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BENEDIZIONE DELLA PRIMA PIETRA DELLA CASA
DELLA SUSSIDIARIETÀ SOLIDALE MONS. FILIPPO FRANCESCHI

OMELIA DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO DEL SANTO PADRE

Centro Civitas Vitae - Padova
Sabato, 11 luglio 2009

 

Carissimi Fratelli e Sorelle,

nel quadro delle celebrazioni che oggi coinvolgono i Responsabili, gli Operatori, gli Ospiti e le rispettive Famiglie delle strutture che compongono Civitas Vitae, la Parola che abbiamo ascoltato ci inserisce direttamente nel misterioso legame che Gesù Cristo instaura con i Dodici e con la Chiesa, all’interno di un disegno di grazia che si estende dall’eternità stessa di Dio fino a manifestare la pienezza del suo amore nell’ultimo e definitivo compimento della storia e dell’umanità.

Anzitutto, nell’essenziale narrazione evangelica di Marco, Gesù chiama i Dodici senza ulteriori specificazioni. Potrebbe, quindi, sorgere spontanea la domanda: perché proprio questi, per i quali non viene detto nulla né circa le virtù, né in merito alle disposizioni, alle doti o alle abilità particolari che li contraddistinguono rispetto ad altri? Anzi, come di seguito attesta l’evangelista, là dove manca loro qualcosa all’attuazione dell’incarico loro affidato, verrà ad essi aggiunto da Gesù stesso. Manca loro senz’altro quanto viene dato loro quando vengono mandati: l’autorizzazione ad annunciare il Regno di Dio, e questo con il potere di scacciare gli spiriti impuri e tutto ciò che si accompagna al mistero del male, il che è unicamente possibile se si ha lo Spirito Santo.

Avendo ricevuto questi doni dal Signore, viene però loro richiesto di non mischiarli con i propri mezzi di appoggio, di propaganda o con alcunché che potrebbe costituire una garanzia umana; perciò, nessuna bisaccia, non pane, non denaro, non abiti e neppure la ricerca di una comoda abitazione, ma ricchi soltanto di una povertà umanamente disarmante, che è comunque capace di arricchire con la presenza stessa del Regno di Dio. Gli incarichi affidati ai Dodici, infatti, sono l’annuncio, il richiamo alla conversione, non il successo personale; anzi, se questo non ci sarà, ad essi non deve importare, devono semplicemente andare oltre e tentare altrove di portare un frutto che comunque non appartiene a loro.

Questa immagine del mandato conferito da Gesù ai Dodici conserva ancora la sua attualità; anzi, costituisce un criterio di verifica per la Chiesa e per ciascuno di noi a riconoscerci nella disarmante povertà speculare che ci viene richiesta, per non anteporre noi stessi all’annuncio del Regno di Dio, che deve limpidamente riflettersi nella nostra vita e nelle nostre opere, anche in quelle che umanamente potrebbero essere più gratificanti, se non altro per la loro originalità e per la stima ad esse riconosciuta, come è il caso della struttura nella quale oggi ho l’onore di essere accolto, e che mi ha dato la possibilità di meglio conoscere quanto qui viene compiuto e lo spirito con cui voi in diversi e sinergici modi lo realizzate.

Il successo conseguito, in ogni caso, e che anche i Dodici hanno iniziato a sperimentare, è dunque condizionato e sciolto dagli impacci di provvidenze troppo umane e ingombranti; gli Apostoli sono inviati a portare la Parola, capace di trasformare i cuori con la conversione; a compiere i segni che il Regno è ormai venuto, e sono: la vittoria sul male, la guarigione degli infermi, indici appunto del Messia, che è Gesù; gesti che la Chiesa oggi prosegue nella propria missione, nella quale crediamo possa essere iscritto a pieno titolo anche quanto qui viene operato dalle persone e nelle strutture che rispettivamente operano e compongono il complesso articolato del Civitas Vitae.

È la forza salvifica conferita da Gesù Cristo che dà la capacità ai Dodici, ed anche a noi oggi, di proseguire instancabilmente nell’annuncio che solo Dio può eliminare il potere del male, le cui conseguenze sono anche la malattia, la solitudine, il senso quasi di disperazione, che a volte bussano inesorabilmente e in modo inatteso nella nostra vita personale e, di riflesso, in quella delle nostre famiglie. Proprio per il fatto che lo stesso Figlio di Dio, Gesù Cristo, è venuto nel mondo per rivelarci il disegno divino della nostra salvezza, la fede ci aiuta a penetrare il senso di tutto l’umano, e quindi anche del soffrire. E la Chiesa, da parte sua, fin dalle sue origini, come ne dà prova anche il mandato affidato da Gesù ai Dodici, mossa e corroborata dallo Spirito Santo, ha considerato un proprio dovere e privilegio stare accanto a chi soffre, coltivando un’attenzione preferenziale per i malati, e arrecando il conforto della speranza anche nell’accettazione del disegno imperscrutabile di Dio, soprattutto quando questo si manifesta nei tratti della sofferenza e della croce.

In questo orizzonte, il vostro operare non è, quindi, soltanto un fare, ma costituisce un esempio di come la missione della Chiesa ancora oggi, inserendosi nelle strutture socio-sanitarie che la società mette a disposizione o che sono frutto dell’intuito originale di alcuni gruppi o persone, non abbia perso la tenacia dell’annuncio e la prossimità con la sofferenza umana, nella quale riconosce le sembianze stesse del suo Signore, che nel suo essersi fatto uno di noi e per noi conferma essere l’unico e universale Salvatore, dando senso anche alle situazioni più desolate ed emarginate, come è appunto il variegato mondo del dolore, della disabilità e dell’anzianità. Ne consegue che, come cristiani, possiamo affermare sempre e comunque che la vulnerabilità è diventata in Cristo l’effettiva possibilità di essere toccati da un amore che ci permette di vivere in pienezza. Nel Mistero Pasquale di morte e di risurrezione del Signore Gesù, la vulnerabilità, unita alla nostra corporeità, è entrata definitivamente nella sfera del dono divino, che ci rende a nostra volta capaci di amare, e il dolore resta così illuminato, in ultima istanza, dal mistero di un amore più grande dell’uomo. Nella fragilità della malattia, della solitudine, dell’inefficienza si offre così la più grande manifestazione della dignità di una vita piena di significato e di amore. L’ideale umano, infatti, non consiste nell’essere invulnerabile, come affermava il principio stoico, ma nel sapere essere vulnerabili al vero amore: poiché solo in questo modo risponde all’originalità della logica del dono che ci precede e ci supera.

Questi segni della presenza di Dio e del suo operare, tuttavia, come ricordava anche il brano evangelico, mentre rivelano la gioia della salvezza, operano al contempo un grave giudizio e una chiara discriminazione tra quelli che ascoltano e la ricevono e quelli, invece, che vi si chiudono e la rigettano. Similmente, ciò che la prima lettura narra anche riguardo ad Amos è caratteristico per ogni inviato di Dio e, inoltre, per la missione stessa della Chiesa. “Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero”, dice Gesù. Amos non viene accolto dal paese nel quale era stato inviato. Allora egli insiste e dichiara di non essere né un profeta di professione né un discepolo di profeta. La sua è stata una chiamata del tutto inattesa e paragonabile a quella dei pescatori di Galilea. Né questi, né Amos hanno desiderato o scelto questo incarico; sono stati semplicemente chiamati e posti sulla strada: “Và, profetizza la mio popolo Israele”.

Questa è la chiamata di ordine radicale, alla quale l’uomo non può sottrarsi. Qui ha poca importanza se Amos abbandona il paese e lascia la Samaria per la Galilea, oppure se gli Apostoli davanti al Sinedrio dicono: “Si deve obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini” (At 5, 29). Il persistere nel confidare in Dio e nell’operare in suo nome è ciò che Gesù invita a fare. In questo orizzonte, possiamo comprendere come non è il consenso che deve essere perseguito dalla Chiesa; consenso che potrebbe essere anche raggiunto facilmente, soprattutto quando, nel suo esercizio della carità, la comunità ecclesiale svolge un ruolo di supplenza per inadempienze che, invece, competono a pieno titolo e i primo luogo alle autorità civili. La Chiesa ha posto ogni sua forza e speranza nel suo Signore, che, come ha ricordato Benedetto XVI nella sua prima Lettera Enciclica, è Amore (Deus caritas est), e in nome Suo opera nella carità e secondo la verità dell’uomo, anche a rischio di essere emarginata o incompresa. Da qui emerge l’urgente sfida per tutti, e in speciale modo per la Chiesa, vivificata dal Signore risorto, di portare nel vasto orizzonte della vita umana, nonostante tutto e senza reticenza lacuna, lo splendore della verità rivelata e il sostegno della speranza.

In questo profetico ed eroico impegno, lo stesso Magistero della Chiesa, come attesta anche la recente Istruzione ‘Dignitas Personae’ pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel tradizionale solco dell’insegnamento pontificio precedente, ha affermato che i diritti fondamentali e la conseguente dignità della persona umana sono inviolabili e non-negoziabili, sottraendoli all’arbitrarietà di ogni patto sociale e del consenso della maggioranza.

A ben guardare, del resto, la vicenda dell’umanità rivela come la persistenza di un amore effettivamente altruista e attento all’esigenza più infima sia in realtà condizionata dall’annuncio della verità intera e senza deroghe dell’umano, nel suo valore sacro e quindi nella sua indelebile dignità. Fraintendimenti e deviazioni restano sempre incombenti, se non si è costantemente richiamati al valore incomparabile della dignità umana, che è minacciata dalla povertà, dalla miseria e dalla sofferenza almeno quanto è minacciata dal disconoscimento del valore di ogni istante e di ogni condizione di vita, nella quale ogni distinzione o discriminazione fra produttivo o improduttivo, fra una qualità positiva o negativa, fra degno e indegno costituisce un tradimento del Vangelo che annuncia che Gesù Cristo è Dio fatto uomo e, pertanto, ogni frammento di storia e di umanità, ancorché segnato dal limite, fosse anche la morte, gli appartiene in quanto da Lui redento.

Questa consolante certezza trova la sua giustificazione nel grande preludio della Lettera agli Efesini, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura di questa quindicesima Domenica ‘per Annum’, là dove San Paolo inserisce gli eletti da Dio nell’universale ed eterno disegno di salvezza del Padre del Signore nostro Gesù Cristo. L’Apostolo definisce essere qui l’originaria identità dell’uomo; infatti, come afferma il v. 3 dell’inno, la benedizione che Dio ha inteso per l’uomo è nei cieli e fluisce nella relazione di paternità e filiazione che sussiste fra il Padre ed il Figlio: il nostro ‘luogo’ è quindi Cristo stesso: en Christô. Non c’è dunque altra elezione né altra esistenza che in lui; Dio ci ha scelti nell’amore che definisce l’identità del suo Figlio diletto. La nostra elezione è la definizione dell’amore che è in Dio. L’unico scopo di questa elezione non è quindi altro che l’amore stesso di Dio, nella sua assolutezza, che ha nel Figlio il luogo della sua espressione; l’elezione, infatti, ha un nome, ovvero è ‘filiazione adottiva’, il nostro essere ‘figli’.

A partire da questo squarcio sul disegno eterno di Dio, la condizione dell’uomo è quindi determinata anzitutto dalla sua origine: la nostra origine è la nostra identità; ed è ugualmente l’impronta filiale di questa origine che determina pure la finalità dell’uomo, cioè l’essere chiamato alla comunione con Dio, partecipe, come afferma San Paolo, della santità del Padre e nell’irreprensibilità del Figlio: “per essere santi ed immacolati al suo cospetto nella carità” (Ef 1, 4). La chiamata dell’uomo è quindi ultimamente la comunione con Dio, secondo la costituiva modalità filiale, che sussiste da sempre fra il Padre ed il Figlio. Secondo questa visione, ciò che io sono e devo essere è fissato dall’eternità, prima della creazione del mondo; non sono né chiamato soltanto nel tempo, né come un singolo isolato, ma esisto come da sempre voluto e accolto in un progetto complessivi predeterminato nell’amore trinitario, che consiste nell’incarnazione di Gesù Cristo, nella glorificazione della grazia di amore del Padre e nel sigillo dello Spirito Santo.

In questa luce acquista ancor più valore quanto affermavo poc’anzi, prima della Benedizione della 1° pietra della Casa della Sussidiarietà Solidale Mons. Filippo Franceschi, dedicata ad accogliere sacerdoti anziani, religiose e giovani disabili. In quella occasione rilevavo come il valore della vita e l’intangibile dignità della persona umana risiedano nella dimensione ‘teologica’, sacrale di essere donati a noi stessi da un Altro, da un Amore che ci precede, e altrettanto nell’essere destinati ad una ‘vita eterna’, che altro non è che l’essere protesi all’eternità come mistero di unione imperitura e ricolma di gioia con Dio. Ogni vita, anche quella che in queste strutture viene accolta, protetta e valorizzata, riposa quindi nel ‘respiro di Dio’; qui collocati, rimaniamo quasi smarriti di fronte al disegno divino tracciato da San Paolo, che supera ogni pensiero e sta al di là di ogni umana attesa.

A questo disegno di grazia, cari Fratelli e Sorelle, rispondiamo con il silenzio, con la gioia, con la preghiera e, soprattutto, con una vita santa e immacolata di chi si sente ed effettivamente è ‘figlio’, e per questo è legato anche da un vincolo indissolubile di fratellanza degli uni nei confronti di ogni altro, di ogni ‘prossimo’, sotto lo sguardo, più che degli uomini, di Dio.

In questo impegno quotidiano, lasciamoci guidare dall’umile “serva del Signore” (Lc 1,38). Maria è umile, perchè decentrata da se stessa, perché non cerca la sua propria gloria, ma la gloria di Dio. È grande, perché ancella del Signore, ella lascia l’iniziativa della sua azione a Dio. È colei che ascolta la Parola di Dio, obbedisce alla Parola e può, così, essere Madre, cioè dare la vita. Nella suddetta Enciclica, è ancora il Santo Padre che ci aiuta a cogliere in questa attitudine fondamentale di Maria la radice della speranza, della sua fede, ma anche della sua carità: vivendo l’humilitas, Maria vive la caritas (cfr. Benedetto XVI, Lett. Enc. Deus caritas est, n. 41).

L’eccellenza dell’amore di Maria sia per tutti noi un esempio, per essere capaci, nelle diverse responsabilità affidateci, di accogliere il dono di un cuore nuovo, un cuore dal quale sgorgano fiumi di carità per la vita del mondo, ed essere così, oggi e sempre, “santi e immacolati […] nella carità” (Ef 1, 4) a lode dello splendore della grazia di Dio. Amen.

  

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