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CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA IN OCCASIONE
DELLA PRESENTAZIONE DEL DECRETO DI APPROVAZIONE
DEL MARTIRIO DEI BEATI ANTONIO PRIMALDO E COMPAGNI LAICI

OMELIA DEL CARDINALE JOSÉ SARAIVA MARTINS

Cattedrale di Otranto
Martedì, 31 luglio 2007

 

Fratelli carissimi,

sono lieto di presiedere in questa comunità diocesana, ricca del suo bimillenario cammino di fede, la presente liturgia eucaristica. In questa celebrazione volentieri condivido con voi il sentimento della gioia che scaturisce dall'azione eterna di Cristo risorto, attraverso l'efficace presenza dello Spirito che umilmente invochiamo, e il forte vincolo di fraternità che ci fa uno in Cristo, rendendoci, proprio come comunità credente, "segno di unità per il genere umano".

Mi sono già trovato in questa meravigliosa cattedrale, meno di due anni fa, per ricordare solennemente il 25° anniversario della Visita Apostolica del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, di felice memoria, che giunse qui ad Otranto per venerare i Beati Martiri di Otranto nel quinto centenario del loro martirio.

Oggi, il Signore mi ridona l'opportunità di vivere questa solenne liturgia con tutti voi e tra le numerose grazie per le quali esprimiamo la nostra lode, ricordiamo particolarmente quella del riconoscimento della storicità del martirio, avvenuto il 6 luglio sc., da parte del Sommo Pontefice Benedetto XVI, cui va il nostro filiale e devoto pensiero.

A ragione si può dire, ora, che non c'è solo la storia della gloriosa pagina del martirio, ma anche la storia della venerazione ai Martiri da parte di una chiesa locale che ha saputo e ha voluto, attraverso lo zelo dei suoi pastori, camminare con la chiesa intera. Il mio sguardo, perciò, si rivolge verso queste due direzioni, la storia del martirio e il culto ai Martiri da parte di questa chiesa, consapevole che entrambe le direzioni hanno una fortissima ricaduta nel presente, entrambe sono fondate sul mistero di Cristo ed entrambe, infine, rivelano il mistero della Chiesa.

I. Innanzitutto l'evento del martirio.

Quella vicenda, che vide come diretti protagonisti Antonio Primaldo e circa 800 uomini al di sopra dei 15 anni, è subito raccolta da Pietro Colonna nei suoi "Commenti sull'Apocalisse". Egli oltre a darne una dettagliata descrizione, riconosce che in quell'agosto del 1480 Otranto era diventata un altare dal quale saliva una solenne dossologia da quelle persone, reclutate al momento, al temine dell'assedio della città, ma scelte da sempre da Cristo per essere configurate a Lui attraverso il dono irreversibile della loro vita.

Avevano ancora negli occhi il sangue di una città distrutta dall'assedio e dall'uccisione perfino del loro pastore Pendinelli, cosicché alla proposta di un compromesso risposero, attraverso un interprete, con la radicalità della loro fede. Il vero ed unico interprete del loro cuore, però, era lo Spirito che, come "dolce ospite dell'anima", li sorreggeva in quella suprema prova, alimentando in loro una carità eroica, una fede intrepida e una speranza viva.

"Questo vi darà occasione di rendere testimonianza" (Lc 21, 13): è la situazione già prevista dal Signore e che l'evangelista Luca ha voluto conservare come l'altra faccia della "buona notizia"... poiché "il discepolo non è più grande del suo maestro".

L'eccezionalità di quell'ora, poi, si realizzò proprio quando essi iniziarono a coniugare al plurale la professio fidei di Antonio Primaldo. Le pennellate del Galatino sono tanto vibranti da richiamare quelle che più di 1000 anni prima avevano dipinto gli Acta martyrum della Chiesa nascente. Da ogni suo passaggio descrittivo, come da feritoie, passa la luce riflessa di quella comunità ecclesiale che sul Colle della Minerva, nell'atto del martirio, compone i colori dell'iride di una vocazione, cui il Signore l'aveva preparata.

"E si sentì un mormorio tra di loro - dice ancora il Galatino - per lo spazio di un'ora...". Fu un'ora di preghiera, un'ora di comunione, un'ora di prova e, forse, anche un'ora di tentazione. Quell'ora... così simile, in fondo, a tante nostre ore in cui, però, per molto meno, entriamo nel crepuscolo della mediocrità, rinunciando per sempre allo "splendore della verità", come lo definiva Giovanni Paolo II.

Quei Martiri, poi, proprio in quell'ora, diedero visibilità alla loro comunione di fede, prima ancora che con il martirio, attraverso un'autentica comunione fraterna. Nel ricordo, infatti, delle parole del vangelo, per rendere più gradita l'offerta della loro vita, sentirono il bisogno di purificare le residue scorie delle loro fragilità; consolandosi, perciò, l'un l'altro e chiedendosi sinceramente perdono, si scambiarono il bacio della pace.

Cosa vuol dire allora, oggi, riconoscere la storicità del martirio? Non certamente la riaffermazione storicistica dell'eccidio, quanto la verità della lettura di fede di esso come l'unica possibile. Non solo l'attendibilità di quell'episodio, ma anche e soprattutto il suo spessore semantico; non solo la definizione dei contorni di una tragedia, ma anche e soprattutto le dinamiche di una testimonianza.

In altri termini, una lettura in controluce di quella pagina storica ci permette di cogliere in essa la filigrana della presenza del primo protagonista: Gesù Cristo. Quei martiri hanno fatto derivare la comprensione della verità di quel momento del tutto imprevisto e il bisogno di conservare la loro autenticità interiore, così fortemente compromessa, dalla confidenza in Lui e hanno sorretto la loro fedeltà cristiana con la sicurezza di essere inseparabilmente "presso di Lui nell'amore" (Sap 3, 9). Anche Teresa del Bambin Gesù, sia pur senza la prova estrema del martirio, giungerà più tardi a questa stessa meravigliosa sintesi racchiusa in due parole semplici, ma d'oro: le confiance e l'amour.

Oltre a tutto ciò, i martiri hanno riconsegnato all'umanità quel prezioso patrimonio che da 2000 anni fa luce sulla vita ordinaria dei credenti: "una speranza piena di immortalità" (Sap 3, 4). Questi Martiri di Otranto, i martiri di tutti i tempi hanno già il volto della "Chiesa della speranza", così come l'ha brillantemente definita la Nota pastorale dopo il IV Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona dell'ottobre scorso. E guardando i martiri, oggi, senza difficoltà faccio eco delle splendide parole di questa Nota pastorale, secondo la quale: "la Chiesa comunica la speranza, che è Cristo, soprattutto attraverso il suo modo di essere e di vivere nel mondo" (n. 20).

Quei cristiani di 5 secoli fa hanno dato a questa Chiesa locale la più bella lezione di speranza!

II. A questo punto vorrei curvare lo sguardo sulla storia della venerazione che questa Chiesa locale da sempre ha reso ai suoi 800 Martiri. Sento il bisogno, infatti, di fare riferimento alla vostra devozione ai beati, perché non ceda mai alla tentazione di uno sterile devozionalismo o di una orgogliosa apologia auto-celebrativa.

Il nostro attuale impegno è, piuttosto, quello di individuare nella paradossalità della loro risposta i motivi di ragionevolezza interna, quella ratio che scongiura la possibilità di vederli come inconsapevoli sia pur eroiche vittime e ci induce con certezza a riconoscerli quali convinti e liberi protagonisti. Il nostro vivo desiderio è quello di cogliere nella loro vita la forte affermazione di uno dei segreti più importanti per la vita di ogni cristiano: "Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime" (Lc 21, 19).

L'evento salvifico di Cristo ha reso nitido l'orizzonte dialettico in cui si trova l'umanità: da una parte infatti "la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente acquisita e in un certo modo reale anticipata" (LG 48) nei tanti segni presenti nella Chiesa e al di fuori di essa, dall'altra proprio la Chiesa "porta la figura fugace di questo mondo... , vive tra le creature, le quali ancora gemono, sono nel travaglio del parto e sospirano la manifestazione dei figli di Dio (Rom 8, 19-22)" (LG 48). Sarebbe parziale, però, limitare gli effetti della Pasqua nel "qui" ed "ora" dell'orizzonte storico, non considerando la comunità dei salvati, che già gode della luce del Risorto e sarebbe errato non cogliere quella comunione che ininterrottamente persiste tra la comunità celeste e quella terrestre che è espressione dell'unica unione con Cristo, sia pur vissuta a livelli diversi.

In altri termini, tutto il mistero della storia della salvezza e, in esso, il bene prezioso della devozione ai santi è finalizzato alla comunione di tutto il genere umano con Dio, con il "Christus totus", di cui fa menzione S. Agostino. Solo dalla comunione dei Santi con Dio, infatti, scaturisce, come un getto di fonte che prorompe irrefrenabile dalla roccia, la forza della loro mediazione.

Una preziosa mediazione che, attraverso la parresia (la testimonianza forte), la kauchesis (la fierezza della propria fede) e l'orientamento all'escathon (al senso ultimo della vita), comunica ancora oggi l'inalterabile novità cristiana, di cui abbiamo urgente bisogno per una rinnovata visione dell'uomo.

Con la parresia, innanzitutto, essi rivelano una dignità umana tutt'altro che frammentata, la statura di persone che sono in piedi, ... che muoiono in piedi, proprio come Antonio Primaldo, e che dicono a faccia alta, apertamente, con libertà "se un tuo fratello ti chiede di fare un miglio, tu fanne con lui due e se ti toglie il mantello, tu dagli anche la tunica". La parresia permette loro di modulare la forza della verità con la coerenza di un amore fedele e senza condizioni... accettando di scendere anche l'abisso della chenosi, consapevoli che quanto più è fredda la notte, tanto più vicina è l'alba.

Con la kauchesis, poi, essi esprimono la volontà di gloriarsi della fede in Gesù Cristo, avendo fatto di essa e solo di essa il fondamento delle loro scelte esistenziali. Anche noi, nel corso dei secoli, nell'ufficialità del rito del Battesimo, dopo la professione di fede, che sovente conserva il gusto diretto della dialogicità, affermiamo: "Questa è la nostra fede, questa è la fede della Chiesa e noi ci gloriamo di professarlo in Gesù nostro Signore!". Sul tappeto, allora, del nostro vivere quotidiano, così spesso pieno di delusioni e così vuoto di speranze, non possiamo porre una fede che si accontenta di risposte ovvie e pacificanti. La vera fede, seguendo la via del Maestro, ci chiede di passare attraverso il "caso serio" della croce, quale occasione concreta per un amore superiore.

Con lo sguardo rivolto verso l'escathon, infine, essi incarnano la logica delle beatitudini evangeliche e costituiscono l'anticipazione del rovesciamento radicale dell'attuale condizione umana. Il loro martirio è un inequivocabile rimando al destino ultimo dell'uomo, che, insieme alla sua origine, è un bene indeducibile. Essi ci dicono che se Cristo non fosse "l'Alfa e l'Omega", la vita sarebbe priva di senso e, in più, che solo accogliendo l'origine e il destino ultimo di ogni uomo come il più grande dono scaturito dal cuore di Dio si riesce ad orientare la propria vita in una sincera e totale pro-esistenza.

III. Il martirio del 1480 racchiude tutto ciò e il Santo Padre, come successore di Pietro, riconoscendolo nella sua autenticità, rilancia l'attualità di questo straordinario patrimonio spirituale a questa comunità di Otranto e alla Chiesa intera. Chiede, inoltre, che il culto verso i Martiri non perda il suo originario vigore, lo stesso che ha fatto di quell'evento un momento di non ritorno per questa diocesi, quello che già nei giorni successivi al martirio fece fiorire nel cuore dei sopravvissuti il desiderio di rivolgersi a loro non con la preghiera per i defunti, ma con la preghiera riservata ai martiri, cosicché giustamente annota il Decreto del Sommo Pontefice "ab inizio quotannis die 14 mensis Augusti ab Ecclesia Hydruntina eorum memoria pie celebrata est", il vigore, infine, che ha alimentato la sollecitudine dei Vescovi otrantini, fino ad arrivare con Mons. Negro a questa ulteriore fondamentale tappa verso la canonizzazione.

Tale culto possa abilitarci a procedere con un passo spedito sul sentiero impervio della vita, che, come i sentieri più faticosi di montagna, è già segnato dal sangue di Cristo e da quello di questi "Christi nobiles atletae" e, nello stesso tempo, ci orienti verso il non facile stile dell'attesa di quella promessa che per primo Dio rivolse ad Abramo, invitandolo a guardare in ogni stella un figlio della sua discendenza, e che ora in Cristo è giunta davvero ormai "fino ai confini del mondo".

Tenere il martirio davanti agli occhi significa per la chiesa di oggi assumere l'atteggiamento giusto di fronte al mondo: né quello della resa accomodante, né quello della provocazione auto-compiaciuta. L'atteggiamento, appunto, dei martiri di tutti i tempi, i quali hanno saputo trovare nella promessa la luce sufficiente per camminare incontro al Signore che viene, sopportando la tribolazione e senza mai spegnere la speranza.

Sta qui il senso profondo dell'espressione lucana, "io vi darò lingua e sapienza" (Lc 9, 15): riuscire a leggere e a "giustificare", nel significato paolino del termine, ogni circostanza, anche la più difficile, a partire dall'evento della croce. Giovanni Paolo II affermava nella Evangelium Vitae: "La croce di Gesù si rivela come il centro, il senso e il fine di tutta la storia e di ogni vita umana".

Venerare i martiri di Otranto, perciò, significa - usando di nuovo le parole di Benedetto XVI a Verona - riconoscerli come "testimoni del grande "sì" di Dio all'uomo" e nello stesso tempo come coloro che, proprio nella loro massima fragilità umana, hanno reso visibile il grande "sì" della fede.

È proprio vero quello che diceva Tertulliano, richiamando la straordinaria fertilità apostolica del martirio: "Diventiamo più numerosi, tutte le volte che veniamo uccisi; il sangue dei martiri è un seme" (Apologeticus, 50, PL 1, 534). Che la fecondità spirituale e pastorale di questa Chiesa idruntina e della chiesa intera sia il segno più credibile della sua devozione ai Martiri!

 

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