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CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA PER GLI STUDENTI DI TEOLOGIA
PARTECIPANTI AL CORSO PROMOSSO DALL'UFFICIO NAZIONALE DELLA CEI
PER I PROBLEMI SOCIALI E IL LAVORO

OMELIA DEL CARDINALE TARCISIO BERTONE

Chiesa di san Pellegrino in Vaticano
Mercoledì, 11 luglio 2007

 

Cari Fratelli Vescovi e sacerdoti,
cari seminaristi,
cari fratelli e sorelle,

grazie di cuore per avermi invitato a presiedere questa mattina l'Eucaristia durante le vostre giornate di studio e di aggiornamento teologico e sociale. L'Eucaristia, come ci ricorda il Santo Padre Benedetto XVI nell'Esortazione apostolica postsinodale Sacramentum Caritatis "è il mirabile Sacramento nel quale si manifesta l'amore "più grande", quello che spinge "a dare la vita per i propri amici"" (n. 1) e che diventa ogni giorno per noi credenti il fulcro della nostra esistenza e della nostra attività. Dall'Eucaristia ognuno di noi può trarre quella luce interiore e quella forza del cuore indispensabili per compiere la volontà di Dio e servirlo fedelmente nelle varie mansioni che la Provvidenza ci affida. Solo dall'Eucaristia anche voi, cari seminaristi di varie regioni italiane, potete attingere la sapienza del cuore che vi permetta di crescer nell'amore per essere domani testimoni di speranza e servitori del Vangelo come lo furono gli insigni maestri di vita e di santità con i quali, durante questo corso di aggiornamento, avete la possibilità di confrontarvi. E sono grato a mons. Paolo Tarchi, Direttore dell'Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Conferenza Episcopale Italiana, come pure a quanti hanno collaborato per la concreta realizzazione di questi giorni di studio, per avervi dato la possibilità di riflettere su questioni importanti della vita sociale, ponendone in evidenza i risvolti pastorali e guardando all'esempio di grandi santi.

Innanzitutto san Benedetto abate. Di lui celebriamo oggi la festa liturgica, e su di lui, durante gli anni scorsi, avete già avuto modo di soffermarvi a meditare. Il padre del monachesimo d'Occidente, del quale san Gregorio Magno descrive la vita e l'opera nei suoi Dialoghi, lasciò il "mondo" di Roma per ritirarsi presso Subiaco dove vivendo in una grotta maturò esperienze di vita eremitica. In seguito fondò diversi monasteri dando inizio ad una nuova e fiorente famiglia cenobitica. La celebre Regola di san Benedetto armonizza l'esperienza ascetica orientale, la saggezza romana con lo spirito del Vangelo. Benedetto concepiva il monastero come il luogo dove si realizza in pienezza, per quanto possibile sulla terra, il regno dei cieli. I monaci, secondo la sua intuizione, sono uomini liberamente sottomessi alla "scuola del servizio divino" sotto la guida saggia e paterna dell'abate che deve avere dalla sua parte una lunga e profonda esperienza di cose divine e umane. Nel monastero il tempo si divideva così sapientemente tra la preghiera e il lavoro, ed i successori di san Benedetto coniarono l'espressione divenuta famosa: "ora et labora". Per il monaco, il libro dello studioso o del copista, la forgia del fabbro o la vanga del contadino erano altrettanti strumenti da consacrare al servizio divino. All'inizio della Santa Messa, nella Colletta, abbiamo chiesto a Dio, che ha costituito san Benedetto maestro di coloro che dedicano la vita al suo servizio, di concedere "anche a noi di non anteporre nulla all'amore del Cristo". Questo, in definitiva, è l'insegnamento che vogliamo raccogliere anche oggi dal grande Abate compatrono d'Europa. Non anteporre nulla all'amore del Cristo fu il segreto della sua vita e della sua missione, e perciò la liturgia ce lo addita - lo ascolteremo tra poco nel prefazio - come "eminente maestro di vita monastica, dottore di sapienza spirituale nell'amore alla preghiera e al lavoro e fulgida guida di popolo alla luce del Vangelo". Solo restando uniti a Cristo come i tralci alla vite - ce lo ha ricordato poc'anzi la pagina evangelica - possiamo portare molto frutto e diventare discepoli del Signore (cfr Gv 15, 8).

Alla figura di san Benedetto si affianca per voi, in questi giorni di studio, quella di un altro grande personaggio che ha segnato la storia della Chiesa. Anche se non è stato canonizzato, la sua testimonianza risplende luminosa per tutti noi: è il gesuita Matteo Ricci. Di fronte alle nuove sfide con le quali l'evangelizzazione si confronta in questo nostro tempo caratterizzato dalla globalizzazione e dalla compresenza di molteplici etnie e religioni, egli costituisce un singolare modello di evangelizzazione e di dialogo con le diverse realtà culturali e religiose. Studioso appassionato dell'Oriente, illustre scienziato e generoso missionario della fede cristiana, Padre Matteo Ricci vide la luce a Macerata nel 1552, quattro anni prima della morte di s. Ignazio di Loyola, di cui diventerà in seguito fedele discepolo entrando nella Compagnia di Gesù. Matteo Ricci viene comunemente considerato il simbolo del primo contatto della Cina con le scienze e la tecnologia europea, del primo incontro del Vangelo con gli intellettuali della razza Han, come pure dei primi scambi tra la cultura cinese e quella dell'Occidente. Cresciuto fin dall'età di nove anni alla scuola dei Gesuiti nel loro Collegio di Macerata, fin dalla adolescenza si dissetò alla sorgente ignaziana, alimentando nel suo cuore il desiderio di conoscere nuove terre da scoprire e nuovi popoli da condurre a Cristo. Per questo, non ancora sacerdote, fu pronto ad accogliere l'invito di partire per l'Oriente, insieme ad altri confratelli, sostenuti dalla benedizione del Papa Gregorio XIII.

Matteo Ricci e la Cina formano un binomio indissolubile da quando, il 24 gennaio 1601, dopo molteplici e complessi tentativi anche a rischio della sua stessa vita, questo ardimentoso gesuita entrò a Pechino, sede dell'Imperatore Wan-li. Trascorse in Cina quasi 28 anni conducendo un attento studio della lingua, della storia e della cultura cinesi, attraverso il quale mostrò profondo rispetto per quel grande popolo. Come si legge nella sua biografia, egli prese dapprima le vesti e le sembianze dei bonzi, in seguito quelle dei letterati e dei mandarini. Sempre più, inoltre, nutriva la convinzione che la diffusione del cristianesimo in Cina avesse bisogno dell'approvazione ufficiale per i predicatori e la libertà per i cinesi di abbracciarla e professarla pubblicamente, ed era fermamente persuaso che tale approvazione e libertà non potessero ottenersi fino a quando egli non fosse arrivato fino alla corte di Pechino, al Palazzo imperiale dove effettivamente venne accolto non come "curioso straniero" ma come un rispettato dottore.

Come non rendere lode al Signore per le geniali intuizioni di questo grande studioso e coraggioso missionario che seppe lasciarsi guidare dalle ispirazioni dello Spirito Santo? Mano a mano infatti che progrediva nello studio della lingua, con prudenza si pose a correggere le credenze astronomiche dei cinesi e le loro cognizioni geografiche, poiché, come egli stesso si esprimeva, "non si poteva in quei tempi trovare cosa più utile a disporre gli animi dei cinesi alla nostra religione di questa". Perciò mentre professava una schietta ammirazione per la Cina, faceva intravedere ai cinesi che c'era ancora qualcosa che essi non conoscevano e che egli poteva insegnare loro. Compose libri di scienze e di religione; tra i lavori scientifici di maggiore pregio vorrei qui citare il grande Mappamondo cinese, dove, accanto ai nomi delle principali località, il Ricci annotava notizie storiche. Per esempio, vicino al nome "Giudea" si legge: "Il Signore del Cielo s'è incarnato in questo Paese, perciò si chiama Terra Santa". Vicino al nome "Italia": "Qui il Re della Civiltà (= il Papa), nel celibato, si occupa unicamente di religione. Egli è venerato da tutti i sudditi degli Stati d'Europa, che formano il romano impero". E bastò questa breve notizia sul Papa a comunicare ai cinesi un'alta idea del pontificato romano. Oltre a far conoscere la religione cattolica ai cinesi, il Mappamondo serviva anche a cancellare dalla loro mente il pregiudizio, secondo il quale tutti quelli che non erano cinesi erano da considerarsi "barbari".

Ecco, in pochi tratti, delineato quello che potremmo considerare il metodo di Matteo Ricci: un profondo rispetto delle tradizioni che incontrava, ma al tempo stesso inalterata fedeltà nel trasmettere la Verità che è Cristo e la dottrina cattolica. Un metodo che resta valido ancor oggi e che ci auguriamo - per questo preghiamo - possa portare frutti di vasto rinnovamento nella Chiesa e di generosa apertura missionaria. "Nel parlare del Vangelo - ha scritto Giovanni Paolo II nel suo messaggio per il IV centenario del suo arrivo in Cina, il 25 ottobre 1982 - Matteo Ricci seppe trovare il modo culturale appropriato a chi lo ascoltava. Iniziava con la discussione dei temi cari al popolo cinese, cioè la moralità e le regole del vivere sociale, secondo la tradizione confuciana. Quindi introduceva, in modo discreto ed indiretto, il punto di vista cristiano dei vari problemi e così, senza volersi imporre finiva col portare molti ascoltatori alla conoscenza esplicita e al culto autentico di Dio, Sommo Bene".

Aggiunge però subito il Papa: "l'inculturazione compiuta da padre Matteo Ricci non ebbe luogo soltanto nell'ambito dei concetti e del lavoro missionario, ma anche della testimonianza personale di vita. Occorre innanzitutto mettere in evidenza la sua vita religiosa esemplare, che contribuì in maniera determinante a far apprezzare la sua dottrina presso quanti lo frequentavano". Come i Padri della Chiesa, anche Matteo Ricci era convinto, nota ancora il messaggio papale, che la fede cristiana non solo non avrebbe recato danno alla cultura cinese, ma l'avrebbe piuttosto arricchita e perfezionata e non è ardito pensare che questo coraggioso missionario gesuita "debba aver sentito la grandezza dell'impresa non meno di come la sentirono il filosofo e martire san Giustino, Clemente di Alessandria ed Origene nel loro sforzo di tradurre il messaggio della fede in termini comprensibili alla cultura del tempo".

"Beato chi cammina nelle vie del Signore". Il ritornello del salmo responsoriale e gli altri testi biblici che la liturgia propone alla nostra meditazione, costituiscono la sintesi del messaggio che Padre Ricci ci comunica anche oggi. Il segreto del successo del nostro apostolato, cari seminaristi, dovunque Iddio ci chiami ad operare, non sta in primo luogo nelle tecniche pastorali, nella scienza e nelle nostre doti di natura o acquisite con sforzo costante. Il vero segreto è lasciare che Cristo sia al primo posto nella nostra vita, sempre. Per questo dobbiamo "camminare nelle vie del Signore" e trovare grande gioia nei suoi comandamenti. Nel Vangelo è Gesù stesso ad esortarci a rimanere in Lui ricordandoci: "senza di me non potete fare nulla". Senza Cristo non possiamo fare nulla. Con questa consapevolezza proseguiamo la Celebrazione Eucaristica, chiedendo a Dio il dono di una fedeltà senza compromessi alla nostra vocazione. In particolare vorrei invitarvi a pregare perché la strada aperta da Matteo Ricci tra il cristianesimo e la società cinese possa trovare, in questo nostro tempo, nuove vie di dialogo e di reciproco arricchimento umano e spirituale. A questo vuole contribuire anche la lettera che il Santo Padre ha scritto proprio in questi giorni ai Vescovi ai presbiteri e ai fedeli della comunità cattolica della Repubblica popolare di Cina. La Vergine Santa ottenga per ciascuno di noi di essere fedeli discepoli del suo divin Figlio e generosi servitori dei fratelli, specialmente di quelli che più hanno bisogno di sperimentare l'amore misericordioso di Dio.

       

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