Index

Back Top Print

"DIES ACADEMICUS" DELLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ GREGORIANA
SUL TEMA: "LA PACE: DONO DI DIO, RESPONSABILITÀ UMANA, IMPEGNO CRISTIANO"

"LECTIO MAGISTRALIS" DEL CARDINALE PIETRO PAROLIN, SEGRETARIO DI STATO

Roma
Mercoledì, 11 marzo 2015

 

L’attività diplomatica della Santa Sede a servizio della Pace

1. Rende particolarmente significativo l’incontro di oggi il modo con cui è stato preparato, coinvolgendo le diverse Facoltà e Istituti dell’Università tutti chiamati a riflettere sulla pace ed a proporre sentieri di pace secondo il rispettivo approccio filosofico, teologico, giuridico, psicologico, sociale, storico e della comunicazione. La pace, dunque, vista come strumento di quella reductio ad unum che si realizza quando la conoscenza che è propria delle diverse discipline si fonde nell’unità del Sapere.

Un metodo quanto mai necessario a fronte di quella frammentazione che interessa anche il Sapere, spesso riducendolo a tante conoscenze tra loro separate e quasi impenetrabili. Ognuna propone la sua risposta ai grandi interrogativi dell’uomo, dimenticando che si tratta solo di soluzioni che, per quanto competenti e corrette, rimangono parziali. E anche la questione della pace non sfugge a questa dinamica.

Utilizzando le tecniche della comunicazione, se volessimo esprimere con una "nuvola di parole" (word cloud) cosa rientra nel concetto di pace troveremo termini quali armamenti e spesa militare, disordine, conflitti interni, guerra, tensioni ideologiche e religiose, odio razziale, ma anche povertà, cambiamenti climatici, fame, risorse naturali…. Un lungo elenco che rende impossibile stabilire quali siano le parole più importanti, quelle da scrivere con un carattere più grande, per intenderci. Anche la pace, dunque, rischia di essere vista nelle sue diverse sfaccettature, tutte valide, anche se spesso lontane dall’obiettivo unitario di costruirla. Per questo anche le riflessioni che intendo condividere con Voi tutti, sono animate dal desiderio di coinvolgere le differenti realtà che compongono l’Universitas perché ognuno senta la sua chiamata ad essere protagonista nell’impegno a edificare un futuro di pace.

2. Lo scorso 12 gennaio, incontrando il Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Papa Francesco richiamava il duplice significato della pace, indicando «Quest’oggi desidero far risuonare con forza una parola a noi molto cara: pace! Essa ci giunge dalla voce delle schiere angeliche, che la annunciano nella notte di Natale (cfr Lc 2,14) quale prezioso dono di Dio e, nello stesso tempo, ce la indicano come responsabilità personale e sociale che ci deve trovare solleciti e operosi» [1]. La pace, dunque, come dono di Dio e come frutto dell’azione umana. E se il dono appartiene all’ordine della gratuità che unisce il Creatore alle sue creature, l’azione umana riconduce alla responsabilità. Come credenti, non possiamo certo dubitare che il Padre nostro ci farà mancare ciò di cui abbiamo bisogno (Mt 6, 32), ma come donne e uomini che vivono ogni giorno il loro pellegrinaggio terreno abbiamo certamente la responsabilità di costruire la pace. Vuol dire che aspirare alla pace non basta, come non è sufficiente l’intenzione di operare per la pace: occorrono comportamenti concreti e coerenti, azioni mirate e, soprattutto, la piena coscienza che ognuno nel suo piccolo o grande mondo quotidiano è "costruttore di pace" (Mt 5,6), pur nei diversi compiti, incarichi e funzioni.

Chi vi parla non nasconde che le parole di Papa Francesco appena richiamate sono motivo di quotidiana riflessione di fronte all’esercizio della funzione di primo collaboratore del Vescovo di Roma anche nell’azione propriamente internazionale. Un mandato che porta il Segretario di Stato a diretto contatto con i Responsabili politici e quindi con le circostanze che determinano la vita della Comunità internazionale, le relazioni tra gli Stati, le attività degli Organismi internazionali e, in particolare, le vicende dei diversi popoli che compongono la famiglia delle Nazioni. Un mosaico di situazioni che gli avvenimenti di cui siamo protagonisti o a cui ogni giorno assistiamo, colorano di contrasti, di diffidenze che giungono anche a quella «violenza fratricida»[2] che provoca disastri umanitari di vaste proporzioni.

Quale parte di questa complessità – oggi amplificata dall’immediatezza comunicazione, spesso con crudo realismo – l’azione diplomatica della Santa Sede non si accontenta di osservare gli accadimenti o di valutarne la portata, né può restare solo una voce critica. Essa è chiamata ad agire per facilitare la coesistenza e la convivenza fra le varie Nazioni, per promuovere quella fraternità tra i Popoli, dove il termine fraternità è sinonimo di collaborazione fattiva, di vera cooperazione, concorde e ordinata, di una solidarietà strutturata a vantaggio del bene comune e di quello dei singoli. E il bene comune, come sappiamo, con la pace ha più di un legame. La Santa Sede, in sostanza, opera sullo scenario internazionale non per garantire una generica sicurezza – resa più che mai difficile in questo periodo dalla perdurante instabilità –, ma per sostenere un’idea di pace frutto di giusti rapporti, di rispetto delle norme internazionali, di tutela dei diritti umani fondamentali ad iniziare da quelli degli ultimi, i più vulnerabili. Quella pace che, come ebbe a dire il Beato Papa Paolo VI, riprendendo la Costituzione conciliare Gaudium et Spes, non scaturisce solo da «un’assenza di guerra frutto dell’equilibrio precario delle forze»[3]. Una prospettiva che superava una convinzione tradizionale dei rapporti internazionali, strutturati sull’alternarsi tra la pace e la guerra.

I Papi, in particolare quelli più vicini noi, hanno manifestato e manifestano questa visione nel loro insegnamento – come non ricordare la Pacem Dei Munus di Benedetto XV a conclusione del primo conflitto mondiale o la Pacem in Terris di San Giovanni XXIII scritta nel pieno di un mondo diviso –, ma la manifestano anche nei contesti internazionali più significativi, nei momenti di maggiore tensione, mostrando come la pace non è solo un punto fermo della dottrina della Chiesa, ma nei suoi contenuti è una sorta di agenda per la condotta della Santa Sede nella società degli Stati e per la connessa attività diplomatica che essa esercita. Un’attività che a molti può sembrare retaggio di vicende storiche ormai lontane, emanazione di un potere temporale che mal si addice ad una dimensione pastorale e spirituale della Chiesa. Eppure l’immagine di "Popolo di Dio" a cui l’ecclesiologia del Vaticano II affida il compito d’instaurare il Regno di Cristo, ci dice che la Chiesa «nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva»[4].

La diplomazia della Santa Sede ha una chiara funzione ecclesiale: se è certamente lo strumento di comunione che unisce il Romano Pontefice ai Vescovi a capo delle Chiese locali o che consente di garantire la vita delle Chiese locali rispetto alle Autorità civili [5], oserei dire che è anche il veicolo del Successore di Pietro per "raggiungere le periferie", sia quelle della realtà ecclesiale che quelle della famiglia umana. Senza l’opera delle Rappresentanze diplomatiche pontificie quanti credenti – e non solo battezzati – vedrebbero limitata la loro fede? Quante istituzioni della Chiesa rimarrebbero senza quel vitale contatto con il suo governo centrale che ne disegna l’agire, dà loro sostegno e finanche credibilità? Sul versante della società civile, la mancata presenza della Santa Sede nei diversi contesti intergovernativi di quali orientamenti etici priverebbe gli indirizzi di cooperazione, il disarmo, la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame, la cura delle malattie, l’alfabetizzazione?

Quanti dedicano il loro ministero sacerdotale ed episcopale al servizio diplomatico della Santa Sede conoscono bene questa loro responsabilità che li rende partecipi dell’esercizio di un aspetto del munus Petrino, ben sintetizzato dal can. 362 del Codice di Diritto Canonico: «Il Romano Pontefice ha il diritto nativo e indipendente di nominare e inviare suoi Legati sia presso le Chiese particolari nelle diverse nazioni o regioni, sia presso gli Stati e le Autorità pubbliche, come pure di trasferirli e richiamarli, nel rispetto però delle norme del diritto internazionale per quanto riguarda l'invio e la revoca dei Legati accreditati presso i Governi». Una visione chiara e capace di far convergere sulla diplomazia pontificia le ragioni ecclesiali – nelle quali il teologo ritrova in pienezza quella dimensione della collegialità esposta dalla Lumen Gentium – e il suo pieno inserimento nelle regole che governano i rapporti internazionali, consentendo al giurista di cogliere quanto sia profonda la relazione tra il diritto della Chiesa e l’ordinamento internazionale.

Due ordinamenti certamente autonomi ed originari, e per questo necessariamente aperti al confronto e al collegamento, in molti casi determinanti per la vita della Chiesa: ne sono esempi l’uso dello strumento diplomatico, per sua natura volto «a favorire le relazioni amichevoli tra gli Stati, quale che sia la diversità dei loro ordinamenti costituzionali e sociali»[6]; o la conclusione di trattati, nella forma bilaterale e multilaterale, e cioè di uno strumento con una duplice funzione: «quale fonte di diritto internazionale e quale mezzo per sviluppare la collaborazione pacifica fra le Nazioni»[7]. Il pensiero va immediatamente agli accordi che la Santa Sede conclude con gli Stati e con altri soggetti di diritto internazionale che interpellano l’ordinamento canonico certamente a mostrare la sua peculiare finalità e il suo dominio riservato (la domestic jurisdiction, come è d’uso dire nel linguaggio internazionale), ma anche a ricercare i mezzi per dare la giusta collocazione ai contenuti degli accordi. E ben sapendo che le norme contenute nei trattati conclusi dalla Santa Sede prevalgono anche se contrarie alle disposizioni canoniche codiciali, come oggi ben sottolineano il can.3 del Codice latino e l’analogo contenuto del can. 4 dei Canoni delle Chiese Orientali. Già il 19 aprile 1945, molto prima dunque della vigente codificazione canonica, furono queste le motivazioni che portarono la Santa Sede ad aderire come membro en plein droit all’Istituto Internazionale per l’Unificazione del Diritto Privato (UNIDROIT), certa che il diritto canonico potesse a giusto titolo sedere tra gli altri ordinamenti giuridici vigenti nelle diverse regioni del mondo e con essi confrontarsi, smentendo chi lo voleva mera regolamentazione di un culto religioso. Tentazione, quest’ultima, ritornante in tanti ambienti, anche internazionali.

3. In una società come la nostra, l’immagine e i dati hanno un ruolo essenziale. Lo sanno bene i Docenti sollecitati a una didattica sempre nuova e spesso a ricercare mediante supporti mediatici i modi più efficaci per comunicare il sapere. Ebbene stando ai dati, nell’odierno assetto della Comunità internazionale la Santa Sede ha relazioni diplomatiche di tipo bilaterale con 179 Stati, a cui si aggiungono l’Unione Europea e lo Stato di Palestina; e poi rapporti stabili di tipo multilaterale con una miriade di Istituzioni intergovernative, competenti nei diversi settori in cui si articola la struttura della governance internazionale. Seguendo le norme del diritto internazionale questo significa lo stabilimento di Rappresentanze diplomatiche: le Nunziature Apostoliche presso gli Stati e le Missioni Permanenti presso le Organizzazioni internazionali. In genere esse hanno a capo un Nunzio Apostolico, una figura in tanti Paesi indicata come l’Ambasciatore del Papa, che è prevista dal diritto internazionale codificato nella Convenzione di Vienna del 1961 sulle relazioni diplomatiche [8].

Andando però oltre l’immagine, va sottolineato che questi numeri non esprimono posizioni di riguardo o di chissà quale esercizio di potere, ma piuttosto l’evidenza di un’ampia dimensione di lavoro quotidiano, complesso e sovente difficile il cui obiettivo rimane ad intra la suprema legge della salus animarum, mentre ad extra l’ordinata convivenza tra i popoli che per la visione cristiana è il vero presupposto alla pace.

Se giungere al traguardo della «vera pace sulla terra»[9] significa per la Chiesa dare compimento alla storia della salvezza, per la diplomazia pontificia vuol dire operare facendo come strumento di pace, attenendosi, conseguentemente, alla perseveranza, al rispetto delle regole, a quella lealtà che il diritto internazionale esprime nel ben noto principio di buona fede (pacta sunt servanda). In proposito ci illumina ancora una volta il Codice di Diritto Canonico quando pone tra i compiti del Rappresentante Pontificio quello di «adoperarsi per promuovere tutto ciò che riguarda la pace, il progresso e la cooperazione tra i popoli» (can. 364, 5).

La parola pace, dunque, racchiude un generale desiderio dell’umanità che la Chiesa raccoglie e fa suo. Ma una precisazione va immediatamente aggiunta: l’idea di pace di cui la Santa Sede è portatrice non si ferma a quella che le Nazioni esprimono nel contemporaneo diritto internazionale. Essa è infatti convinta che nessuna azione avente a cuore la pace, compresa quella esercitata dalla diplomazia, può essere ragionevole e valida se, anche tacitamente, mantiene ancora dei riferimenti alla guerra.

Operare per la pace non significa solo determinare un sistema di sicurezza internazionale e magari rispettarne gli obblighi [10]: questo non è che un primo passo, spesso obbligato, a volte imposto. È richiesto altresì di prevenire le cause che possono scatenare un conflitto bellico, come pure di rimuovere quelle situazioni che possono riaprire guerre sanguinose appena concluse, favorendo la riconciliazione tra le parti, che siano Stati, attori non statali, gruppi di insorti o altre categorie di combattenti. La questione – è evidente – investe non solo responsabilità individuali o collettive, ma anche il sistema delle regole della governance mondiale.

4. Il diritto internazionale nella sua funzione di unica autorità superiore agli Stati, mostra la graduale maturazione di principi e norme per governare le situazioni che giustificano il ricorso all’uso della forza armata – il cosiddetto ius ad bellum – e di quelli volti per regolare i conflitti stessi, il tradizionale ius in bello. In tempi più recenti questo processo è giunto ad elaborare norme per umanizzare la guerra, definendo così i contenuti del diritto internazionale umanitario. Una regolazione quest’ultima a cui la Santa Sede non ha mai fatto mancare l’apporto della sua diplomazia nella fase programmatica e redazionale, coniugando coerentemente le esigenze della sua sovranità e della sua condizione di soggetto di diritto internazionale, con la missione che essa svolge nel mondo quale governo centrale della Chiesa. Un apporto che anche nell’immediato è pronto a tradursi in realtà nell’ormai prossimo confronto diplomatico tra gli Stati in vista di un rafforzamento del diritto internazionale umanitario, non di rado reso insufficiente e inoperante dalle nuove forme di conflitto armato.

Pur condividendo e rispettando questi sforzi, però, per la Santa Sede è oggi più che mai urgente modificare il paradigma su cui si poggia l’ordinamento internazionale. I fatti e le atrocità di questi giorni domandano ai diversi attori – Stati e Istituzioni intergovernative in primis – di operare per prevenire la guerra in ogni sua forma dando consistenza ad uno ius contra bellum e cioè a norme in grado di sviluppare, attualizzare e soprattutto imporre gli strumenti già previsti dall’ordinamento internazionale per risolvere pacificamente le controversie e scongiurare il ricorso alle armi. Mi riferisco al dialogo, al negoziato, alla trattativa, alla mediazione, alla conciliazione spesso visti come semplici palliativi privi della necessaria efficacia. Una diversa considerazione di questi strumenti non può essere imposta, ma potrà scaturire solo da un generale convincimento: la pace è un bene prezioso e insostituibile. Lo sforzo a cui tutti siamo chiamati, a partire proprio dai centri di formazione come l’Università, è di favore una matura coscienza che si riflette nell’azione dei Governi e quindi delle istanze intergovernative. E questo nel pieno rispetto di quella legalità internazionale ancorata a fondamentali principi di giustizia[11], generalmente condivisi e, oserei dire, razionalmente condivisi.

Analogamente, il diritto internazionale deve continuare a dotarsi di istituti giuridici e strumenti normativi in grado di gestire i conflitti conclusi o le situazioni in cui gli sforzi della diplomazia hanno imposto alla armi di tacere. La Santa Sede in proposito vuole essere da stimolo per gli altri membri della Comunità internazionale perché trovi consistenza l’esigenza di uno ius post bellum rinnovato rispetto a quello tradizionale che resta limitato solo a stabilire i rapporti tra vincitori e vinti. Lo scorso 4 febbraio Papa Francesco è stato chiaro: «[…]quando io sento le parole "vittoria" o "sconfitta" sento un grande dolore, una grande tristezza nel cuore. Non sono parole giuste; l’unica parola giusta è "pace". Questa è l’unica parola giusta»[12].

Quando è in gioco la pace le questioni da affrontare nel post-conflitto sono molto chiare, come ad esempio il rientro di profughi e sfollati, il funzionamento delle istituzioni locali e centrali, la ripresa delle attività economiche, la salvaguardia del patrimonio artistico e culturale da cui non è estranea la componente religiosa. Ben più complesse, però, sono le esigenze di riconciliazione tra le parti. Basti pensare al rispetto dei diritti umani e tra questi al diritto al ritorno, al ricongiungimento di famiglie e comunità che si confronta con la restituzione dei beni o con il loro risarcimento. Il compito dello ius post-bellum,dunque, non si limita a riassettare territori, a riconoscere nuove o mutate sovranità, o ancora a garantire con la forza armata i nuovi equilibri. Esso deve piuttosto precisare la dimensione umana della pace, eliminando ogni possibile motivo per compromettere la condizione di coloro che hanno vissuto gli orrori di una guerra e attendono un diverso avvenire. Questo comporta pensare a efficaci meccanismi della giustizia di transizione, perché siano realmente conformi a giustizia e non alla volontà di parte. Tradotto nel linguaggio della diplomazia questo significa dare priorità alla forza del diritto rispetto all’imposizione delle armi, garantire la giustizia ancor prima della legalità.

Lo scorso settembre recandomi al Palazzo di Vetro per partecipare ai lavori dell’ONU, mi ha colpito la frase posta all’ingresso della grande sala dell’Assemblea Generale: "The Golden Rule", la regola d’oro, quel principio cardine che ogni cultura e ogni visione religiosa autentica pone a suo fondamento. Operare per la pace ci impone il rispetto dell’altro, chiunque esso sia, e quindi di agire con lui e per lui, considerandolo un altro me stesso.

Mi sia permesso di ricordare come, anche in questo momento, le esperienze della diplomazia pontificia in proposito sono tante e diverse – basti pensare alla sorte delle antiche comunità cristiane in Medio Oriente la cui difesa vede il ruolo attivo delle Rappresentanze Pontificie nell’area. E questo nella convinzione che la protezione va esercitata nei confronti delle persone, nella loro condizione di vittime inermi, prima ancora della loro appartenenza a comunità religiose. Ma in genere questi tipi di azione rimangono lontani dai riflettori e dalla cronaca, seguendo piuttosto quello spirito evangelico ricordatoci da Papa Francesco all’inizio della Quaresima: «Quando si compie qualcosa di buono, quasi istintivamente nasce in noi il desiderio di essere stimati e ammirati per questa buona azione, per ricavarne una soddisfazione. Gesù ci invita a compiere queste opere senza alcuna ostentazione, e a confidare unicamente nella ricompensa del Padre «che vede nel segreto» (Mt6,4.6.18)»[13]. Un monito che poi coincide con il fondamento classico dell’attività diplomatica: persuadere con discrezione e agire con prudenza. San Giovanni XXIII, negli anni del suo fecondo servizio diplomatico annotava in proposito nel Giornale dell’Anima: «A dare semplicità in tutto ricorderò le virtù teologali e cardinali. La prima delle cardinali è la prudenza. È qui che si battono, e spesso restano battuti, papi, vescovi, re e comandanti. Questa è la virtù caratteristica del diplomatico»[14].

5. Quest’attività e queste esperienze della diplomazia della Santa Sede sono lo stimolo per trovare un ulteriore slancio e così concorrere a dare concretezza alle speranze e ai desideri di pace che sorgono dai diversi angoli del pianeta. E questo con un’evidente continuità. Negli anni ’80 del secolo scorso all’interno del Consiglio per gli Affari Pubblici, oggi Sezione per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, trovò collocazione un apposito Ufficio per la mediazione pontificia. Si trattava di sviluppare i contenuti giuridico-politici per porre fine alla disputa territoriale tra l’Argentina e il Cile sul Canale di Beagle, all’estremo sud del Continente americano. Obiettivo realmente raggiunto il 29 novembre 1984 con la conclusione del Trattato di Pace e di Amicizia mediante il quale le Parti davano effetti obbliganti alla soluzione del contenzioso proposta dalla Santa Sede. Un tale tipo di azione pacificatrice era già esercitata lungo la storia, come ricorda l’arbitrato condotto da Papa Leone XIII nel 1885 per porre fine al conflitto che opponeva la Spagna e la Germania per la sovranità sulle Isole Caroline, e giunge fino al recentissimo avvio di una nuova relazione tra Cuba e Stati Uniti dopo decenni di sola contrapposizione. A chi volesse leggere questi fatti slegati dalla dimensione ecclesiale, basta ricordare che nei casi richiamati sono stati gli Episcopati locali e comunque la presenza e il ruolo della Chiesa in quei Paesi a ritenere essenziale un intervento diplomatico della Santa Sede.

Alla diplomazia pontificia, dunque, è affidato il compito di lavorare per la pace seguendo i modi e le regole che sono propri dei soggetti di diritto internazionale, elaborando cioè risposte concrete in termini giuridici per prevenire, risolvere o regolare conflitti ed evitare la loro possibile degenerazione nell’irrazionalità della forza delle armi. Ma, guardando il profilo sostanziale, si tratta soprattutto di un’azione che mostra come il fine perseguito sia primariamente religioso e cioè rientri in quell’essere veri "operatori di pace" e non «operatori di guerre o almeno operatori di malintesi», come ci richiama Papa Francesco[15]. Un appello di fronte al quale il contesto accademico in cui siamo consente, e direi quasi impone, di affiancare a queste riflessioni la proposta che nell’opera di riforma avviata dal Santo Padre ritrovi spazio nella Segreteria di Stato un Ufficio per la mediazione pontificia che possa fare da raccordo tra quanto sul terreno già svolge la diplomazia della Santa Sede nei diversi Paesi e parimenti collegarsi alle attività che in tale ambito portano avanti le Istituzioni internazionali.

Di fronte all’aumento di conflitti armati, interni e internazionali, che sorgono per la carenza di azioni preventive e per la mancata gestione del post-conflitto, quest’attenzione alla prevenzione potrà contribuire ad evidenziare il vero significato della collocazione della Santa Sede nella Comunità internazionale, che parte da una certezza: «Mai come oggi, in un’epoca di tanto progresso umano, si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo!»[16].

Un appello che si fa ancora più accorato quando nel tema della pace si affronta il capitolo del disarmo, ad iniziare da quello nucleare che ha visto nel 1968 la conclusione del Trattato sulla non-proliferazione delle armi nucleari. Nel diventarne parte, nel 1971 la Santa Sede intese «dare il proprio appoggio ed incoraggiamento morale alle disposizioni del Trattato medesimo in quanto esso costituisce un passo importante verso l’auspicata creazione di un sistema di disarmo generale e completo sotto efficace controllo internazionale, in vista di garantire la sicurezza ed accrescere la fiducia nelle relazioni tra gli Stati e di promuovere, su una base giusta e stabile, la pace e la cooperazione tra i popoli»[17]. Un sostegno che continua anche in vista dell’ormai prossima IX Conferenza di revisione di quel Trattato che vede la Santa Sede impegnata su alcuni aspetti essenziali: eliminare la proliferazione di armi nucleari, creare zone denuclearizzate e accrescere la convinzione che la guerra non è un mezzo per risolvere i conflitti tra gli Stati e tra i Popoli.

La «vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia»[18], ci ricorda la Pacem in Terris proprio in relazione al disarmo, una fiducia che la Santa Sede concorre a creare, come mostrano ad esempio la ratifica nel 1977 della Convenzione sull’interdizione dell’uso, stoccaggio, produzione e trasferimento delle mine terrestri antiuomo, e nel 2008 della Convenzione sulle bombe a grappolo. In questo modo oltre al pieno appoggio ai principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite, agli sforzi in vista di un disarmo generale attraverso un effettivo controllo internazionale, come stabiliscono altri specifici accordi multilaterali di cui la Santa Sede è parte[19], può trovare concretezza l’auspicio che le ingenti spese per gli armamenti siano impiegate in altri settori che sempre più minacciano la pace.

Il tema del disarmo ci riporta all’annoso dibattito sul limite che la forza armata deve avere nelle relazioni internazionali. Ricordo soltanto come le due modalità che la Comunità internazionale ha individuato dopo il "crollo dei muri", e cioè l’intervento umanitario e la responsabilità di proteggere abbiano trovato considerazione rispettivamente negli interventi di Giovanni Paolo II alla FAO nel 1992 [20], e di Benedetto XVI alle Nazioni Unite nel 2008 [21].

I pericoli per la pace e le minacce alla sicurezza, però, impongono la ricerca di ulteriori strumenti e modi di agire, almeno per fronteggiare un mutato scenario: è sufficiente ricordare che al terrorismo delocalizzato affermatosi con l’11 settembre 2001, si è oggi sostituito un terrorismo "extra-territoriale" che promana cioè da entità localizzate territorialmente e che giugno perfino ad utilizzare gli strumenti propri dell’attività statale. Nel disarmare l’aggressore per proteggere persone e comunità non si tratta di escludere l’estrema ratio della legittima difesa, ma di considerarla tale – estrema ratio appunto! – e soprattutto attuarla solo se è chiaro il risultato che si vuole raggiungere e si hanno effettive probabilità di riuscita. Non sto qui solo richiamando una costante dell’insegnamento della Chiesa, ma anche quelle norme del diritto internazionale che hanno fatto superare la convinzione secondo cui l’uso della forza armata si può solo umanizzare, ma non eliminare.

Diventa allora necessario non limitarsi a conoscere le cause di ogni aggressione, ma affrontarle e risolverle secondo il principio di buona fede. La storia della diplomazia narra numerosi episodi in cui per due o più contendenti il territorio di un terzo Stato diventava il luogo in cui confrontare i rispettivi interessi, dimenticando i diritti delle popolazioni residenti, vittime innocenti o costrette a spostamenti forzati; parimenti il diplomatico intuisce le conseguenze che in un conflitto o in una regione instabile comporta la fornitura di armamenti, come pure la garanzia di disporre e utilizzare risorse economiche. Il tutto magari ammantato da motivazioni di ordine strategico, economico, etnico, culturale o finanche religioso. Se manca la volontà di fermare queste situazioni il rischio di allungare la spirale dei conflitti e la destabilizzazione di intere aree è certo, ma la pace non nasce dalla paura delle bombe o dal predominio di uno sull’altro.

Più generale, poi, la ricerca di nuove strade vuol dire affidare la soluzione di dispute a mezzi pacifici, compresi quelli che, ad esempio, comportano l’intervento obbligatorio del giudice internazionale. Un tema caro alla diplomazia pontificia e già manifestato dal Leone XIII in una Lettera alla Regina Guglielmina d’Olanda dell’11 febbraio 1899, mentre con la Conferenza della Pace all’Aja si portava a compimento l’idea della Corte Permanente di Arbitrato. I contenuti di quella Lettera vennero ripresi da Giovanni Paolo II in un indimenticabile discorso alla Corte Internazionale di Giustizia nel 1988, invocando già un «criterio legale di responsabilità individuale e penale verso la Comunità internazionale»[22] che doveva trovare compimento dieci anni dopo con l’istituzione della Corte Penale Internazionale.

La domanda è: se all’interno degli Stati una funzione giudiziaria accentrata ha superato la vendetta e la rappresaglia, non potrà avvenire la stessa cosa nella società degli Stati[23]? Forse è necessario che il nostro ruolo di costruttori di pace diventi fattivo nel proporre idee che possono poi concorrere a definire nuovi scenari e procedure per la pace.

6. Come indicavo all’inizio di queste riflessioni, nella word cloud del termine pace ci sono anche altre situazioni e questioni. E queste interessano l’azione diplomatica della Santa Sede, quando si fa presente nel contesto delle Istituzioni internazionali. Sono i luoghi si lavora non solo per raggiungere la pace, ma anche per far maturare una cultura della pace attraverso i diversi settori delle relazioni internazionali. Si tratta di un processo interessante che la Santa Sede segue fin dagli albori e che, alla luce dell’esperienza, permette di costatare che norme e programmi degli Organismi internazionali non sono poi così distanti dalla quotidianità di persone, comunità e popoli, ma ne orientano comportamenti e suggeriscono stili di vita. Potremo dire che la dimensione multilaterale dei rapporti internazionali, con i suoi metodi e regolazioni sempre più complessi, è parte anch’essa della dimensione globale che caratterizza la nostra epoca. Per la diplomazia della Santa Sede la sfida è duplice. Da un lato essa si sente obbligata ad uno sforzo di formazione e preparazione, riconoscendo che non si può operare nelle Istituzioni intergovernative senza la necessaria competenza, la capacità tecnica e una vera professionalità. Dall’altro, quale strumento ecclesiale, essa deve valutare "se e come" quanto emerge in quei contesti risponde al bene della famiglia umana e non è limitato ad interessi particolari che possono facilmente sconvolgere gli stessi orientamenti e programmi in funzione della pace.

Una tale road map si lega necessariamente alla richiamata prevenzione non solo dei conflitti e della guerra, ma sempre più della tutela della dignità umana e dei diritti ad essa connessi. Diventano allora prioritari fattori come la povertà, il sottosviluppo, le catastrofi naturali, le crisi economiche e altre situazioni che possono turbare o rendere impossibile la pace.

Il richiamo alla dignità umana per la diplomazia pontificia conduce alla tematica della libertà di religione quale diritto articolato che dalle questioni connesse agli atti di culto, giunge alla necessità di riconoscere ad ogni comunità religiosa la capacitò di organizzarsi autonomamente. In questo ambito le relazioni diplomatiche della Santa Sede con gli Stati sono finalizzate a garantire la libertas Eccelsiae, mentre l’azione multilaterale tende a anzitutto a collocare la dimensione religiosa negli sforzi per una pacifica coesistenza tra i Popoli e tra gli Stati. Se esattamente quarant’anni or sono la Santa Sede operò perché nell’Atto finale di Helsinki il diritto alla libertà religiosa fosse considerato uno dei Dieci principi cardine di rinnovate e pacifiche relazioni internazionali, in questo momento è obiettivo della sua azione diplomatica il superamento di un uso strumentale della religione, giungendo persino a considerarla motivo di giustificazione per ogni genere di odio, persecuzione e violenza. Ma, oggi come nel 1975 un elemento rimane costante: gli interventi della Santa Sede hanno a cuore la condizione di tutti i credenti. Un impegno che diventa una sfida nel momento in cui è ben documentato che i cristiani sono tra i più discriminati e continuano a esistere leggi, decisioni e comportamenti intolleranti nei confronti della Chiesa cattolica e delle altre comunità cristiane. Questa sfida parte necessariamente dal considerare preminente il dialogo, come mostra, ad esempio, il sostegno all’idea di strutturare il dialogo tra le religioni in base agli istituti e alla norme del diritto internazionale e che dal 31ottobre 2012 vede la Santa Sede partecipare come Osservatore fondatore al Centro Internazionale per il Dialogo Interreligioso e Interculturale (KAICIID), Organizzazione intergovernativa con sede a Vienna.

Le condizioni di pace, poi, si costruiscono affrontando le questioni dello sviluppo mondiale e della cooperazione internazionale, iniziando dall’orientare programmi e piani di azione verso le legittime aspirazioni di quanti sono costretti a vivere la povertà e il sottosviluppo. Un’indicazione di metodo e un obiettivo da raggiungere che Papa Francesco riprende con toni espliciti: «individualismo, egocentrismo e consumismo materialistico, indeboliscono i legami sociali, alimentando quella mentalità dello "scarto", che induce al disprezzo e all’abbandono dei più deboli, di coloro che vengono considerati "inutili". Così la convivenza umana diventa sempre più simile a un mero do ut des pragmatico ed egoista»[24]. Questo per la diplomazia della Santa Sede significa concorrere nel contesto del Sistema delle Nazioni Unite all’elaborazione della cosiddetta Agenda di Sviluppo post-2015perché siano riconosciute le aspettative di persone e Popoli di veder rispettare la propria dignità e le azioni progettate «arrivino effettivamente a incidere sulle cause strutturali della povertà e della fame, a conseguire ulteriori risultati sostanziali a favore della preservazione dell’ambiente, a garantire un lavoro decente per tutti e a dare una protezione adeguata alla famiglia, elemento essenziale di qualsiasi sviluppo economico e sociale sostenibile. Si tratta, in particolare, di sfidare tutte le forme di ingiustizia, opponendosi alla "economia dell’esclusione", alla "cultura dello scarto" e alla "cultura della morte"»[25].

Ineguale distribuzione degli alimenti, mancato accesso ai mercati, ingiuste regole imposte al commercio internazionale, mancata coscienza ecologica e danni all’ambiente sono alcuni dei fattori che domandano un’effettiva solidarietà tra gli Stati, se si vuole garantire un futuro di pace. Che i conflitti nascono ormai dagli spostamenti forzati di popolazione a causa dei cambiamenti climatici o dell’insicurezza alimentare è un dato reale con cui la diplomazia quotidianamente si confronta. Ma solo un’azione coerente, sorretta da altrettante norme, dal trasferimento di tecnologie e di risorse può avere un’influenza decisiva, facendo della pace il primo tra i nuovi Obiettivi di sviluppo.

In una Università non si può, infine, tralasciare l’interesse dell’azione diplomatica della Santa Sede per l’educazione, che sul piano internazionale si presenta nelle sue diverse fasi e componenti: alfabetizzazione, istruzione, formazione di base e permanente, specializzazione, ricerca, cultura, riconoscimento di percorsi di studio e di titoli accademici. Si tratta di un ambito nel quale convergono programmi e normative elaborati da Istituzioni intergovernative – come è il caso dell’UNESCO e del Consiglio d’Europa – legati a traguardi quali l’accesso all’istruzione, la non discriminazione, la cultura di pace, la tutela delle lingue e delle culture minoritarie, fino alle più recenti indicazioni circa la multiculturalità e l’universalità del patrimonio culturale. Per la Santa Sede questo significa proporre un modello educativo rispondente ai tempi e ai processi in atto, riconoscendo che per le persone e i popoli la pace è parte essenziale di quel «diritto inalienabile ad una educazione, che risponda alla loro vocazione propria e sia conforme al loro temperamento, alla differenza di sesso, alla cultura e alle tradizioni del loro paese, ed insieme aperta ad una fraterna convivenza con gli altri popoli, al fine di garantire la vera unità e la vera pace sulla terra»[26].

7. Guardando l’attività della diplomazia pontificia nello specifico della vita internazionale, quelli delineati restano solo alcuni dei possibili punti di un’agenda che riporta le tante situazioni concorrenti a determinare condizioni di pace. Condizioni che per i loro contenuti richiedono un impegno sempre più specializzato che però non si confonde con quella sterile pragmaticità che spesso anima l’agire dei diversi attori nella Comunità internazionale.

Ad evitarla sono la natura ecclesiale e la missione a servizio della famiglia umana, connotazioni proprie della diplomazia della Santa Sede. Nel suo incontro con i Rappresentanti pontifici Papa Francesco ha offerto in proposito un’indicazione di metodo: «Non siete intermediari, piuttosto siete mediatori, che con la mediazione fate la comunione», e parimenti anche un monito: «fare sempre con professionalità le cose, perché la Chiesa vi vuole così. E quando un Rappresentante Pontificio non fa le cose con professionalità, perde anche autorità»[27].

Vi ringrazio per l’opportunità di condividere queste riflessioni che restano solo un modo di mostrare la strada che ognuno, nelle differenti competenze e responsabilità, può percorrere per attuare ogni sforzo in grado di edificare la pace, dono di Dio e frutto del lavoro delle Sue creature.

____________________

[1] Francesco, Discorso al Corpo Diplomatico, L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2015.

[2] Francesco, Appello per l’Ucraina, Udienza Generale, 4 febbraio 2015, L’Osservatore Romano, 5 febbraio 2015.

[3] Paolo VI, Enc. Populorum Progressio, 76, AAS 59 (1967), 294-295.

[4] Concilio Vaticano II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen Gentium, 13, AAS 57 (1965), 5-71.

[5] Francesco, Discorso ai Rappresentanti Pontifici, 21 giugno 2013, L’Osservatore Romano, 22 giugno 2013.

[6] Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche (1961), Preambolo (la ratifica della Santa Sede e del 17 aprile 1964).

[7] Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969), Preambolo (la ratifica della Santa Sede è del 25 febbraio 1977).

[8] Il titolo è previsto dall’art. 14. In base alla medesima Convenzione (art. 16.3), gli Stati possono riconoscere de jure al Nunzio Apostolico la funzione di Decano del Corpo diplomatico presente nel Paese.

[9] San Giovanni Paolo II, Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (2 ottobre 1979), 11, AAS 71 (1979), 1152.

[10] Può trovarsi riscontro in particolare nei Capitoli VI, VIII e VIII della Carta delle Nazioni Unite dove sono previsti per gli Stati membri obblighi non solo di ordine giuridico, ma anzitutto di ordine politico.

[11] San Giovanni Paolo II, Ai membri del NATO Defense College, Udienza Generale, 16 gennaio 1991, Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV, 1, LEV, Città del Vaticano 1993, 116.

[12] Francesco, Appello per l’Ucraina, Udienza Generale, 4 febbraio 2015, L’Osservatore Romano, 5 febbraio 2015.

[13] Francesco, Omelia alla Santa Messa, Benedizione e imposizione delle Ceneri, 18 febbraio 2015, L’Osservatore Romano, 19 febbraio 2015.

[14] Giovanni XXIII, Il Giornale dell’Anima, Ed. Istituto di Scienze Religiose, Bologna 1987, 386.

[15] Francesco, Meditazione mattutina nella Cappella della Domus Sanctae Marthae, 9 giugno 2014, L’Osservatore Romano, 10 giugno 2014.

[16] Paolo VI, Discorso alle Nazioni Unite (4 ottobre 1965), 7, AAS 57 (1965), 883-884.

[17] Testo originale francese in La Documentation Catholique, N.1582, 21 mars 1971, 256.

[18] Giovanni XXIII, Pacem in Terris, 61, AAS 55 (1963), 257-304.

[19] Si tratta fra le altre della Convenzione sull’interdizione o sulla limitazione dell’uso di alcune armi classiche che possono produrre effetti traumatici eccessivi o indiscriminati e 4 Protocolli annessi del 1980, a cui la Santa Sede ha aderito il 22 luglio 1997; della Convenzione sulla proibizione dello sviluppo, produzione, stoccaggio ed uso delle armi chimiche e sulla loro distruzione del 1993, che la Santa Sede ha ratificato il 12 maggio 1999; del Trattato sull’interdizione globale degli esperimenti nucleari del 1996, che la Santa Sede ha ratificato il 18 luglio 2001; della Convenzione sulla proibizione dello sviluppo, produzione e stoccaggio delle armi batteriologiche (biologiche) e tossiche e sulla loro distruzione (BWC) del 1972, a cui la Santa Sede ha aderito il 4 gennaio 2002.

[20] San Giovanni Paolo II, Discorso alla Conferenza Internazionale sulla Nutrizione (5 dicembre 1992), 3, AAS 85 (1993), 932-933.

[21] Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (18 aprile 2008), AAS 100 (2008), 335.

[22] San Giovanni Paolo II, Discorso pronunciato davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja, 13 maggio 1985, 4, AAS 78 (1986), 520.

[23] Cfr. San Giovanni Paolo II, Enc. Centesimus annus52, AAS 83 (1991), 793-867.

[24] Francesco, Messaggio per la celebrazione della XLVII Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2014, 1, L’Osservatore Romano, 12 dicembre 2013.

[25] Francesco, Discorso ai Membri del Consiglio dei Capi Esecutivi per il Coordinamento delle Nazioni Unite, 9 maggio 2014, L’Osservatore Romano, 10 maggio 2014.

[26] Concilio Vaticano II, Dich. Gravissimum Educationis, 1, AAS 58 (1966) 728-739

[27] Francesco, Discorso ai Rappresentanti Pontifici, 21 giugno 2013.