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INTERVENTO DELLA SANTA SEDE ALLA SESSIONE PLENARIA DELLA
I CONFERENZA SU L'ADOZIONE E L'ASSISTENZA ALL'INFANZIA

INTERVENTO DEL REV. GIACOMO PERICO S.J.

Milano, 17 settembre 1971

 


I

Sono stato invitato dagli organizzatori di questa Conferenza Mondiale a esprimere alcune idee cardine, a cui la dottrina morale va ispirando il proprio atteggiamento e la propria azione, e che costituiscono, sostanzialmente la «summula morale» del problema dell'adozione.

1. Anzitutto, l'adozione, come istituto che dà una famiglia ai bambini che non l'hanno mai avuta o che non l’hanno più, è fondato su un loro diritto fondamentale. Sono bambini nati da noi, che non hanno mai chiesto di nascere, ma che una volta apparsi nella comunità, sono diventati parte integrante di essa, e affermano con la loro dignità umana il diritto a un loro posto d’onore: a essere, quindi, tempestivamente assistiti e formati ai loro compiti di persone e di cittadini, per poter rispondere più tardi alla loro vocazione umana e comunitaria.

Ora, è scientificamente certo che il solo ambiente, capace di rispondere a questo diritto di formazione e di espansione della piccola personalità è la famiglia: il più possibile fornita degli elementi che contraddistinguono la famiglia naturale: dove venga instaurato un clima di chiarezza e di facile intesa; dove modelli paterni e materni, attraverso contatti vivi e spontanei, ma soprattutto penetrati di affetto, stimolino e maturino tutte le valenze che sono in embrione nel bambino.

Su questo presupposto scientifico, la dottrina morale afferma il diritto del bambino, rimasto solo, ad avere «lui pure, la sua famiglia, composta di papà e mamma in età proporzionata, ricca di serenità e di amore, dove egli possa inserirsi e sentirsi «figlio a pieno diritto», senza alcuna discriminazione dai figli di sangue.

2. Perciò, sono da considerarsi superate e anacronistiche le formule adozionali dove il bambino viene adottato perché assicuri a coniugi ricchi, rimasti senza eredi, la continuità di una stirpe o di un patrimonio, o per assicurare braccia ai lavori dei campi o dell’azienda familiare o assistenza alla propria vecchiaia.

Non dovrebbero più essere, oggi, gli adottanti al centro del problema, ma il minore bisognoso di affetto e di assistenza, e, siccome lui lo esige, è necessario che l’età dei genitori adottivi sia adatta; è necessaria una capacità di affetto; è necessario trattarlo come tutti gli altri bambini, cancellando ogni accusa di triste atavismo o di fantomatiche tare ereditarie. Questa impostazione esige azione sull’opinione pubblica, e tutti dobbiamo impegnarci in questo compito di chiarezza!

La dottrina morale, ancora, ritiene che il rapporto genitore-figlio, più che sul legame di sangue, si costituisce sul legame di amore. Il sangue segna l’origine del bambino, ma non crea il rapporto più importante dei sentimenti e della personalità. Il bambino trova il padre e la madre in chi lo ama e lo forma da padre e da madre. Al sangue va dato, naturalmente, il suo valore biologico di discendenza, ma non occupa nella vita un posto di supremazia o di mito a cui tutto debba essere sacrificato. L’amore lo supera notevolmente.

3. Nella luce dì queste premesse è valida la tesi che gli istituti, di assistenza o di beneficenza, privati o pubblici, che accolgono minori senza famiglia, dovrebbero essere considerati «dolorosi ripieghi» in mancanza di soluzioni migliori.

Difatti, in questi istituti, per quanto attrezzati modernamente e diretti da persone capacissime, i bambini non riescono mai a trovare il loro terreno di crescita perfetta. Non vi sono genuini modelli materni e paterni, cambiano i superiori, gli amici, i compagni, i regolamenti, gli orari; ogni mutamento costituisce un rinnovato abbandono, che logora la psicologia del bambino, il quale finisce per smarrirsi; per lui è sempre un ricominciare ogni volta, da capo la sua azione di ambientamento. Tutto ciò lo esaspera, e la sua personalità ne esce ferita, quasi sempre in maniera irreparabile.

Dobbiamo riconoscere che questi istituti hanno risolto nel passato situazioni sociali estremamente gravi, e vanno ancora risolvendone di nuove, evitando a moltissime esistenze il disastro: hanno ancora piena validità. Ma non è la soluzione ideale e naturale; dobbiamo, quindi, batterci in tutti i modi per realizzare il massimo assorbimento dei minori assistiti in famiglie, che diventino le loro famiglie.

E’ giunto il tempo di dire chiaramente che non è attraverso le espressioni di commiserazione per i bambini infelici e poveri che risolveremo il grosso problema: queste sono espressioni di pietà che indicano sì urta certa sensibilità spirituale, ma che servono ben poco alla nostra comunità e soprattutto ai nostri bambini che stanno aspettando da noi qualcosa di più concreto: l’amore di una famiglia.

Sarebbe l’occasione migliore per i migliori fra noi, di impegnare la propria volontà di bene in quest’azione di solidarietà e di intelligente bontà. Sarebbe la maniera di rilanciare sulla comunità un messaggio di squisita carità e socialità, che potrebbero neutralizzare la prepotente corrente di egoismo che minaccia di affogarci.

III

 

1. Per ciò che si riferisce all’adozione internazionale, la dottrina morale, sulla linea dei suoi presupposti di etica adozionale, appoggia e incoraggia ogni tentativo e prospettiva di accordo fra Paesi. L’amore, che sta come motore al centro del problema, non accetta confini: esso spinge le sue ricerche e le sue prestazioni dovunque vi siano bambini che chiedono affetto e formazione.

Sul piano giuridico, questo sarà possibile se l’adozione avrà una regolamentazione ugualmente matura presso tutti i Paesi; se vi saranno premesse comuni in vista di una certa uniformità nei principi e nelle procedure fondamentali di affidamento. Si ha l’impressione che i tempi siano maturi per questo passo: grazie anche allo sforzo che alcuni Centri hanno compiuto e stanno compiendo da anni per sensibilizzare in questa linea l’opinione pubblica, gli operatori sociali e le autorità politiche e religiose.

2. L’ideale sarebbe che ogni minore, rimasto solo, riuscisse a trovare all’interno del suo Paese la famiglia adatta e disponibile; in questo caso risulterebbe più rapido e più completo l’impianto del minore, e assai minori i rischi del rigetto. Ma non sempre è possibile, soprattutto quando, per cause diverse, una grande moltitudine di minori di un determinato Paese rimane senza famiglia.

In questa situazione di urgenza, il trapianto in un’altra nazione è certamente la formula migliore. I rischi di un eventuale disadattamento potranno essere contenuti e forse anche evitati, soprattutto attraverso una scelta particolarmente attenta della coppia adottiva. Dipenderà molto dalla naturalezza e dalla serenità con cui le diversità psico-somatiche del minore saranno accettate e vissute fin dai primissimi tempi nell’ambito familiare e nei primissimi incontri col mondo sociale.

Ma, pur ammesso che insorga qualche difficoltà di inserimento, questa non sarà mai tale da essere paragonata alla rovina presso che completa, a cui sarebbero condannate tante piccole esistenze, se l’adozione internazionale non intervenisse.

3. C’è da tempo nell’aria un’accusa contro l’adozione internazionale, in quanto costituirebbe una inopportuna e ingiusta concorrenza all’adozione nazionale. Proprio da un punto di vista morale, l’accusa risulta assolutamente fuori posto e addirittura assurda. Tra bambini che devono essere ugualmente aiutati e salvati, non c’è problema di concorrenza; si ricercano e si raccolgono secondo un ordine di urgenza e di concreta disponibilità.

E’ in questo senso, anzi, che accanto alle iniziative delle coppie richiedenti, tese ad ottenere dall’estero minori da adottare dove soprattutto maggiore è il bisogno, dovrebbe esistere da parte dello stesso Stato che ha questa infanzia abbandonata, la facile disponibilità ad accogliere queste richieste straniere, beninteso dopo adeguate verifiche delle necessarie garanzie di protezione e di formazione del minore. Al centro del problema, lo abbiamo detto all’inizio, è l’interesse preminente del bambino; tutto il resto, anche se importante, resta subordinato.

III

Queste considerazioni, possono acquistare una forza particolare per tutti i credenti, in una paternità di un Dio comune. Se il credente riesce a collocare il suo gesto adottivo in una prospettiva soprannaturale, la scelta, già altamente umana, assume un significato e un valore infinitamente superiore: egli imita il gesto stesso di Dio, che per amore ci ha adottato, rendendoci suoi figli nel senso più vero, e dichiarandoci eredi della sua sconfinata ricchezza.

Il bambino abbandonato, in questa luce, viene amato anche come figlio di Dio, come oggetto dei suoi progetti di amore. Non è più solo amore dell’uomo per l'uomo, ma è anche volontà di esprimere affettivamente il proprio amore per Dio. A questo livello le motivazioni dozionali, la dedizione e l’impegno di consacrazione al minore sono assai più liberi e integrali, e il bambino corre minori rischi nella formazione.

Riesco allora anche a spiegarmi alcuni gesti adottivi di persone che hanno scelto bambini adottivi tra i disadattati, i poliomielitici, i focomelici, cioè i meno desiderabili da un punto di vista di prudenza e di calcolo umani. L’incontro con il minore irregolare, oltre che un incontro con un bambino sofferente bisognoso di tutto, è diventato per queste persone un autentico incontro con Dio, nella linea del Vangelo che potrebbe e dovrebbe diventare la base comune di chi ama gli altri fratelli, e che a un certo punto dice: «Chi accoglie un bambino come questi nel mio nome, accoglie me» (Mt 18, 5).


 

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