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ORDINAZIONE EPISCOPALE DI MONS. JOHANNES DYBA

OMELIA DEL CARDINALE AGOSTINO CASAROLI*

Sabato, 13 ottobre 19
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Oggi questo antico e glorioso Duomo che, dall’alto delle sue guglie levantesi al Cielo come un inno di trionfo e di speranza, ha assistito per ormai quasi 8 secoli alle vicende liete e tristi di Colonia, vive una delle sue giornate più fauste.

Fausta per la Chiesa Cattolica che riceve oggi un nuovo Vescovo: il quale mediante la imposizione delle mani dei Vescovi qui presenti – viene ad inserirsi nelle file dei successori degli Apostoli, nel Collegio – cioè – di coloro che lo Spirito Santo ha posto e continua a porre nella Chiesa di Dio come pastori e maestri, sino a quando questa Chiesa, che ha per sé la promessa divina della indefettibilità, continuerà a sussistere nel mondo come colonna e fondamento di verità.

Fausta, questa giornata, per l’arcidiocesi di Colonia, oggi onorata in uno dei suoi figli migliori: uno dei tanti che essa ha dato alla Chiesa nel corso di una storia esemplare, incominciata quasi all'inizio stesso dell'evangelizzazione del mondo romano, del quale Colonia Agrippina era avamposto avanzato, verso un nord ancora misterioso.

Fausta per la Sede Apostolica, la quale, nella persona di Mons. Giovanni Dyba, già da molti anni offerto al suo immediato servizio dalla generosità della Chiesa di Colonia, affida ora a lui, rivestendolo della dignità episcopale, una missione che della massima responsabilità, come collaboratore di Colui che, a titolo del tutto singolare, è chiamato Vicario di Cristo sulla terra, il Sommo Pontefice, il Papa.

Per questo la Chiesa di Colonia, qui così ampiamente rappresentata, con a capo il suo illustre e venerando Pastore Cardinale Giuseppe Höffner; per questo la Chiesa Cattolica, spiritualmente presente, tutta, in un atto che vitalmente la interessa; per questo il Supremo Pastore, per il cui mandato io, con i Vescovi Conconsacranti, procedo al rito della Ordinazione vescovile di Mons. Giovanni Dyba; per questo noi tutti, lieti nella comune letizia, ma consapevoli della grandezza dell'atto che oggi qui si compie e delle responsabilità che sono imposte sulle spalle del nostro amico e fratello, ci siamo rivolti all'Altissimo, facendo risuonare, sotto queste antiche volte, congiunte come mani in preghiera, la solenne e misteriosa invocazione: Vieni, oh!, vieni, Spirito Creatore; riempi della Tua grazia il petto di questo tuo sacerdote, perché sia capace di far fronte ai nuovi compiti ai quali Tu l'hai chiamato. Tu, viva sorgente; Tu, fuoco; Tu amore, donagli la Tua forza, perché la sua umana debolezza non si riveli troppo inadeguata a sostenere il peso della sua nuova missione al servizio della Chiesa. Egli, infatti, da oggi sarà Vescovo fra il popolo di Dio.

2. Quale sia la missione del Vescovo, quale la sua grandezza, quale la sua importanza e le sue difficoltà, da noi tutti abbastanza conosciuto. Ogni Ordinazione episcopale offre occasione per richiamarlo alla comune memoria, come oggetto di meditazione per i sacerdoti e i fedeli raccolti intorno a lui.

Tutto ciò che sappiamo, e tutto ciò che si potrebbe o dovrebbe dire in occasione di ogni Ordinazione episcopale vale anche per quella che stiamo compiendo. Però io credo che in questa specialissima circostanza sia conveniente accennare a qualcosa di proprio e di singolare che vi è nell'atto al quale oggi partecipiamo e che ne fa, sotto questo aspetto, evento raro e forse unico, sinora, per la maggior parte di coloro che vi assistono: Mons. Giovanni Dyba viene, infatti, ordinato Vescovo, non perché destinato a reggere una diocesi o ad essere di aiuto a qualche altro Vescovo nel governo diocesano; egli è invece mandato a rappresentare il Sommo Pontefice in alcune Nazioni, oggi dell'Africa, domani – possibilmente – di altro Continente.

E' naturale, quindi, chiedersi quale significato ecclesiale abbia questa Ordinazione, oltre a quello che le proviene dal fatto che ogni Vescovo, anche quelli che sono chiamati «titolari» hanno un posto e una funzione a tutti comune, nel Collegio episcopale.

Tanto si è scritto e si scrive sui Rappresentanti Pontifici, in particolare di quelli che, con il titolo di Nunzi o di Pro-Nunzi, hanno carattere o esercitano funzioni diplomatiche. Molto si riferisce ad una storia passata e disuguale, soprattutto per quel che si riferisce ai secoli nei quali i Papi erano Sovrani degli Stati Pontifici, e i loro Rappresentanti erano incaricati anche delle questioni proprie ad ogni Sovrano temporale.

Ma a noi interessa – in questo clima di meditazione e di preghiera – pensare al Rappresentante Pontificio quale è oggi: oggi che il Papa è ed appare chiaramente ed esclusivamente, possiamo ben dire, Pastore: infatti la sovranità temporale della quel anche oggi egli è rivestito – e internazionalmente gli è riconosciuta – quale Capo dello Stato del Vaticano è reale, certo, ma così limitata territorialmente da risultare quasi simbolica; essa è inoltre ordinata al servizio della funzione pastorale dei Papi: fornendo, cioè, a questi quel tanto di territorio che, come si esprimeva il Papa Pio XI, è sufficiente per garantire, in sé e di fronte al mondo l’assoluta indipendenza del Sommo Pontefice da qualsiasi altra sovranità territoriale nell'esercizio delle sue funzioni di Supremo Pastore della Chiesa.

Compito del Rappresentante Pontificio, anche di quello rivestito di carattere diplomatico, è dunque di rappresentare un Pastore, il Supremo Pastore della Chiesa. Rappresentarlo: renderlo, cioè, in qualche modo presente in quella parte del mondo dove egli è inviato.

È, bensì, vero che in questa nostra epoca, con lo sviluppo dei mezzi e delle tecniche di comunicazione, è facile al Papa, più che mai nel passato, rendersi presente in ogni parte del mondo, non solo con la parola, scritta o parlata, e con l’immagine, ma anche di persona: i viaggi apostolici, ai quali era ricorso già, con audace e felice decisione, Paolo VI e che l’attuale Sommo Pontefice sta sviluppando con spirito così vivacemente pastorale, non sono forse un modo per avvicinare il Papa alle più lontane regioni della terra?

Ma si tratta pur sempre di contatti non sufficienti ad assicurare una stabile presenza e per fare di questa un mezzo adeguato per il pieno e continuato esercizio del servizio pastorale che è dovere del Papa nei riguardi di ogni porzione della Chiesa di Dio: Servizio che non è diretto a sostituire od a limitare quello dei Pastori delle Chiese Particolari, ma a sostenerlo e ad aiutarlo, conformemente alla missione del Papa di essere «servus servorum Dei», e ad assicurare l’unità dei Pastori delle Chiesa intera, come «visibile et perpetuum fundamentum unitatis».

Nota caratteristica del servizio pastorale del Papa – come, del resto, di ogni servizio pastorale nella Chiesa – è l'amore. Esso è stato affidato, infatti, a Pietro quasi in risposta alla triplice sua professione di amore, in risposta alla triplice domanda di Cristo: «Simone, figlio di Giovanni, mi ama tu?» (Gv 21,16). Anzi, il Cristo aveva chiesto ancora di più: «Mi ami tu più di questi altri?» E Pietro, trepidante nel ricordo della sua non lontana pavida, triplice negazione e consapevole dell'amore che, almeno uno dei suoi compagni di vocazione, Giovanni, aveva più di lui saputo manifestare nell'ora della Passione, non osa rispondere a questa così esigente e imbarazzante richiesta e si limita a mormorare, quasi disperato: «Signore tu sai tutto, tu io sai che ti amo» (ibid 21,17).

Ma l'esigenza del Signore aveva la sua ragione: avendo stabilito di affidare a Pietro una più grande, universale responsabilità pastorale, Egli voleva sottolineare che questa richiedeva una più grande, universale generosità di amore verso di Lui, nella Sua persona: Se mi ami, e perché mi ami, guida i miei, tutti i miei, tutti i miei, ai pascoli delle verità, della santità della giustizia, della carità; confermarli, con l’autorità che ti è propria, a cominciare da quelli stessi che con te e sotto di te sanammo Pastoni nella fedeltà a me e alla mia parola; difendili contro gli assalti dell'errore; sostienili, con la parola, la preghiera, l'esempio, l'azione, nelle prove e nelle persecuzioni che non mancheranno nei secoli, durante i quali si svilupperà, la vita della mia Chiesa.

I Rappresentanti Pontifici nelle diverse Nazioni non hanno certo, normalmente, funzioni direttamente pastorali da svolgere, quasi che partecipassero di quelle che spetta al Supremo Pastore, nei riguardi delle Chiese locali e dei loro Pastori. Ma essi debbono ugualmente, e innanzitutto, rappresentare, rendere cioè in qualche modo presente ed operante, dovunque siano inviati, l'amore del Papa verso i suoi Fratelli nell'onere episcopale, i sacerdoti, i religiosi, le religiose, i fedeli tutti. Amore fatto di stima, di rispetto, di riguardo, di desiderio di aiutare senza opprimere, amore che si manifesta anche quando vi sia da correggere; amore che sempre si propone di servire, anche quando il servizio esige esercizio di autorità.

Su questa fondamentale caratteristica, su questo fondamentale dovere di quanti sono destinati a rappresentare Colui che il «sensus fidelium» chiama spontaneamente «il Santo Padre» e non su altre doti, ancor meno sulle capacità «professionali o diplomatiche», che pur, giustamente, si richiedono nei rappresentanti Pontifici, vorrei richiamare la particolare attenzione dell'illustre amico che sta per assumere responsabilità di questo genere, e l'attenzione di quanti sono qui raccolti attorno a lui, perché insieme chiedano a lui, dallo Spirito di Dio, principalmente, il dono dell’amore per la Chiesa.

Infatti anche l’attività diplomatica del Rappresentante Pontificio, là dove egli è inviato presso l’Autorità di uno Stato, oltreché presso l’episcopato e la Comunità Cattolica rispettiva, è essenzialmente servizio di Chiesa: deve, cioè, essere essenzialmente diretto a tutelare ed a promuovere i diritti e i legittimi interessi della Chiesa e dei fedeli. Ed anche la dove ha una attività deve spaziare in altri campi, quello, principalmente, dei problemi che interessano la vita dell'umanità, la pace, interna ed internazionale, lo sviluppo, la cooperazione fra i popoli, il Rappresentante Pontificio deve agire nel nome e nello spirito con il quale il Papa sì occupa, e deve occuparsi, di queste grandi cause della famiglia umana: sotto il profilo, cioè, morale – e quindi profondamente evangelico – nel quale questi problemi debbono essere visti, al di là dei loro aspetti tecnici e politici.

Amare porta, in primo luogo, a cercar di conoscere. È vero che il Papa ha modi molteplici per rendersi conto della situazione dei singoli Paesi e delle varie Chiese locali: in particolare mediante il contatto con i suoi Fratelli nell’episcopato e con le Conferenze Episcopali. Ma è vero, anche, che la presenza dei suoi Rappresentanti nelle varie parti del mondo gli offre una preziosa possibilità in più per acquisire una conoscenza organica e continuamente aggiornata della vita della Chiesa nel mondo, dei suoi problemi, delle sue gioie e delle eventuali difficoltà, delle sue realizzazioni e delle sue speranze. Naturalmente l’azione del Rappresentante pontificio, in questo come negli altri campi della sua attività ecclesiale, deve svolgersi sempre nel rapporto vitale e nel contatto fiducioso e fraterno con i Vescovi e con la realtà della Chiesa locale.

Essa dev'essere guidata e illuminata, non da un puro sentimento – direi di dovere «professionale», ma dall’amore e dalla simpatica verso la Chiesa nella quale ha il privilegio di vivere, sicché in lui Pastori e fedeli possano;»sentire sempre l'amore del Padre – il Santo Padre – che l'ha inviato presso di loro e che gli fa fiducia proprio perché, oltre le sue capacità e la sua preparazione, si attende da lui l’«intelligenza dell'amore».

Perché l'amore porta anche a comprendere: non solo, cioè, a vedere la realtà com'è, ma, insieme, a valutarla con oggettività: più ancora, con ottimismo. Né si creda che ciò danneggi, facendo scambiare la bellezza di un sogno ispirato dal desiderio, figlio dell'amore con le durezze di una realtà, di fronte alla quale sarebbe pericoloso chiudere gli occhi. 

L’amore porta, infine, ad agire.

Un'azione che, nel Rappresentante Pontificio, deve essere discreta, e insieme efficace, grazie particolarmente al contatto vitale che egli saprà avere con la Chiesa locale, al cui servizio è mandato.

La sua cordiale partecipazione ai suoi problemi, alle Sue speranze, alle sue difficoltà, unita a un fraterno e fiducioso rapporto con l'Episcopato gli daranno la maniera di offrire una utile, e qualche volta indispensabile cooperazione; sia con il consiglio e con l’interessamento personale, sia sollecitando dalla S. Sede interventi e aiuti opportuni; e cioè specialmente quando si tratta, come nel Suo caso, Monsignor Dyba, di Chiesa di Missione.

Un ampio campo si apre così alla Sua attività apostolica, nelle Repubbliche di Sierra Leone e Guinea, come Delegato Apostolico, ed in quella di Gambia e di Liberia, in qualità di Pro-Nunzio. Mi piace qui ricordare che, mentre la Nunziatura Apostolica in Liberia è la prima Rappresentanza diplomatica che la S. Sede ha aperto in terra africana: e vi è qualcosa di altamente significativo nel fatto che una Repubblica, nata a simbolizzare anche nel suo nome la legittima, incontenibile aspirazione dei popoli africani alla «libertas», alla libertà, abbia cercato per prima – in un Continente nella massima parte ancora soggetto ad altri – 1'appoggio e il sostegno morale di un rapporto ufficiale con la Sede Apostolica.

Ella affronta la Sua nuova missione sostenuto da una non breve e assai varia esperienza; ultima, in ordine di tempo ma non certo di importanza, quella degli anni spesi come Sottosegretario della Pontificia Commissione Iustitia et Pax: due termini, questi, così profondamente cristiani, oltre che umani; due realtà, il cui servizio è parte essenziale della missione della Chiesa e della S. Sede.

Ella conosce meglio di altri la loro importanza e la difficoltà di conciliare le rispettive esigenze, ma sa anche che è una necessita vitale, per il mondo e per ogni singolo Paese, saper stabilire una pace che, solo se basato sulla giustizia, è vera e può essere duratura.

Ella porta altresì nella sua nuova missione, insieme alle doti personali che fanno di Lei un sacerdote e un diplomatico di così alta qualità, quanto Le viene dalla Sua origine e dalla Sua educazione tedesca. Pur essendo Rappresentante della Santa Sede e del Santo Padre, ella porterà con Sé anche il nome di questa vecchia e sempre nuova Germania, la cui lunga storia, intessuta di tante alterne vicende, è così ricca di pagine straordinariamente luminose nei campi del pensiero, dell'arte, della scienza, della santità, e che ancor oggi, nuovamente risorta, costituisce per la Chiesa una forza particolarmente preziosa, che può e sa generosamente venire in aiuto alle necessità spirituali e materiali di tante altre Chiese particolari e popolazioni in stato di bisogno.

Noi L'accompagnamo, caro Monsignore, con i nostri auguri e con le nostre preghiere.

Possa la benedizione di Dio, che io ho la gioia di invocare su di Lei anche nel nome del Santo Padre, con noi qui spiritualmente presente, rendere felice e fecondo di frutti il ministero che Ella sta per intraprendere!


*Archivio dell’Associazione – Centro Studi Card. A. Casaroli, Bedonia.

 

 

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