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INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO
DEL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA

OMELIA DEL CARD. TARCISIO BERTONE

Cappella "Redemptoris Mater"
Sabato, 27 gennaio 2007

 

Narrabo nomen tuum fratribus meis: è questa la promessa che coralmente abbiamo appena assunto di fronte al Signore.

Narrare non è solo proclamare con convinzione la verità; è soprattutto riferire fatti, che hanno toccato la nostra sensibilità, che ci hanno colmati di gioia e che sono entrati nella nostra esistenza, costruendola; è rendere partecipi altri della nostra esperienza.

Maria, la Redemptoris mater, nel suo cantico narra con stupore le grandi opere di Dio; tutta la storia della salvezza scorre nelle sue parole.

Il nome di Dio è anzitutto Amore

Deus caritas est (1 Gv 4, 16). Creazione e Redenzione provano che Dio è l'amore: amore fedele ad ogni uomo, anche quando questi si ribella, amore che non si arrende, ma che continua a cercare, a inseguire con tutte le delicatezze chi si è smarrito. Dio, ci ricorda il Papa Benedetto XVI nella sua prima enciclica, è "amante con tutta la passione di un vero amore" (n. 10).

"Signore, mostraci il Padre e ci basta" (Gv 14, 8), chiede Filippo in un passo che precede il Vangelo di oggi. E Gesù rivela la sua unità con il Padre: "Io sono nel Padre e il Padre è in me" (Gv 14, 11); per questo solo Gesù con il suo amore può farci vedere chi è Dio e chi è l'uomo, e questo avverrà sulla croce. È la croce l'epifania di Dio! Papa Benedetto XVI con forza annuncia il culmine di questo amore divino, che "è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia" (Deus caritas est, n. 10).

La debolezza della croce spiega l'essere e l'operare di Dio, indecifrabili per la nostra intelligenza. Dio è il Padre di Gesù crocifisso, morto e risorto: è Colui che alla morte del Figlio dà il senso di vita. È il Dio più difficile da comprendere quello al quale grida il Cristo dalla croce. È il Padre che insegna al Figlio la capacità di soffrire. Il nome "Padre" va compreso con questa ricchezza di risonanze. Non è semplicemente da interpretare nell'ambito di un'esperienza psicologica, quasi traduzione dell'esperienza familiare di paternità. È un nome che certamente ha la sua prima connotazione sociale nella famiglia, ma nella Bibbia porta con sé un immenso tesoro di significati. Esso è in definitiva il dono della rivelazione di Gesù che ci fa partecipi della sua esperienza filiale.

L'unità con il Padre è la gloria del Figlio, ma sulla croce il Figlio diverrà la gloria del Padre in un totale abbandono di amore.

Proprio perché Dio è l'Amore, la fede si fonda sulla consapevolezza di essere amati, personalmente, senza misura, senza condizioni, in anticipo sulla nostra risposta. Mi piace a questo punto citare un testo scritto tempo addietro dal Cardinale Ratzinger, che narra attraverso l'esperienza personale, spirituale e umana, il senso profondo dell'abbandono fiducioso all'amore di Dio: "Quando vorrei gridare come Giobbe, come il salmista, allora io posso far confluire questo grido nell'invocazione "Padre". Lentamente il grido torna ad essere parola e la contestazione contro di lui diventa atto di affidamento: perché dal punto di vista del Padre diviene visibile che la costrizione di cui mi sento sottoposto, addirittura anche il mio apparente tormento è parte di quell'amore più grande, al quale io devo tutto me stesso" (Collaboratori della verità, Ed. San Paolo, 1994, p. 136).

Narrare che Dio è amore obbliga ad amare chi è amato dal Signore: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati" (Gv 15, 12).

Il Santo Padre Benedetto XVI evidenzia l'unico amore: "Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi" (Deus caritas est, n. 14).

Posare il nostro sguardo sugli altri "con gli occhi di Cristo" (Deus caritas est, n. 18) è prendere parte allo stesso movimento d'amore di Dio per ogni uomo. Non avvenga che per colpa del nostro egoismo, della nostra indifferenza, delle nostre omissioni, il nome di Dio venga nascosto o persino offeso.

Il nome di Dio è Emmanuele

L'angelo comunica a Giuseppe: "Sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi" (Mt 1, 23).

La ricerca di Dio non esige che lo si vada a cercare fuori di se stessi; c'è un solo percorso per arrivare a Dio: è quello di lasciarci incontrare da Lui. Nell'antico esodo la presenza di Dio in mezzo al suo popolo era localizzata nella tenda dell'incontro. Dopo l'esodo pasquale di Cristo ogni discepolo diventa tenda abitata da Dio.

Gesù aveva annunciato ai discepoli che sarebbe andato a preparare un posto per loro: "Io vado a prepararvi un posto" (Gv 14, 2); queste parole sono all'inizio del capitolo da cui provengono i versetti del Vangelo proclamati in questa S. Messa. Ma poco dopo Gesù assicura che già adesso il Padre e il Figlio prendono posto in noi, purché ci lasciamo condurre dallo Spirito dell'amore: "Se uno mi ama... noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui" (Gv 14, 23).

Chi fa l'esperienza del Dio-vicino necessariamente deve assumere uno stile di vita fatto di vicinanza. Sa essere vicino chi è accogliente e non si lascia orientare da pregiudizi, specialmente se deve giudicare gli altri; è vicino chi si fa premuroso, senza soffocare le altre libertà, e nelle relazioni si lascia motivare solo dalla giustizia, dalla verità e dalla gratuità; la vicinanza esige lealtà nel dialogo, e respinge l'arroganza che irrita e allontana; è vicino chi condivide spendendo del proprio, comprende l'altro, lo aiuta anche se sbaglia e proprio quando sbaglia.

Il nome di Dio è Paraclito

La parola greca "παρακλητος" è tradotta con termini che si illuminano a vicenda: avvocato difensore, consolatore, soccorritore (è una nuova carta di identità degli avvocati?).

La promessa del Paraclito viene consegnata da Gesù in un duplice contesto: da una parte Egli annuncia la sua partenza e dall'altra prevede per i discepoli l'odio del mondo, la persecuzione, l'incredulità. Siamo esposti certamente, ma difesi ed istruiti dal Paraclito: "Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto" (Gv 14, 26).

Invocare lo Spirito Paraclito è chiedere che egli difenda Gesù Cristo in noi e da noi. È supplicarlo perché difenda la nuova creatura che è in noi, a immagine di Cristo; la difenda da noi stessi, dalla sapienza umana, che non è sempre la sapienza della croce; la difenda dalle nostre falsificazioni.

Chiediamo allo Spirito Paraclito che difenda Gesù Cristo in noi, accusandoci ogni volta che noi Lo deformiamo.

Domandiamo allo Spirito Paraclito che difenda il Padre in noi, rimproverandoci ogni volta che noi escludiamo anche uno solo dei suoi figli.

Lo Spirito Santo ci dia la passione per la verità, che non è accusa contro questo o quest'altro, ma è invece dire la verità per amore della verità, affrontando senza stancarci la fatica di cercarla.

Per obbedire alla verità e per narrarla ai fratelli abbiamo bisogno che lo Spirito scenda su di noi, riposi nel nostro cuore, riversandovi i suoi doni.

In Nomine Domini! È l'incipit di ogni sentenza pronunciata nei Tribunali della Chiesa.
Essa è invocazione che nasce dall'umile consapevolezza dei limiti dell'uomo.

Continuiamo a supplicare lo Spirito Santo: mentes tuorum visita, perché al principio non siamo noi: al principio sta l'Unico che è Verità.

In Nomine Domini! Pronunciare queste parole è impegno grande, è responsabilità inderogabile: ogni parola del giudizio ecclesiastico deve, infatti, farsi eco del nome di Dio che è Amore, che è "Dio con noi", che è "Paraclito".

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