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ESEQUIE DI SUA ECC.ZA MONS. PIETRO PAOLO PRABHU,
ARCIVESCOVO E NUNZIO APOSTOLICO

OMELIA DEL CARDINALE TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO

Venerdì, 13 settembre 2013

 

Cari fratelli e sorelle,

la fede ci ha radunati intorno all’altare del Signore per offrire la santa Eucaristia in suffragio del nostro amato fratello Pietro Paolo Prabhu, Arcivescovo e Nunzio Apostolico. Ai suoi familiari qui presenti, e a quelli che sono uniti a noi spiritualmente, porgo le nostre sentite condoglianze, anche a nome del Santo Padre il Papa Francesco, che ha ricordato Mons. Prabhu nella Messa a Santa Marta, all’indomani della sua dipartita. Il nostro compianto Fratello, infatti, abitava da circa dieci anni nella casa dove il Papa ha voluto risiedere, e la sua stanza era proprio sullo stesso piano, a poca distanza da quella del Papa.

La Parola di Dio che abbiamo ascoltato ci conforta nell’ora sempre dolorosa del distacco, e illumina dal profondo la nostra preghiera.

Ci viene incontro anzitutto la voce del beato Giobbe, una voce che sempre ci colpisce con quella sua forte professione di fede: “Io so che il mio redentore è vivo / e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!” (19,25). La voce di Giobbe possiede una eloquenza singolare, perché proviene da un uomo provato, passato al crogiuolo; di un uomo che conosce a fondo e personalmente la sofferenza, e che la sopporta con fede, con grande dignità.

Anche Mons. Prabhu, da alcuni anni, era segnato dalla malattia, e aveva imparato a sopportarla con grande pazienza, con animo sereno, senza perdere nulla della sua gentilezza e socievolezza. Egli attingeva la sua forza dai prolungati e quotidiani tempi di preghiera, dallo “stare alla presenza del Signore”, come si esprime il Salmista (cfr Sal 116,9).

La preghiera è la via che permette di entrare in quella relazione esclusiva, e al tempo stesso aperta, tra Dio Padre e il suo Figlio Unigenito, di cui parla Gesù nel Vangelo. «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11,27).

Il giovane Pietro Paolo, nato a Madras, in India, nel 1931, pur appartenendo ad una famiglia di alta condizione sociale, seppe conservare un animo docile, capace di lasciarsi attrarre da Cristo e dalla sua chiamata. E così scelse di prendere su di sé il “giogo dolce e leggero” del Maestro divino (cfr Mt 11,29-30). La Provvidenza volle che il suo ministero sacerdotale prendesse la forma del servizio diplomatico della Santa Sede, e lo condusse a lavorare in diverse Rappresentanze pontificie: in Etiopia, Guatemala, Haiti, Cile, Francia e Sudan. Questa sua esperienza fu poi valorizzata nella Pontificia Commissione per la Pastorale delle Migrazioni e del Turismo, di cui divenne Sotto-Segretario. Nel 1993 il Papa Giovanni Paolo II lo nominò Nunzio Apostolico in Zimbabwe, missione che egli adempì con zelo per nove anni.

Quando lasciò il servizio chiese di rimanere nella Città del Vaticano, che, dopo l’India, e dopo che lui stesso era stato a lungo itinerante per il mondo, era diventata la sua seconda patria terrena. Ma ora egli è partito per la vera patria sua e di tutti noi: la patria del Cielo. Là troverà pienamente ristoro da ogni stanchezza e fatica, e vedrà faccia a faccia il volto di quel Padre che Gesù gli aveva rivelato. Come dice Giobbe: «Io lo vedrò, io stesso / i miei occhi lo contempleranno e non un altro» (19,27).

Cari fratelli e sorelle, con questa Eucaristia vogliamo rendere grazie a Dio per tutti i benefici che ha donato al nostro compianto Fratello nel corso della sua esistenza terrena. E anche e soprattutto per il dono che egli stesso è stato, per la sua famiglia di origine e per la grande famiglia della Chiesa. Lo affidiamo alla divina Misericordia, perché purifichi la sua anima da ogni umana imperfezione; e invochiamo per lui la materna intercessione di Maria Santissima e dei santi Apostoli Pietro e Paolo: insieme lo accolgano nella comunione dei santi e lo introducano nell’eterna dimora della luce e della pace. Così sia!

 
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