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CONVEGNO "EXECUTIVE SUMMIT ON ETHICS FOR THE BUSINESS WORLD"

DISCORSO INTRODUTTIVO DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO DEL SANTO PADRE

 

Sono lieto di portare il mio saluto in questo importante Simposio che vede radunati molti protagonisti della vita imprenditoriale, economica e finanziaria di tanti Paesi del mondo.

Il mio non sarà un saluto che entrerà negli aspetti tecnici e operativi dei lavori di questi giorni, ma mi soffermerò, per alcuni minuti, sui fondamenti antropologici, spirituali e etici del vostro fare impresa ed economia, alla luce della Dottrina Sociale della Chiesa, in particolare alla luce dell’idea di impresa e di imprenditore presente nella Lettera Enciclica Caritas in Veritate, che molto opportunamente avete voluto porre al cuore della vostra riflessione nei lavori di questa conferenza in cerca di nuove basi per la dimensione etica nell’attività economica e imprenditoriale.

Innanzitutto una premessa.

La Chiesa ha da sempre sottolineato che l’attività imprenditoriale è essenziale per il bene comune. Se, infatti, da una parte la Dottrina Sociale della Chiesa ha ricordato e ricorda il necessario orientamento dell’attività d’impresa al bene comune e non solo al privato profitto dei proprietari, al tempo stesso le varie Encicliche sociali, in un modo tutto speciale la Centesimus Annus e la Caritas in Veritate, hanno con forza indicato la natura inerentemente sociale e civilizzante dell’impresa e del mercato. Non è immaginabile una vita buona e felice per tanti, possibilmente e tendenzialmente per tutti, senza imprenditori che creano posti di lavoro, ricchezza, nuovi prodotti, senza innovazioni che spingono avanti le frontiere delle opportunità e delle libertà effettive delle persone.

Sebbene la Chiesa, esperta in umanità, sia ben consapevole che la vita economica e lavorativa è sottoposta, come e forse più delle altre dimensioni della vita umana, a tentazioni di egoismo e di chiusura, la Chiesa stessa guarda al mondo dell’economia, del lavoro e dell’impresa con uno sguardo positivo, come a un prezioso luogo di creatività e di passioni civili, una realtà positiva dell’umano che come tutte le altre può avere le sue patologie, ma la cui fisiologia e normalità è buona, civile e umanizzante.

Ma chi è, per la Dottrina sociale della Chiesa, l’imprenditore?

Innanzitutto, come ci ricorda anche la migliore teoria economica (penso a Joseph Schumpeter o a Luigi Einaudi), l’imprenditore non è uno speculatore ma essenzialmente un innovatore. Lo speculatore pone come scopo della sua attività la massimizzazione del profitto, e l’attività d’impresa è solo un mezzo per il fine che è il profitto: quindi costruire strade, dar vita ad ospedali o a scuole, non è il fine dello speculatore, ma solo un mezzo per il suo fine di massimizzare il profitto. Si comprende subito che non è lo speculatore l’idea di imprenditore che la Chiesa indica come protagonista e costruttore di bene comune.

L’imprenditore è invece un soggetto diverso. Leggiamo nella Caritas in Veritate: “Carità nella verità, in questo caso, significa che bisogna dare forma e organizzazione a quelle iniziative economiche che, pur senza negare il profitto, intendono andare oltre la logica dello scambio degli equivalenti e del profitto fine a se stesso” (CV 38).

L’imprenditore è soprattutto un innovatore che genera e porta avanti dei progetti: per lui, per lei, per loro, l’attività imprenditoriale non è mai puramente un mezzo o uno strumento, ma è parte dello scopo stesso, non è logicamente possibile distinguere l’attività dal suo scopo, perché l’attività imprenditoriale ha anche un valore intrinseco, un valore in se stessa.

Questo “andare oltre la logica del profitto”, senza “negare il profitto” è la grande sfida per un imprenditore che oggi voglia veramente e seriamente porsi come costruttore di bene comune e di sviluppo, che concepisce la sua attività anche come compito e come vocazione. In particolare l’assolutizzazione del profitto è un movente insufficiente in una economia e società che oggi ha a che fare con sfide nuove, tra cui l’ambiente, i beni comuni e la globalizzazione.

Qui si apre il grande tema della responsabilità sociale dell’impresa, come sottolineato anche dalla Caritas in Veritate: “la gestione dell'impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell'impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento” (n. 40).

Sono tante le teorie etiche di responsabilità sociale dell’impresa, non tutte condivisibili a partire dall’antropologia e dall’umanesimo cristiani, soprattutto quando pratiche di responsabilità sociale sono soprattutto e intenzionalmente uno strumento di marketing che non mette in discussione i rapporti interni ed esterni all’impresa stessa, la destinazione dei profitti, la giustizia, la partecipazione dei lavoratori …

Oggi gli imprenditori che vogliono prendere seriamente in considerazione la Dottrina Sociale della Chiesa devono osare di più: non limitarsi a pratiche di responsabilità sociale e/o di filantropia (cose che restano positive e meritorie), ma spingersi in nuovi territori e ambiti. Ne indico solo due.

1. L’imprenditore deve utilizzare il proprio talento di innovazione e creatività per affrontare sfide che vanno oltre l’economia e il mercato. In particolare oggi c’è una crescente domanda di lavoro da parte di interi Paesi che hanno tanti giovani e pochissimo lavoro: occorre innovazione e nuova iniziativa per includere all’interno dell’impresa, dell’economia e del mercato i tanti esclusi. L’economia e l’impresa hanno svolto e svolgono pienamente la loro funzione di costruzione di bene comune quando hanno incluso fasce di esclusione (pensiamo agli operai nelle fabbriche del secolo scorso), e facendo sì che queste persone da problemi diventassero risorse e opportunità, per loro stesse, per l’impresa e la società tutta.

2. La seconda sfida ha a che fare con la gestione dei beni comuni, come l’acqua, le fonti di energia, le comunità, il capitale sociale e civile dei popoli e delle città. L’impresa oggi dovrà entrare sempre più nel campo dei beni comuni, poiché in una economia complessa e globale non può più essere lo Stato o il pubblico da solo ad occuparsi dei beni comuni, che per una sana gestione hanno bisogno del talento imprenditoriale. Ma proprio per questo, per i beni comuni c’è un urgente bisogno di imprenditori che non abbiano come mero scopo il profitto. Occorrono quindi sempre più imprenditori civili, che puntando all’innovazione, alla creatività e all’efficienza, sono mossi da moventi più grandi del profitto, e concepiscono la loro attività all’interno di un nuovo patto sociale con il pubblico e con la società civile.

L’attività economica e imprenditoriale, se svolta nel senso indicato dalla Dottrina Sociale della Chiesa, è inerente all’etica, poiché non si dà bene comune senza imprenditori che, alla luce della Caritas in Veritate, dovremmo chiamare “civili”, nel senso che non esiste un imprenditore eticamente neutrale: o l’imprenditore è civile, e quindi edifica con la sua attività il bene comune, il bene di tutti e di ciascuno, o è incivile se non produce buoni prodotti, non innova, non crea ricchezza e posti di lavoro, non paga le tasse.

Per tutto ciò vi giunga il mio saluto e il mio incoraggiamento in questi giorni di riflessione e di dialogo, dai quali mi e vi auguro emerga anche una nuova stagione di creatività e di impegno civile. Un impegno e una creatività oggi più che mai importanti e necessari anche per lo sviluppo della riflessione della Dottrina Sociale della Chiesa, che si alimenta anche della vita del popolo cristiano dove sono all’opera doni, carismi dello Spirito, che apre nuove strade di eccellenza umana e spirituale anche per la vita economica e civile. Ce lo hanno mostrato con la vita imprenditori che hanno fatto della loro vita economica luoghi di autentica santità, come il beato Giuseppe Tovini, imprenditore e banchiere bresciano, alle cui parole pronunciate oltre un secolo fa ma attualissime, voglio affidare la conclusione di questo mio breve saluto: “Senza la fede i vostri figli non saranno mai ricchi; con la fede non saranno mai poveri”.

     

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