The Holy See
back up
Search
riga

INCONTRO DELLE ALTE PARTI CONTRAENTI DELLA
CONVENZIONE SULLA PROIBIZIONE E LA LIMITAZIONE DELL'USO DI
ALCUNE ARMI CONVENZIONALI CHE POSSONO PRODURRE
EFFETTI TRAUMATICI ECCESSIVI O INDISCRIMINATI (CCW)

INTERVENTO DELL'ARCIVESCOVO SILVANO M. TOMASI,
OSSERVATORE PERMANENTE DELLA SANTA SEDE
PRESSO L'UFFICIO DELLE NAZIONI UNITE E
DELLE ISTITUZIONI SPECIALIZZATE A GINEVRA

Ginevra
Giovedì, 15 novembre 2012

  

Signor Presidente,

La storia dell’umanità, scritta o orale, è stata spesso una storia di guerre e conflitti. Il racconto più ovvio è quello dei conflitti armati, dove viene data priorità a interessi etnici, religiosi o nazionali senza tener conto dell’immenso costo umano. I civili, che non sono direttamente coinvolti nel conflitto, e tutti coloro che rientrano nella definizione di osservatori innocenti, hanno continuato a essere dimenticati durante i conflitti e spesso anche nei libri di storia. Tuttavia esiste anche un altro tipo di racconto, seppure di natura più modesta. Non è però meno efficace e promettente. Si tratta della storia parallela che si concentra sulla protezione dei civili e di coloro che non partecipano direttamente al conflitto. In sintesi, è la storia della coscienza umana che rifiuta la sofferenza inflitta a persone innocenti. Le fonti più antiche della storia dell’umanità rispecchiano l’idea fondamentale che nei conflitti militari “il diritto delle parti di scegliere i mezzi e i metodi bellici non è illimitato”, vale a dire che non tutto è accettabile.

Più di recente, a partire dal XIX secolo, abbiamo visto questa tendenza crescere e assumere la forma di un corpo di leggi che ogni parte di un conflitto armato deve rispettare. Tale tendenza ha avuto il suo culmine nelle Convenzioni di Ginevra sul diritto internazionale umanitario, che poi numerosi strumenti multilaterali hanno cercato di sviluppare e rafforzare. Il diritto internazionale umanitario ha finito col rappresentare un minimo di umanità in situazioni di violenza estrema e di incapacità di prevenirla.

È ovvio, però, che nonostante le disposizioni giuridiche, politiche e umanitarie, i civili nelle aree urbane continuano a essere di gran lunga le prime vittime dei conflitti armati. Questo fatto, pur non implicando che i principi del diritto internazionale umanitario siano inadeguati o superflui, solleva la questione fondamentale della sofferenza inutile e inaccettabile imposta alla popolazione civile.

Per illustrare questa realtà, è sufficiente guardare con attenzione alle statistiche relative alle vittime dei conflitti che il mondo ha vissuto a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo. Sia nei conflitti internazionali, sia in quelli locali, la stragrande maggioranza delle persone morte, ferite o rese disabili è costituita da civili, e i danni riguardano principalmente le infrastrutture civili e le risorse fondamentali per la sussistenza d’intere popolazioni. Seppure incompleti e limitati, i dati statistici forniscono informazioni sufficienti a raccontare la storia di una sofferenza inaccettabile e inutile e dimostrano che i principi fondamentali del diritto internazionale umanitario spesso non vengono rispettati. Sono abbastanza forti e convincenti da ammettere il rifiuto della scusa dei cosiddetti danni collaterali. Non basta la dichiarazione dei principi del diritto internazionale umanitario, né è sufficiente il ricorso ad argomenti formali. Dovrebbe essere la realtà concreta l’argomento inoppugnabile per documentare l’osservanza o il mancato rispetto di norme internazionali umanitarie vincolanti.

Il concetto di “danni inaccettabili ai civili”, nato quando 46 Stati nel 2007 hanno adottato una Dichiarazione che ha costituito il punto di partenza del processo di Oslo sulle munizioni a grappolo, è molto importante per rafforzare il diritto internazionale umanitario e renderlo più operativo. Questo concetto non indebolisce né contraddice i principi del diritto internazionale umanitario. Esige però che tutte le parti di un conflitto armato, attori statali o attori non statali, tengano conto dei principi del diritto internazionale umanitario, come anche di quelli dei diritti umani. Per la prima volta, nella Convenzione sulle munizioni a grappolo, l’assistenza alle vittime viene considerata un diritto umano. Si tratta di uno sviluppo notevole nel campo del diritto internazionale e nel rapporto tra il diritto internazionale umanitario e i diritti dell’uomo.

La legalità formale non è la sola condizione di accettabilità ad andare oltre il principio di proporzionalità, che darebbe la priorità al vantaggio militare. Un’operazione, o un attacco militare, può essere formalmente coerente con il principio di proporzionalità, ma inaccettabile alla luce degli standard attuali nella percezione della dignità umana e dei diritti dell’uomo. La nozione di accettabilità può anche essere collegata al concetto di “effetto cumulativo”, così come presentato dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia nel caso Kupreskic: gli attacchi che, di per sé, sono nella zona grigia della legittimità, possono essere considerati illeciti alla luce del loro effetto cumulativo nei confronti della popolazione civile.

Qualche anno fa, ricercatori, Ong, organizzazioni internazionali e alcuni governi si sono adoperati per rivedere la protezione dei civili che devono affrontare le conseguenze delle attività militari nei conflitti armati. Invece di trattare con ogni tipo particolare di arma, come è avvenuto per la Convenzione su alcune armi convenzionali (CCW), al centro della riflessione sono stati posti il concetto di armi esplosive e i loro effetti piuttosto che la tecnologia.

Le armi esplosive costituiscono un’ampia categoria di armi (bombe, munizioni per mortai, granate, razzi, missili, ordigni esplosivi improvvisati [Ied], autobombe, e così via), che non sono esplicitamente vietate dal diritto internazionale umanitario e che probabilmente non lo saranno mai. Ora, però, si stanno levando molte voci che mettono in discussione l’uso di queste armi nelle aree popolate e chiedono la protezione dei civili che vi vivono. Questo punto di vista è condiviso dal Segretariato Generale delle Nazioni Unite (Consiglio di Sicurezza, Rapporto del Segretario Generale sulla protezione dei civili nei conflitti armati, documento UN S/2010/579, 11 novembre 2010, par. 48–51), dal presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa (vedi “Sixty years of the Geneva Conventions and the decades ahead”, 9 novembre 2009, www.icrc.org/eng/ resources/documents/statement/geneva-convention-statement-091109.htm; Dichiarazione del 22 novembre 2010 di Yves Daccord, Direttore generale della Icrc, in Consiglio di Sicurezza, documento UN S/PV.6427, provvisorio, p. 10), dall’Istituto delle Nazioni Unite per la Ricerca sul Disarmo (Unidir, Discourse on Explosive Weapons [Dew] Project, www.unidir.org) e dalle Ong (Richard Moyes, Explosive Violence: The Problem of Explosive Weapons. London: Landmine Action, 2009).

L’esperienza insegna che molto spesso l’uso di armi esplosive nelle aree popolate ha causato un numero rilevante di vittime, grande distruzione d’infrastrutture socio-economiche, gravi traumi psicologici e per molti anni un ostacolo allo sviluppo. I bambini e le donne sono particolarmente colpiti. Questi risultati producono odio e ferite sociopolitiche difficili da guarire. Nel caso di conflitti interni o internazionali rendono la riconciliazione più difficile, se non impossibile, e diventano una contraddizione laddove si svolgono operazioni internazionali per ripristinare o mantenere la pace e conquistare il cuore e la mente della popolazione locale.

L’accettabilità delle perdite militari diminuisce in modo notevole, specialmente in determinati Paesi. I governi, le cui forze armate sono impegnate in conflitti armati, prendono in seria considerazione l’opinione pubblica riguardo alla questione delle perdite tra i propri militari. Purtroppo, però, non sempre ciò vale anche per quanto riguarda le perdite sproporzionate di civili che non appartengono alla stessa comunità nazionale. Ciò pone un problema di principio e un problema pratico: in primo luogo, la dignità della persona umana non dipende dalla lingua, dalla religione, dalla nazionalità o dalla geopolitica; in secondo luogo, la sofferenza e le ferite inutili e superflue sono inaccettabili ovunque e in qualsiasi circostanza.

La riflessione sulla questione delle armi esplosive è recente, ma contiene già la promessa di risultati positivi per la protezione dei civili nelle aree popolate. Il cammino da compiere potrebbe però essere lungo. Di fatto, è un impegno di tutta una vita che deve essere trasmesso da una generazione all’altra, al fine di offrire una protezione sempre migliore e di ridurre al minimo il numero delle vittime. Nel frattempo sono indispensabili misure provvisorie per costruire un’argomentazione forte e convincente al fine di spingere la comunità internazionale a considerare la protezione dei civili necessaria e urgente, specialmente nelle aree popolate, vista la rapida urbanizzazione del mondo. Tutti coloro che sono finora intervenuti sull’argomento hanno sottolineato quattro elementi:

1. È essenziale definire in modo più chiaro il quadro concettuale e la terminologia di base, affinché possano essere compresi meglio e accettati dai diversi attori.

2. Sebbene i dati disponibili siano sufficienti per poter dire, con una certa sicurezza, che l’uso di armi esplosive solleva il problema della protezione delle popolazioni civili nelle aree urbane, abbiamo anche bisogno di una maggiore trasparenza nella raccolta e nell’analisi dei dati, da parte di tutti gli attori e in primo luogo degli Stati stessi. Gli Stati, di fatto, devono dare prova concreta di aver rispettato i loro obblighi nel campo del diritto internazionale umanitario. Non si può che deplorare il fatto che gli Stati non svolgano una raccolta sistematica di dati sulle vittime civili e che, laddove lo fanno, di solito questi dati non vengono divulgati.

3. Gli Stati devono pubblicare le dichiarazioni politiche relative alle regole per l’utilizzo delle armi esplosive in generale e nelle aree urbane in particolare. Il fatto di pubblicare documenti di questo genere rafforzerebbe la nozione di responsabilità dello Stato dinanzi al suo popolo e alla comunità internazionale.

4. Anche quanti usano le armi esplosive devono riconoscere, in un modo o nell’altro, la loro responsabilità verso le vittime. Esistono già diversi strumenti legali che rendono l’assistenza alle vittime un elemento fondamentale degli obblighi accettati dagli Stati (Convenzione di Ottawa, CCM, Protocollo V). L’assistenza alle vittime è un diritto umano, un impegno umanitario e politico, e nasce dalla centralità della persona umana e dalla sua dignità inalienabile, che costituisce la base etica del diritto internazionale umanitario.

Per concludere, si può affermare con sufficiente certezza che è impossibile usare armi esplosive in aree popolate e mantenere una posizione di rispetto dei principi del diritto internazionale umanitario, che risulterebbe nella protezione dei civili. Purtroppo, la sola legge non può sradicare la guerra, i conflitti armati e la violenza armata dalla storia umana. Questi conflitti sono prova del fallimento dell’umanità nel suo sforzo collettivo di costruire civiltà pacifiche. È fondamentale adottare un approccio che vada oltre la legalità formale per raggiungere l’obiettivo di un’accettabilità e una tolleranza minima, se non una tolleranza zero, della sofferenza imposta a persone innocenti.

Signor Presidente,

Per tutte queste ragioni, la CCW deve impegnarsi in un dibattito costante sugli effetti delle armi esplosive nelle aree popolate e prendere le decisioni opportune per promuovere la protezione delle popolazioni civili in modo efficace.

  

top