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TRIGESIMO DELLA BARONESSA
HENRIETTE JOHANNA CORNELIA MARIA VAN LYNDEN-LEJTEN

CELEBRAZIONE EUCARISTICA

OMELIA DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO DEL SANTO PADRE

Cappella Paolina
Lunedì, 6 dicembre 2010

 

Carissimi fratelli e sorelle,

siamo riuniti attorno all’altare del Signore per offrire il santo Sacrificio in suffragio dell’anima eletta della Baronessa Henriette Johanna Cornelia Maria van Lynden-Lejten, Ambasciatore dei Paesi Bassi presso la Santa Sede, tornata alla Casa del Padre, dopo dolorosa malattia, lo scorso 6 novembre.

Il mistero che celebriamo è partecipazione alla morte di Cristo e alla sua gloriosa risurrezione. Ed è proprio la Parola di Dio che abbiamo ascoltato ad illuminarci su questa mirabile realtà della nostra fede. Ogni volta infatti che prendiamo parte al Banchetto eucaristico, uniti nell’amore celebriamo la morte di Cristo, con fede viva proclamiamo la sua risurrezione ed attendiamo con ferma speranza la sua venuta nella gloria (cfr Prefazio comune V).

La defunta Baronessa si è preparata all’incontro con il Signore, purificata dalla malattia e pienamente consapevole che mentre si stava distruggendo la dimora del suo esilio terreno, si costruiva per lei una dimora eterna nel Cielo. La nostra abitazione sulla terra è provvisoria; ma Dio ci costruisce in Cielo una casa per sempre.

Pochi giorni prima della sua morte, rispondendo ad una Lettera di conforto da me inviata a nome del Santo Padre Benedetto XVI, la cara Defunta si esprimeva con toccanti parole di gratitudine e di ammirazione per il Sommo Pontefice, mostrando anche il suo attaccamento alle cose che Dio le aveva donato in questa vita. Parlava con nostalgia di quanto aveva potuto godere nello svolgimento del suo alto compito diplomatico: l’orizzonte delle numerose e qualificate amicizie incontrate e le bellezze di Roma. Ma dal suo scritto traspare soprattutto il totale abbandono alla volontà di Dio, che le chiedeva di lasciare la città degli uomini per approdare per sempre alla Città del cielo.

L’immagine del banchetto messianico, presente nella prima Lettura, tratta dal profeta Isaia, esprime la comunione, il dialogo, la festa, la vittoria. Il banchetto annunciato per la fine dei tempi celebra la vittoria di Dio sui poteri che asserviscono l’uomo e proclama la sua universale regalità. Nel banchetto, il re offre regali ai convitati, come era uso da parte dei sovrani e dei principi quando venivano intronizzati. Il primo regalo è la manifestazione del suo amore ai popoli, prima avvolti nel buio della non conoscenza del volto del Dio vero: “Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli”. Dopo questo dono ve n’è un altro, ancora più prezioso: la sconfitta definitiva del grande nemico del desiderio di vita che alberga nel cuore umano: la morte. A ragione san Paolo identifica tale nemico con la morte, che verrà definitivamente distrutta da Cristo nell’ultimo giorno: “Bisogna che egli regni finché non abbia posto tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte” (1Cor 15,25-26).

Il terzo dono appare come “personalizzato”, perché Dio stesso passa ad asciugare amorevolmente le lacrime che rigano tutti i volti, a consolare ogni uomo nel suo dolore. Questa speranza è basata esclusivamente sulla promessa di Dio e non sulle congetture dell’uomo circa il proprio futuro, come sottolinea l’espressione: “poiché il Signore ha parlato!”. Sgorga allora l’inno di lode alla vittoria del Signore che, ancor prima di indicare la sconfitta dei nemici, dichiara la salvezza per il popolo che riconosce in Dio la propria speranza: “Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse”.

La seconda Lettura ci ha presentato l’ultima visione del Libro dell’Apocalisse, in cui appare il rinnovamento messianico di tutta la creazione, giunto ormai alla sua piena realizzazione. Ecco perciò l’insistenza sul termine “nuovo” e sul fatto che ciò che era prima, col suo retaggio di male e di dolore, è ormai superato “perché le cose di prima sono passate”. Le forze del male sono vinte definitivamente, come risulta evidente dall’assenza del “mare”, che nella simbologia dell’Apocalisse è segno dell’abisso del male.

Ma ancora prima che al cosmo, l’attenzione si rivolge alla nuova Gerusalemme, simbolo di un’umanità nuova, traguardo a cui Dio vuole condurre la sua opera di salvezza. Essa è descritta con le due immagini della città e della sposa. La città futura che Dio prepara è un’umanità dalle relazioni radicalmente rinnovate, e la sposa pronta per le nozze suggerisce il dono della capacità di amare e di lasciarsi amare pienamente dal Signore. Tra Dio e gli uomini non c’è più distanza, ma comunione piena, quasi una trasparenza. Tutto ciò che è oscuro – male, dolore, peccato, morte – è superato nella nuova Gerusalemme e Dio stesso è visibile alle sue creature trasformate totalmente dalla potenza del suo amore. Dio e gli uomini perciò si appartengono completamente, nulla più li separa, perché in Cristo crocifisso e risorto, anche la morte è stata vinta e ogni lacrima asciugata. La creatura, rivestita da Dio della novità di Cristo, sperimenta ormai, senza più alcuna ombra, la paternità di Dio: “Io sarò il suo Dio ed egli mi sarà figlio”.

Nel brano del Vangelo secondo Giovanni Gesù ha proclamato solennemente: “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno” (6,39). Gesù, Parola eterna, disceso dal cielo e divenuto Pane di Dio per l’umanità, promette la vita eterna. Il suo operare è conforme alla volontà del Padre: ciò che Egli desidera e opera è quella vita che il Padre vuole donare all’umanità insidiata dalla morte, perché il Figlio è in piena comunione con il Padre e ne condivide totalmente i disegni. Le sue meravigliose promesse, perché si realizzino per l’uomo, chiedono una sola condizione: “venire a lui”. Si tratta cioè di credere, di riconoscere in Gesù colui che il Padre ha inviato e al quale ha dato il potere di portare agli uomini la vera vita. Chi crede, sperimenta la gioia di appartenere a Gesù, la sua accoglienza fedele, sicura, che non può essere dissolta neppure dalla morte: “colui che viene a me, io non lo caccerò fuori” (Gv 6,37).

Il Vangelo ci assicura che il Signore non abbandona quelli che ha amato; rimane loro vicino, specialmente nel difficile passaggio della morte. Li accoglie e li coinvolge nella sua risurrezione. Ed ecco che il dolore per il distacco si accompagna alla speranza, anzi alla certezza di un nuovo incontro. E’ molto significativo che la liturgia della Chiesa metta l’una accanto all’altra la festa di Tutti i Santi e la Commemorazione dei fedeli defunti. E’ un’intuizione di straordinaria forza evocativa: santi e morti sono uniti in un unico futuro, in un unico destino. E’ proprio questa la novità cristiana: la vittoria completa e piena di Gesù sulla morte. Chi crede in Lui risorgerà con il proprio corpo. E’ una “buona notizia” davvero consolante. Nulla è impossibile a Dio.

Tutti sentiamo la durezza della morte e, se pensiamo a coloro che ci hanno lasciato, particolarmente ai più cari al nostro cuore, non possiamo non sentire la tristezza della separazione. Ma, dopo la risurrezione di Gesù, la morte non allontana più i credenti gli uni dagli altri, non rompe più i vincoli di amore stabiliti sulla terra, non fa più uscire dalla famiglia di Dio. I credenti sono raccolti da Gesù che ha dato la sua vita perché non andasse perduto nessuno di coloro che il Padre gli aveva affidato. L’amore di Gesù è più forte della morte. Egli, che ha “dato la vita per i suoi amici”, non permette che la morte li separi da Lui.

Tutti i credenti sono nelle mani di Dio. Talora ci chiediamo dove sono i nostri morti; e magari cerchiamo di pensarli, di immaginare il luogo dove vivono e che cosa fanno. E’ bella la tradizione di visitare i cimiteri, dove i corpi, come dice l’antica tradizione cristiana, “dormono” in attesa del risveglio, della risurrezione finale. Ma è anche bello, e forse ancora di più, pensare che i nostri defunti continuano ad essere presenti nelle nostre chiese, là dove hanno ricevuto i Sacramenti, dove hanno pregato, dove hanno lodato il Signore, dove hanno sperato nei momenti difficili, e da dove sono stati accompagnati verso il Cielo. Potremmo dire che i defunti sono nella comunità di cui facevano parte: la morte infatti, non ha interrotto i legami; loro continuano ad esserci vicini per celebrare insieme con noi le lodi del Signore. E’ il mistero della comunione dei santi, che professiamo ogni volta che recitiamo il Credo o Simbolo Apostolico. Ecco perché in passato i morti erano sepolti dentro o almeno accanto alle chiese. C’è una comunione salda con tutti i defunti che viene garantita da Gesù. E’ vero, non è una comunione visibile, ma non per questo è meno reale. Anzi, è ancora più profonda perché non fondata sulle apparenze esteriori, tanto spesso ingannatrici. La comunione con i defunti è fondata sul mistero dell’amore di Dio che tutti raccoglie e sostiene. L’amore di Dio è la verità della vita e della morte. Tutto passa, anche la fede e la speranza, resta soltanto l’amore. Questo mistero della nostra fede ci permette di comunicare con tutti i fratelli “che ci hanno preceduto con il segno della fede e dormono il sonno della pace” (Canone romano).

Cari familiari della Defunta e cari amici, davanti alla Parola di Dio, piena di luce e di speranza, anche la notte del dolore ed il buio della morte si aprono alla luce pasquale del Signore crocifisso e risorto. Cristo, la luce del mondo, inonda di nuovo fulgore l’umanità tante volte disorientata al pensiero delle ultime realtà che ci attendono. Ed è proprio la fede nella Risurrezione, che noi professiamo da credenti in Cristo, che ci aiuta a sperare e ad avviarsi consolati al definitivo approdo dell’umana esistenza.

Facciamo nostra, allora, l’invochiamo del Salmista:
“Manda la tua luce e la tua verità:
siano esse a guidarmi,
mi conducano alla tua santa montagna,
alla tua dimora” (Sal 43,3).

 

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