The Holy See
back up
Search
riga

INTERVENTO DI S.E. MONS. CELESTINO MIGLIORE
AL DIBATTITO GENERALE DELLA
63ª ASSEMBLEA GENERALE DELL'O.N.U.*

New York
Lunedì, 29 settembre 2008

 

Signor Presidente,

mentre assume la presidenza di questa 63ª sessione dell'Assemblea Generale, la mia delegazione le porge i migliori auguri per i suoi sforzi e attende con ansia di cooperare con lei per affrontare le numerose sfide poste alla comunità internazionale.

Questo dibattito generale è un'occasione per i responsabili della vita nazionale di ogni Paese per riunirsi e testare il polso della situazione mondiale. Per sua natura e struttura, l'Organizzazione delle Nazioni Unite non genera né eventi né tendenze, ma è piuttosto una buona piattaforma sulla quale possono essere dibattuti e ricevere una risposta coerente, congiunta e opportuna.

Quest'anno è stato dominato da alcune sfide e crisi: calamità naturali e provocate dall'uomo, economie vacillanti, terremoti finanziari, aumento dei prezzi dei generi alimentari e dei carburanti, l'impatto dei cambiamenti climatici, conflitti e tensioni locali. Siamo stati chiamati in questa sede ancora una volta per individuare le cause e i denominatori comuni delle diverse crisi e per elaborare adeguate soluzioni a lungo termine.

Un fatto evidente e riconosciuto da tutti è che ogni crisi presenta una combinazione di fattori naturali e di elementi di responsabilità umana. Tuttavia, spesso sono peggiorati da risposte tardive, fallimenti o riluttanza dei leader a esercitare la propria responsabilità di proteggere le popolazioni.

Quando, fra queste mura, si parla della responsabilità di proteggere, il significato di questo termine si trova nel Documento Conclusivo del 2005, che si riferisce alla responsabilità della comunità internazionale di intervenire in situazioni in cui i singoli governi non possono o non vogliono garantire protezione ai loro cittadini.

In passato, il concetto di "protezione" è stato troppo spesso un pretesto per l'espansione e per l'aggressione. Nonostante i numerosi progressi nel diritto internazionale, questa stessa idea e questa pratica sono tragicamente diffuse ancora oggi.

Tuttavia, lo scorso anno in questa stessa sede, c'è stato un consenso crescente e una maggiore accettazione di questa espressione come parte vitale di una guida responsabile. La responsabilità di proteggere è stata invocata da alcuni come aspetto essenziale dell'esercizio della sovranità ai livelli nazionale e internazionale, mentre altri hanno rilanciato il concetto dell'esercizio della sovranità responsabile.

Da parte sua, lo scorso aprile, anche Papa Benedetto XVI, nel suo discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha riconosciuto che a partire dai più antichi discorsi filosofici sull'arte di governare fino al più moderno sviluppo dello Stato nazione, la responsabilità di proteggere è stata strumentale, e deve continuare a esserlo, al principio condiviso da tutte le nazioni di governare i propri cittadini e di regolare i rapporti fra i popoli. Queste dichiarazioni evidenziano qual è la base storica e morale da cui gli Stati devono partire per governare. Parimenti, asseriscono di nuovo che il buon governo non dovrebbe più essere valutato nel contesto di "diritti dello Stato" o "sovranità", ma piuttosto in base alla sua capacità di prendersi cura di quanti affidano ai governanti la grave responsabilità di guidare.

Nonostante il crescente consenso per la responsabilità di proteggere quale strumento di maggiore cooperazione, questo principio viene ancora invocato come pretesto per l'uso arbitrario della forza militare. Questa distorsione è un proseguimento di metodi e idee passati e fallimentari. L'uso della violenza per risolvere disaccordi è sempre un'idea errata e un fallimento dell'umanità. La responsabilità di proteggere non dovrebbe essere considerata solo in termini di intervento militare, ma, in primo luogo, come necessità della comunità internazionale di essere unita di fronte alle crisi e elaborare strumenti per negoziati corretti e sinceri, per sostenere la forza morale del diritto e per ricercare il bene comune. Il fallimento nell'unirsi per proteggere le popolazioni a rischio e per evitare interventi militari arbitrari minerebbe l'autorità morale e pratica di quest'Organizzazione.

Il "noi popoli" che ha costituito le Nazioni Unite concepiva la responsabilità di proteggere come nucleo fondamentale dell'Organizzazione. I padri fondatori ritenevano che la responsabilità di proteggere sarebbe consistita non nell'uso della forza per ripristinare la pace e i diritti umani, ma soprattutto nella riunione degli Stati per individuare e denunciare i primi sintomi di qualsiasi tipo di crisi e per esortare i governi, la società civile e l'opinione pubblica a trovare le cause e offrire soluzioni. Anche le varie agenzie e i vari organismi delle Nazioni Unite riaffermano l'importanza della responsabilità di proteggere con la loro capacità di operare in stretta collaborazione e solidarietà con le popolazioni colpite e di porre in essere meccanismi di individuazione, attuazione e monitoraggio.

È urgente che non solo gli Stati, ma anche le Nazioni Unite assicurino che la responsabilità di proteggere sia il criterio e la motivazione che sottendono tutto il loro lavoro.

Mentre molti continuano a interrogarsi e discutere circa le cause reali e le conseguenze a medio e a lungo termine delle varie crisi finanziarie, umanitarie e alimentari nel mondo, le Nazioni Unite e i suoi Stati membro hanno la responsabilità di fornire orientamento, coerenza e soluzioni. Sono in gioco non solo la credibilità di questa organizzazione e dei leader del mondo, ma, e ciò è ancor più importante, la capacità della comunità umana di fornire cibo e sicurezza e di tutelare i diritti umani fondamentali affinché tutti i popoli abbiano l'opportunità di vivere liberi dalla paura e dal bisogno e quindi realizzino la loro intrinseca dignità.

L'Organizzazione delle Nazioni Unite non è stata creata per essere un governo globale, ma è il prodotto della volontà politica dei singoli Stati membro. Quindi, sono il bambino orfano a causa dell'HIV/AIDS, i ragazzi e le ragazze venduti o costretti in schiavitù, quanti si svegliano ogni mattina senza sapere se quel giorno saranno perseguitati per la propria fede o per il colore della loro pelle a implorare un'istituzione e leader che diano credito alle loro parole con azioni, impegni e risultati. Queste voci, troppo spesso ignorate, devono essere ascoltate affinché possano superare le divisioni storiche, geografiche e politiche e creare un'organizzazione che rifletta le nostre migliori intenzioni invece che i nostri vari fallimenti.

Un'area in cui le nostre migliori intenzioni richiedono un'azione urgente è quella del cambiamento climatico. La mia delegazione loda il Segretario Generale Ban Ki-moon per la sua guida nel riconoscere l'urgenza di affrontare tale questione e lodiamo gli Stati e la società civile perché svolgono i necessari sacrifici personali e politici per garantire un futuro migliore.

La sfida del cambiamento climatico e le varie soluzioni proposte e messe in pratica, ci portano a evidenziare una preoccupazione e un'incoerenza presenti oggi nell'ambito del diritto nazionale e internazionale, ossia che tutto quello che è tecnicamente possibile deve essere legalmente lecito.
Nell'adottare norme ancor più restrittive per proteggere l'ambiente e la natura, spesso si afferma giustamente che non tutta l'attività ambientale andrebbe permessa e sanzionata dalla legge solo perché è tecnicamente possibile ed economicamente conveniente. Il disboscamento indiscriminato, lo scarico di rifiuti radioattivi e atti invasivi e devastanti per la natura sono spesso opportunistici e tecnicamente possibili, ma, poiché interpellano la nostra coscienza e la nostra responsabilità verso la creazione, decidiamo di invocare il principio secondo il quale, sebbene siano possibili, non dovrebbero essere legalmente leciti.

Tuttavia, quando si passa dal campo ecologico a quello umano abbiamo la tendenza ad affermare il principio opposto, ossia che tutto quello è tecnicamente possibile dovrebbe essere legalmente lecito e quindi attuato. Sia che riguardi la produzione di armi da guerra, l'ingegneria biotecnologica, l'eliminazione di vite umane, la tecnologia riproduttiva o la struttura della famiglia stessa, abbiamo la tendenza a sostenere che ciò che è tecnologicamente possibile dovrebbe anche essere legalmente lecito.

La comunità globale deve riunirsi per invertire questa contraddizione e impegnarsi in un discorso politico che riconosca la centralità degli esseri umani in tutti gli aspetti dello sviluppo politico e tecnologico. Gli stessi principi che ci portano a opporci a una tecnologia e a politiche incontrollate che distruggono l'ambiente, dovrebbero guidarci nell'uso prudente di tecnologie e nell'elaborazione di politiche che colpiscono direttamente la vita degli individui. Se non lo faremo, soccomberemo a un'incoerenza che penalizza l'individuo e la società umana, e rischia di preparare la strada all'imposizione di leggi da parte dei più forti e alla creazione di una nuova massa di perdenti.

Signor Presidente,

all'inizio di questa sessione dell'Assemblea Generale ci adoperiamo per plasmare un'Organizzazione che rifletta le nostre più nobili e migliori intenzioni e che, con sollecitudine, ponga le necessità di tutti al centro delle nostre decisioni e della nostra responsabilità, indipendentemente dalla loro posizione economica e politica.


*L’Osservatore Romano, 20-21.10.208 p.2 -

       

top