como ahora, que en muchas ocasiones se viola su derecho a pedir ser acogidos. Hay que respetar este principio humanitario básico. También se debe mejorar la situación de los países pobres. Muchos inmigrantes vienen porque no pueden realizar su propia vida en sus países de origen. El primer derecho debe ser no verse forzado a emigrar. Es denunciable que muchos de los países que dicen que se debe favorecer el desarrollo local de estos países luego no tienen actitudes consecuentes, ya que el porcentaje del PIB dedicado a ayuda al desarrollo es insuficiente. 

5-¿Cuál es su diagnóstico respecto a la situación de los inmigrantes en Europa?

Pienso que la situación es bastante negativa, especialmente si pienso en los millones de irregulares y que en algún país se pide incluso a los médicos que los denuncien. Afortunadamente de la UE también llegan algunas buenas noticias. El Parlamento Europeo ha advertido de la importancia de la reagrupación familiar y sobre las consecuencias de la fuga de cerebros en el sector sanitario y educativo. Afirma además el principio de igualdad en el tratamiento a los inmigrantes regulares y a los ciudadanos europeos, reconociendo que aquellos tienen una base de derechos socioeconómicos. Los eurodiputados, además, han invitado a los Estados miembros a que ratifiquen la Convención de Naciones Unidas sobre la tutela de los derechos de todos los trabajadores migratorios y de sus familiares. 

6-¿ Con las ayudas económicas surge el problema de la corrupción de los mandatarios locales. Cuando se intenta construir infraestructuras o fábricas impulsadas por los países ricos en naciones pobres surge siempre la denuncia por neocolonialismo. Y en las ocasiones en que se forma en Occidente a las élites intelectuales del Sur se dice que hay fuga de cerebros. Cada una de las opciones tiene su crítica inmediata. ¿Qué se debe hacer entonces?

Acaba de tocar todas las cuestiones que surgen al analizar este tema. Creo que si vamos a hacer una inversión en formación, y no sólo me refiero a educación, valdrá para todos. Es decir, favorecerá un desarrollo autónomo, el cual no puede ser impuesto. La corrupción, como dice, es un problema a considerar. La cuestión de fondo es la necesidad de que surja un nuevo orden económico mundial. Un ejemplo de ello es el G20, en el que se intenta que no sólo cuenten los países ricos. El impulso del comercio internacional, al igual que el fin de las ayudas a la agricultura en los países ricos, constituyen una cuestión fundamental. De todas formas, la lista de elementos a cambiar para propiciar el desarrollo sería muy larga. Para el Pontificio Consejo los foros sobre desarrollo y migración que se celebran anualmente son una tentativa de hacer comprender que hay una relación clara entre estos ambos elementos. Para quien sólo tiene en cuenta las cuestiones financieras es una oportunidad para que vea como la realidad económica está relacionada con la inmigración. 

7-¿Qué se debe hacer para que aumente el respeto a los derechos de los inmigrantes?

El respeto al prójimo, especialmente si es extranjero, depende sobre todo de la convicción que tengamos acerca de su dignidad. Esta puede venir de una razón laica, como la fraternidad, la igualdad y la libertad, proclamada y no siempre cumplida por la Revolución Francesa. También puede tener origen en su versión liberal estadounidense. Tras pasar por diversas tragedias, en el siglo pasado se llegó a la Declaración de los Derechos del Hombre. Con ella al menos se han establecido unos principios de referencia, influenciado sin duda por el drama de la última gran guerra. Pienso que ahora sería difícil llegar a un acuerdo tal. Hablo desde un punto de vista laico, pero no olvido cuanto de ello influye al humanismo integral cristiano. En cualquier caso para el creyente no hay duda de que la motivación por el respeto crece si se piensa que todos estamos hechos a imagen y semejanza de Dios. Igual ocurre si se cree que el prójimo es nuestro hermano en la fe, que Jesucristo al final de nuestros días nos juzgará basándose en la caridad. Esto va más allá del respeto porque alcanza al amor del prójimo, del extranjero. En él está presente Cristo. 

8-¿Qué es más difícil para integrarse en un nuevo país: tener una cultura o una religión diferente?

Antes de responderle le digo que la integración no significa asimilación. Es decir, debemos pedirle al inmigrante, como anima nuestro Pontificio Consejo, que se una y ame el país de acogida hasta defenderlo al tiempo que continúa con su propia identidad cultural y religiosa. Hablo a la vez de cultura y religión porque esta última es también un elemento cultural. Hay necesidad, por tanto, de diálogo intercultural y también interreligioso. La integración no tiene que ver sólo una de las partes que dialoga. Además, no me siento inclinado hacia el multiculturalismo ya que, al final, lleva a crecimientos separados, al ghetto o al apartheid cultural. Digo esto siendo consciente de las dificultades de la integración pero, al mismo tiempo, es esa la gran propedéutica para la convivencia mundial, para la realización de la paz entre los pueblos que deben formar una sola familia, de la humanidad entera. La Instrucción Erga migrantes caritas Christi de este Pontificio Consejo, confirmada por el Papa Juan Pablo II, atestigua que las migraciones no son sólo un problema sino también una señal de estos tiempos, una ocasión de nueva humanidad porque nos sitúa cerca de los que estaban lejos y nos hace ver la ayuda que nos dan mientras nosotros les socorremos. Trabajar juntos, estar en la misma casa como cuidadores, es una gran ocasión de paz. 

9-¿Qué puede hacer la Iglesia para ayudar a la integración de los inmigrantes?

La Iglesia, esta magnifica Iglesia comprometida con los inmigrantes, es factor de integración. Pensemos, por ejemplo, en la Exsul familia de Pio XII y al movimiento pastoral que ha confirmado. Me refiero al papel que las instituciones eclesiales desempeñan en la acogida y la primera asistencia, por ejemplo con Cáritas y otras generosas y eficaces organizaciones de caridad. Después viene, como decía Juan Pablo II, el acompañamiento al inmigrante en la cultura del país de acogida. En este contexto podemos ver la función de la pastoral específica de la movilidad humana. Por primera vez en los documentos eclesiales, nuestra Instrucción Erga migrantes caritas Christi hace una categorización dando orientaciones para la pastoral de cualquier grupo, sean católicos de rito latino, de las Iglesias orientales católicas, cristianos de otras Iglesias o creyentes de otras religiones, con especial atención a los musulmanes. También con los fieles del Islam hay que tener una pastoral. Esta pastoral debe ser vista como una ayuda respetuosa a que conserven su apertura hacia lo trascendente en una sociedad, como la nuestra, que está cada vez más secularizada y lejana a Dios. 

10-¿ Por qué Europa se muestra cada vez más agresiva con los inmigrantes?

Creo que sobre todo es una cuestión de número, de porcentaje de presencia no autóctona en un determinado territorio. Cuanto más crece el numero de inmigrantes, más aumenta también la sensación entre algunas personas de vivir una cierta invasión, casi un ahogamiento, de tener menos libertad y de ser menos dueño del propio espacio. Luego está, además, la cuestión de la competencia por el trabajo, por la vivienda. Hay que tener también en cuenta que algunos partidos políticos explotan estos sentimientos y miedos por intereses electorales. La agresividad tiene, pues, una vasta base. 

11-¿ La familia es uno de los pilares de la integración. No obstante cada vez es más difícil el reagrupamiento familiar de los inmigrantes.

Además de facilitar la integración, la familia impulsa una convivencia más pacifica. Por ello no entiendo por qué se hacen políticas que obstaculizan la reagrupación esgrimiendo motivos de seguridad. Este es uno de los puntos en los que la Iglesia es más sensible. Las familias separadas, divididas por la inmigración, se disuelven más fácilmente y todos entendemos lo que esto significa para sus miembros, especialmente para los hijos. 

12-¿ Otro de los pilares de la integración son los jóvenes. ¿Cómo se puede trabajar con ellos para que se sientan cómodos en las sociedades de los países de acogida?

Los jóvenes constituyen una opción pastoral prioritaria, pero no deben ser una prioridad sólo para la Iglesia. También el Estado ha de dedicarles atención: son nuestra esperanza, también en lo referente a la integración. Según estimaciones oficiales, un tercio de los emigrantes mundiales tiene una edad media comprendida entre los 15 y los 25 años. A éstos hay que sumar los hijos de los emigrantes de primera generación. Es, por tanto, un mundo juvenil muy grande el que afronta el desafio de la integración. Lo hace con problemas particulares y necesidades especifícas, en las cuales hay espacio para la contribución de la Iglesia motivada de valores cristianos. Para trabajar con los jóvenes inmigrantes de segunda generación y pertenecientes a minorías étnicas hay que tener en cuenta, primero, que se trata de un grupo amenazado por la marginación y con un doble sentido de pertenencia. Además de respuestas espirituales, las instituciones religiosas han habitualmente ofrecido a los trabajadores migratorios y a sus familias ayudas materiales y recursos sociales, impulsando así la promoción de redes sociales basadas en la doble pertenencia confesional y étnica. El papel de la Iglesia es relevante en una doble perspectiva: salvaguarda la identidad cultural y favorece la integración en un nuevo contexto. Estos dos aspectos no se oponen sino que se cruzan: muchos jóvenes inmigrantes se convierten en ciudadanos de una nueva patria que les brinda una vida mejor gracias precisamente a los recursos que la adhesión religiosa les ha dado. 

13-¿ En varias intervenciones usted habla de "nuevos modelos" de integración. ¿A qué se refiere?

Sobre todo a que no se debe pensar en el modelo de la asimilación o en el multicultural. Le digo lo que respecto a este asunto afirmé en un reciente discurso centrado en la adolescencia de menores migrantes. Una política sabia modula su intervención sobre la acogida de los adolescentes aceptándolos como son. La escuela y las asociaciones juveniles deben favorecer su maduración humana protegiendo su cultura de origen. El adolescente será un buen ciudadano europeo cuando se le favorezca el desarrollo de su personalidad. Por tanto, hay que apoyar su participación en la escuela de todos y para todos, que valore los recursos personales con misericordia. Uno de los grandes padres de la utopía pedagógica, Jean-Jacques Rousseau, ya denuncia que la ignorancia hacia las culturas diferentes es una de las razones de posibles conflictos. Por tanto, la política europea tiene que convertirse en apetecible para los inmigrantes, debe ser sostenible. Una política para las familias de trabajadores migratorios tiene que ofrecer más que pedir. En esta perspectiva la Iglesia no reivindica el puesto del Estado, que es insustituible, sino que pide una sana colaboración con la comunidad política. Así se ofrecerá un servicio al hombre y a la juventud, a la "generación del sufrimiento", que es como se llama a la segunda generación de inmigrantes. 

14-¿La universalidad de la Iglesia puede servir de modelo para la integración?

La Iglesia católica, también para quien no cree, es una institución local y al mismo tiempo universal. Para el fiel existe una Iglesia particular de la que es miembro y al mismo tiempo forma parte de la Iglesia universal. Gracias a la profética intuición de Pío XII, el inmigrante se convierte en miembro de la Iglesia de acogida, de la que es responsable el obispo. Está previsto un proceso de integración con la puesta en práctica de una obra pastoral específica sobre la movilidad humana. La Iglesia de origen debería, por tanto, ayudar en este proceso de integración en la Iglesia local, durante la primera y segunda generación de inmigrantes, con la presencia de agentes pastorales de la misma lengua, cultura y hasta religiosidad popular del recién llegado. Estos agentes deben ser un puente entre el inmigrante y la sociedad de acogida, además de con la Iglesia local. Se trata, al final, de una presencia de la Iglesia en el territorio, expresada por la Iglesia de proveniencia. El modelo es, por tanto, el de la progresión, un gradual proceso de integración que debe seguir, en mi opinión, también el Estado.  

 

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